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VISITA DI PAOLO VI
AI CANTIERI EDILI DI PIETRALATA

Mercoledì, 9 febbraio 1966

 

Devo esprimere anzitutto un ringraziamento. Sono molto lieto di questo incontro, come vedo che lo siete voi; e questa comune letizia deve appunto trasformarsi in espressione di gratitudine: a chi ha fatto l’invito cortese, di venire a visitare e a benedire le nuove costruzioni del Quartiere di Pietralata, cioè al Presidente dell’Istituto autonomo per le Case Popolari della Provincia di Roma, il Comm. Scognamiglio. Conoscendo quanto egli si occupi dell’opera, che gli è stata affidata, debbo veramente compiacermi con lui di fronte a voi tutti, per questa bella realizzazione, e specialmente per l’animo con cui serve il nobile scopo di dare casa, lavoro e tranquillità agli abitanti della Provincia.

Così debbo ringraziare tutti coloro che collaborano e hanno merito in questa impresa; e tutti voi, cari operai, per l’accoglienza che mi avete riservata, per il vostro numero, veramente consolante: certamente, se avessi trovato in cantiere poca gente, sarebbe stata minore la mia soddisfazione, mentre, trovare molti in una volta sola, è per me cagione di profonda letizia. Grazie ancora per le vostre parole, grazie per i doni che mi avete fatti con tanta bontà e cortesia, indicando con quale animo mi abbiate voluto ricevere: e questi doni, strumenti del vostro lavoro, li terrò assai cari per vostro ricordo.

IL COMPIACIMENTO DEL PAPA

In secondo luogo debbo esprimere il mio particolare compiacimento: all’Istituto delle Case Popolari, per l’opera altamente sociale e benefica, che esso svolge; alle Autorità e agli Istituti governativi, che presiedono a queste grandi cose: al Signor Ministro, ai collaboratori e promotori; a tutti gli altri, poi, come agli ingegneri, uno dei quali ha preso la parola; ebbene - sono certo, che vi associerete a questo mio pensiero - esprimo tutta la mia ammirazione per la grandiosità e la bellezza dell’iniziativa, per l’armonia che già dà all’occhio il piacere di contemplare una città nuova. Ma particolarmente con voi debbo felicitarmi, con voi che avete costruito queste case: tecnici e costruttori, maestranze e manovalanze, quanti avete insieme prestato la vostra opera nei vari settori del lavoro edilizio.

Costruire una casa non è facile, perché presenta tante complicazioni, tanti servizi che impegnano una quantità di categorie di lavoratori.

Quindi io sono proprio lieto di compiacermi con tutti, perché dal concerto delle loro fatiche, e dal sommarsi di tutti i disegni, di tutti i progetti, di tutti i finanziamenti, risulta una cosa veramente bella e benefica e moderna, quella di cui la nostra società ha tanto bisogno. E al compiacimento dovrei aggiungere l’auspicio che di queste opere Roma possa circondarsi; e che tutte quelle povere casupole, sorte specialmente dopo la guerra per opera di tutta la gente affluita nella Capitale, che si è costruita delle abitazioni misere e insufficienti, possano scomparire e la città, invece di essere circondata da un anello di case inabitabili, sia cinta da questa città nuova che fa vedere come il popolo italiano sappia davvero progredire sulla via delle belle novità e sappia dare alla sua gente le abitazioni di cui ha bisogno per la sua vita buona, sana, onesta. Con la casa sufficiente, pulita, comoda, accogliente, cambiano idee e sentimenti, si forma un nuovo senso sociale, una nuova sensibilità morale.

Fra questa cinta di case sorgerà pure presto la chiesa? Me lo auguro di cuore; e in auspicio di tale soave speranza, desidero che fra i doni che mi avete fatti, quelli religiosi come il calice e l’ostensorio siano destinati fin d’ora alla chiesa che sorgerà e che deve completare questa piccola città, la quale deve avere il suo cuore, il suo centro nella chiesa che costruiremo; in modo che possiate sempre vederli a ricordo di questo nostro incontro.

«PERCHÉ SONO VENUTO? . . .»

E questo pensiero che si rivolge alla chiesa mi suggerisce una riflessione che confido a voi, che più che un discorso è una domanda: perché sono venuto? per quale ragione?

Devo dire subito che questa mia venuta non nasconde alcun interesse; io non sono membro di nessuna società, non ho nessun beneficio e nessuna mira, direi, d’indole economica, materiale. Le mie ragioni sono d’altro ordine, diverse; voi potrete forse indovinare alcuni dei motivi che qui mi spingono. Ma sono due principalmente le circostanze, che - oltre l’invito - mi hanno spinto a venire qui fra voi. Una è il Concilio: avete inteso parlare del Concilio? Ebbene, è proprio il Concilio che mi manda, perché questa grande adunanza dei Vescovi di tutto il mondo si è molto occupata di voi, del lavoro, del popolo, dei bisogni sociali, del progresso, di questa fatica umana che deve essere considerata, valorizzata; e ci sono appunto pagine scritte dal Concilio che vi riguardano e sono in vostro favore, sono per voi, per il vostro onore, per la vostra libertà, per il vostro progresso, per tutto quello che potete legittimamente e umanamente desiderare.

