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VISITA PASTORALE AD IVREA

INCONTRO DI GIOVANNI PAOLO II
CON I LAVORATORI DELLE OFFICINE OLIVETTI

Solennità di San Giuseppe
Ivrea (Torino) - Lunedì, 19 marzo 1990

 

Carissimi fratelli e sorelle.

1. A tutti il mio saluto deferente e cordiale. Sono lieto d’incontrarmi con voi, dirigenti, impiegati e operai di questa grande azienda, vanto della vostra città e dell’Italia. Ringrazio il signor presidente della Olivetti e chi s’è fatto interprete dei comuni sentimenti per le espressioni rivoltemi, nelle quali ho potuto cogliere, in rapida sintesi, le preoccupazioni e le speranze, che animano il mondo aziendale in questo particolare momento.

È spontaneo, in una circostanza come questa, riandare col pensiero alla figura dell’ing. Adriano Olivetti, il coraggioso imprenditore che volle fare della fabbrica un luogo di autentica esperienza umana, attingendo sicuramente ispirazione, in questo suo progetto, anche dal patrimonio di valori religiosi tramandatogli dagli avi.

2. La Chiesa celebra oggi la solennità di san Giuseppe, sposo di Maria santissima, padre putativo di Gesù, ma anche “carpentiere” (Mc 6, 3) e degno, come tale, di essere venerato quale patrono di tutti i lavoratori. San Giuseppe, la persona più vicina al Signore dopo Maria, Madre Vergine di Gesù, era un lavoratore: non uno scienziato, non un dottore della legge, non un dirigente politico, non un professionista, non un sacerdote, ma un “carpentiere”. E questo non per caso, ma per volontà di Dio Padre.

Ciò sta a indicare quanto il lavoro umano, anche il più umile, conti agli occhi di Dio, agli occhi del suo Figlio Gesù Cristo, il quale volle nascere in una famiglia di lavoratori e, come insegna san Paolo, “da ricco che era (perché era Dio), si fece povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2 Cor 8, 9). In che senso “ricchi”? In un senso che trascende il semplice dato materiale e tocca la dimensione spirituale dell’uomo, quella in cui si fonda la sua dignità di persona. Scegliendosi come “padre putativo” un carpentiere e facendosi carpentiere egli stesso, Cristo ha “arricchito” il lavoro umano di una dignità ineguagliabile. Ormai chi lavora sa di compiere qualcosa di divino, che ben può ricollegarsi con l’opera iniziale del Creatore.

È noto che nel mondo pagano il lavoro manuale era poco considerato, al punto da essere ritenuto attività non degna di uomini liberi. Il cristianesimo ha capovolto tale valutazione. Da quando il Figlio di Dio ha accettato di chinarsi sul banco di lavoro accanto al “carpentiere” Giuseppe, la fatica fisica ha cessato di essere considerata disdicevole, e ha anzi cominciato ad essere ritenuta un motivo di legittimo vanto. Ormai chi s’affatica nell’adempimento del proprio dovere professionale - qualunque dovere, purché onesto - può sentirsi “ricco” della dignità che il Signore ha conferito ad ogni lavoro e a tutti i lavoratori.

Oggi guardiamo a san Giuseppe, modello e prototipo di tale “dignità”, e in lui rendiamo omaggio a ogni persona che lavora per il proprio sostentamento e per quello della sua famiglia. È la Chiesa stessa che, alla luce di questo modello, sente oggi il dovere di riconoscere e onorare la “dignità” di ogni lavoratore. È proprio per dare espressione a questo riconoscimento che il Papa è qui, oggi, tra voi.

Rendere onore al lavoro è celebrare l’uomo, la sua dignità, il suo ingegno, la sua capacità produttiva. Alle nuove sfide che le trasformazioni sociali e le frontiere della tecnologia pongono alla coscienza cristiana, occorre rispondere guardando, come a stella polare, al messaggio che ci viene dal Vangelo.

3. Nelle parole che mi sono state rivolte si è fatto riferimento a conoscenze e tecniche complesse, ancora in via di rapido sviluppo, sulle quali non è ovviamente possibile formulare giudizi esaustivi o proporre orientamenti definitivi. Il fatto, tuttavia, che si sia sentito il desiderio di mettermi a parte di problemi, difficoltà, aspirazioni oggi particolarmente avvertite, mi sembra una testimonianza significativa di quel cammino di confronto e di dialogo, che ritengo condizione essenziale per risolvere situazioni di così vasta complessità.

I valori spirituali e morali, peraltro, a cui nel dialogo si deve far riferimento, pur nel variare delle strutture tecniche non sono mutati né possono mutare. Certo, chi utilizza un computer, sia digitando le informazioni necessarie sia provvedendo alla elaborazione di nuovi programmi, compie un lavoro ben diverso da quello a cui era abituato l’uomo nel passato. Anche qui, tuttavia, resta il dato costante della necessaria applicazione della mente e delle forze umane alla trasformazione di una materia prima, che rimarrebbe altrimenti informe e inerte. Neanche il computer, con tutte le sue molteplici prestazioni, può compiere tutto da sé.

Proprio in questo si manifesta la vera “dignità” del lavoro: nel fatto cioè che i prodotti, per essere tali, richiedono il sigillo dell’uomo. Prima del marchio di fabbrica, questo è il connotato che li distingue e quasi li qualifica dall’interno: l’essere prodotti umani. Dietro ciascuno di essi, per quanto sofisticato e perfetto, si celano l’intelligenza, la volontà e le energie di un uomo o di una donna. La tecnologia, anche quella più avanzata, non sopprime questa esigenza.

4. Di qui scaturisce anche la norma fondamentale che regola ogni attività lavorativa: essa non deve umiliare l’uomo, ma consentirgli di esprimersi nella sua trascendente dignità, attuando progressivamente le proprie capacità personali. È alla luce di questa norma che occorre valutare anche la tecnologia applicata alla produzione. Le finalità che con essa si perseguono sono note: rifinire un prodotto più di quanto non si potrebbe con le sole capacità naturali; agevolare il lavoro così da incrementare la produzione; ridurre i costi contraendo il numero delle persone impegnate nel processo produttivo. Orbene: in che misura tali finalità rispettano la norma ora enunciata? Questo è l’interrogativo che le nuove condizioni di lavoro pongono con urgenza sempre maggiore.

Certo, il processo di avanzamento tecnologico è irreversibile. È, questo, un dato che occorre riconoscere senza indulgere a sterili rimpianti. Il credente, anzi, ringrazia di ciò Iddio, che ha trasmesso all’uomo non soltanto la capacità, ma anche il dovere di sviluppare le risorse del creato (cf. Sollicitudo rei socialis, 29). Anche le attività collegate con l’alta tecnologia fanno parte del lavoro “umano” e possono quindi rivestirne la medesima “dignità”. Esse, anzi, in quanto più complesse e perfette, di regola rispecchiano meglio che non altre la dignità dell’uomo che le svolge. Al tempo stesso, però, proprio per la loro sofisticata complessità, esse possono anche nascondere insidie particolarmente sottili, dalle quali la dignità dell’uomo può essere messa a repentaglio.

È necessario, perciò, mantenere un atteggiamento di prudenza e vagliare con occhio attento natura, finalità e modi delle varie forme di tecnologia applicata. È chiaro, ad esempio, che non potrebbe essere accettata, al riguardo, una programmazione delle scelte tecnologiche governata dalla sola logica del profitto. Nell’attività economica la ricerca del profitto è di per sé legittima e necessaria, ma la sua “massimizzazione” non può essere criterio né unico né assoluto. Di conseguenza, non si può moralmente accettare, né ci si deve passivamente rassegnare ad una crescente disoccupazione come effetto inevitabile dell’applicazione di tecnologie avanzate. Ciò significherebbe, infatti, sacrificare l’uomo alla macchina e la “dignità” del lavoro, che a un tale effetto conduca, verrebbe radicalmente pregiudicata.

È solo un esempio dei molti che si potrebbero fare. Da esso, tuttavia, già appare la complessità del problema, che non può essere opportunamente affrontato e risolto senza la previa considerazione di tutti i suoi aspetti. È perciò legittimo chiedere ai responsabili di voler tener conto, nelle loro decisioni, di ogni fattore, avendo sempre presente che criterio supremo nelle scelte operative deve restare il rispetto della “dignità” del lavoro umano e delle persone che lo esercitano. È solo a questa condizione infatti che la tecnologia può ottenere il suo giusto posto.