Ve ne parleremo. E poi c’è un’altra ragione succedanea al Concilio, e cioè il Giubileo, che lo ha seguito: è la Chiesa che apre le braccia ai figli e dice: celebriamo questa novità, questo proposito di rinnovare cristianamente le nostre vite; vogliamoci bene, cerchiamo di riconciliarci con Dio, preghiamo insieme e promettiamo di essere bravi e buoni.

LA CHIESA È VICINA AI LAVORATORI

Però né l’una né l’altra ragione sarebbero forse state sufficienti per muovere i miei passi per venire qua; la vera ragione è questa: mi preme di farvi sapere, di farvi vedere che la Chiesa vi è vicina. Osservate, io credo che è la prima volta che il Papa entri in un cantiere di lavoro.

I Papi sono andati tante volte a vedere i lavoro finiti, a inaugurarli; così mi ricordo di aver visto una immagine, una delle prime fotografie del secolo scorso, in cui si vede Pio IX in visita al primo tronco ferroviario, costruito nei suoi Stati; ma allora il Papa era anche Sovrano temporale, civile. Molte volte i Papi si interessarono dei problemi del lavoro; moltissime volte ricevettero le schiere di lavoratori, da quelle guidate da Léon Harmel fino alle nostre ACLI. Il Papa parlò, accolse, beneficò, benedisse; ma, al tempo nostro almeno, non aveva mai visitato non solo i lavori in corso, ma i Lavoratori sul lavoro. È un primato che mi commuove, come quando sono stato per la prima volta in Palestina, in India, e per la prima volta in mezzo al concerto delle Nazioni; allo stesso modo per la prima volta ho voluto ora venire in mezzo a voi, in mezzo al mondo del lavoro, non soltanto alle opere del lavoro, ma a quelli che le creano, che le costruiscono, cioè agli operai, ai lavoratori, a coloro dalle cui mani, dalla cui fatica, dalla cui sapienza sorgono queste opere nuove.

Sono venuto per onorare il lavoro moderno: questa è una delle ragioni. Ma voi mi potreste ancora chiedere: ma perché questo? Non conosce il Papa i lavoratori? Certo che li conosco! I miei Predececsori, l’avete sentito anche voi spiegare tante volte, hanno scritto dei bellissimi documenti proprio per le classi lavoratrici. Avete sentito parlare della Rerum Novarum, della Mater et Magistra, di queste encicliche, cioè di questi grandi documenti pontifici che sono la magna charta, i grandi statuti che dovrebbero guidare le vie ascensionali del lavoro moderno. Quindi i Papi non sono mai stati estranei ai problemi del lavoro; e poi ricevono anche pellegrinaggi di lavoratori. Ogni settimana ho dei gruppi che vengono a trovarmi. Pure questa mattina, all’udienza generale, ci sono stati diversi lavoratori. Ma sono gruppi, sono nuclei di lavoratori che si fanno avanti da sé e il Papa li accoglie. Ma sono tutti? Questo mondo del lavoro è così ristretto, come sono relativamente ristrette le folle che vengono a trovarmi, o non è il mondo del lavoro grande, grande come un mare, fino a coprire quasi tutta l’area della nostra società? Io pongo uno dei problemi più semplici, ma anche più gravi - lo potete ben comprendere - del mondo moderno, che costituisce la storia di tutti questi ultimi anni, dal secolo scorso fino adesso: che cosa è successo? È successo che il mondo del lavoro non va più verso la religione, verso la fede, verso la Chiesa; anzi, lo avrete sentito anche voi, lo provate forse anche voi, nelle vostre coscienze, nei vostri circoli, nelle vostre riunioni, c’è quasi un senso di distacco, di diffidenza: l’operaio moderno sente di essere fuori, di essere estraneo, quando non sia addirittura nemico; non c’è più questa simpatia, questa convivenza, questa trasfusione di esperienze vitali che venivano dalla Chiesa al mondo del lavoro e dal mondo del lavoro risalivano verso la Chiesa.

Il popolo d’una volta - lo sapete bene anche voi, se venite dalle campagne - alla Chiesa invece ci va volentieri; ma nel mondo del lavoro moderno si è prodotta questa scissione: Pio XI ha parlato perfino di apostasia del mondo del lavoro.