5. È necessario resistere alla tentazione di fare della tecnologia un nuovo idolo. E ciò vale tanto per la tecnologia applicata al lavoro industriale che per i prodotti da esso risultanti.

È vero che grazie al contributo di aziende come la vostra la società si è arricchita di notevoli “comfort” e che il peso di alcuni lavori gravosi si è di molto alleggerito. Tuttavia, occorre ripeterlo: la tecnologia e i suoi prodotti non sono tutto. È infatti il caso di chiedersi, se il semplice incremento tecnologico applicato al lavoro e al tempo libero, porti di per sé a un miglioramento della qualità della vita nella sua globalità. Come dimenticare, ad esempio, gli effetti inquinanti, collaterali allo sviluppo tecnologico, dei quali ho parlato nel Messaggio per la Giornata della pace di quest’anno? E si può forse ignorare l’interrogativo circa la destinazione dei prodotti tecnologici? La loro qualità umana non si può certo decidere soltanto sulla base della loro “praticità”, della perfezione delle loro prestazioni tecniche, del “comfort” che ne risulta. Ci sono altri valori che occorre rispettare perché la qualità del prodotto possa considerarsi pienamente degna dell’uomo.

Come credenti in Dio, che ha giudicato “buona” la natura da lui creata, noi godiamo dei progressi tecnici ed economici, che l’uomo con la sua intelligenza riesce a realizzare. Restiamo, però, consapevoli che essi, come tutti i beni creati portano in sé una radicale ambivalenza. Sta all’uomo farne il giusto uso, operando per la propria crescita e per una più profonda solidarietà nei confronti del prossimo. Così, dipende dal suo senso di responsabilità valersi delle nuove tecnologie informatiche per accrescere le proprie conoscenze e ampliare la propria influenza sul creato, rifiutandosi tuttavia di ridurle a strumenti di sfruttamento irrazionale, di manipolazioni antinaturali o di indebite pressioni psicologiche. Ugualmente dipende da lui servirsi della biotecnologia e della ingegneria genetica a vantaggio della vita e della salute, non cedendo alla tentazione di far violenza alla persona umana o di manipolarla in modo incompatibile con la sua dignità.

6. Tutto ciò presuppone, da parte degli imprenditori, ampiezza di vedute e vigile consapevolezza delle proprie responsabilità, le quali vanno ben oltre il campo puramente manageriale e finanziario. Ma ciò chiama in causa anche il sindacato, che deve rivedere il suo ruolo e i suoi metodi di azione, per non trascurare la funzione di promotore della solidarietà che gli compete, non solo all’interno della fabbrica, ma anche nell’ambito più vasto della comunità civile.

L’impegno, infine, del legislatore non mancherà di orientare i cittadini nella ricerca dei necessari equilibri, secondo i criteri di vera giustizia, specialmente verso i più deboli e i meno abbienti, opponendosi a ogni interferenza che tenti di piegare la norma a favore di interessi privati.

7. Cari amici, auspico di cuore che questa vostra azienda sappia progredire verso gli obiettivi ora tratteggiati.

La Chiesa non può non rallegrarsi di ogni progresso umano che esalti l’intelligenza, sigillo di Dio nell’uomo, alleviando la fatica fisica e scongiurando l’appiattimento psicologico e spirituale. Nella linea del Concilio Vaticano II, essa promuove i veri valori della scienza e della tecnica, al servizio della crescita personale e della solidarietà universale.

Cari dirigenti, impiegati, maestranze, amici tutti, affido voi e il vostro lavoro all’umile artigiano di Nazaret, a cui fu chiesto di sostenere, con il frutto della sua operosità, la Sacra Famiglia, nella quale viveva il Figlio stesso di Dio fatto uomo. Egli vi protegga e vi sostenga nel perseguimento delle vostre giuste aspirazioni.

A voi e alle vostre famiglie l’augurio cordiale di prosperità e di pace nel Signore!

 



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