Sarebbe un discorso molto lungo, ma io non lo faccio. Vi lascio invece una domanda: se siete intelligenti, se siete bravi, ponetevi voi, da voi stessi, questa domanda: perché non sentiamo più il bisogno di Cristo, perché non sentiamo più il bisogno di una osservanza religiosa, perché abbiamo tanta diffidenza e forse tanta antipatia per tutto il mondo della Chiesa, della religione e così via? Perché questa frattura? Cioè, perché non venite più voi, a trovare me? E se riflettete, nel silenzio delle vostre coscienze troverete tanto tanto da pensare, da giudicare, sul nostro mondo. Ma capirete almeno questo: il perché io sono venuto, che è molto semplice: perché voi non venite da me, io vengo da voi.

«. . . SONO VENUTO A CERCARVI . . .»

Sono venuto proprio a cercarvi, e quello che avviene adesso in questo bellissimo e grande quadro, non dev’essere che un piccolo simbolo. Io vengo a voi, e vedo in voi i rappresentanti di tutta l’immensa folla umana del mondo del lavoro; io vengo a cercarvi, per dirvi che la Chiesa vi è vicina, che noi vi comprendiamo, che noi vi amiamo, che siamo vostri amici. E non c’è nessuna ragione per dubitare di questo. Perché vorreste dubitarne? Che cosa abbiamo fatto contro di voi? Avete qualche cosa da obiettarci? Desiderate qualche cosa da noi? Perché non abbiamo altro desiderio che di soddisfare le vostre necessità, di elevare le vostre condizioni, di conoscere le vostre sofferenze, di scusare anche certe vostre intemperanze, certe vostre manifestazioni.

Non abbiamo che buoni sentimenti. Per me, venire tra voi, credete che sia stata una cosa difficile? È stata invece una gioia, io sono contentissimo, io vorrei venirci tutti i giorni e non solo in questo cantiere, ma, se avessi tempo, e se il Signore mi desse forza e facoltà di farlo, andrei a trovare tutti, ad uno ad uno, le vostre case, le vostre famiglie, i vostri figli. Nessuna ragione mi separa da voi, anzi verso di voi mi attrae una grande simpatia, un grande amore, una grande carità. E quello che voi tante volte credete che vi renda meno presentabili - vi conosco, sapete? - vi rende ancora più cari. Tante volte andando a Milano nelle officine tendevo la mano ai lavoratori, muratori o meccanici; se si tiravano indietro pensando che la loro mano non fosse presentabile, allora dicevo loro paternamente: «Ma dà qui la mano, che siamo amici!».

E quello che si dice della mano si può dire dei pensieri, e della vostra anima. Sappiamo comprendervi, sappiamo conoscervi, sappiamo scusare tante cose che sarebbero da correggere e che non sono approvabili; ma siccome vi vogliamo bene, tutto questo per noi è superabile.

E dirò ancora - in questo spero che voi mi comprendiate - l’ultima ragione per cui sono qui: è perché io sono il rappresentante del Signore, sono ministro suo, sono mandato, sono stato incaricato per una via che adesso non consideriamo, ma sono missionario, sono inviato per essere in mezzo agli uomini.

LA MISSIONE DEL PASTORE

Posso stare a casa mia? Posso dire: io sto alla finestra per vedere se capitano, a piazza San Pietro, questi operai, questi uomini della scienza, della tecnica, del mondo moderno? Sì, vengono molti. Ma gli altri? E se vedo che la grande moltitudine è lontana, e questa moltitudine - è forse quella di coloro che soffrono di più, che hanno più bisogno, che hanno più problemi interni, più angustie - non viene, non è mio dovere venire a trovarli? Non è mia missione, non è mio ministero venire in cerca di voi? Io non posso, figliuoli miei, io che sono rappresentante e successore del Pastore divino che va a cercare le sue pecorelle, non posso stare tranquillo, finché non sono venuto a contatto con voi per potervi dire che vi voglio bene, che non ho niente da chiedervi; avrei tutto da darvi, le mie parole, la mia cultura, voglio dire la verità di cui sono depositario, la bellezza della vita cristiana, la gioia di essere tra uomini, i quali hanno una speranza che oltrepassa il livello misero e breve di questa vita mortale. Io ho questa luce nelle mani e non verrò a portarvela? Voi ne avete il diritto e il bisogno. È purtroppo vero che qualcuno non ve lo riconosce, questo diritto, e dice, ad esempio, che basta ricevere la propria paga. No, figliuoli miei, la paga non basta, voi dovete ricevere qualche cosa di più. Come avete diritto alla scuola, alla farmacia, ai divertimenti, così avete diritto alla religione. Non siete uomini? Non siete anime? Non siete cristiani? Avete un’anima, e a questa chi penserà? Chi darà le parole vivificanti per il vostro spirito? Chi vi dirà: figliuoli miei, siete figli di Dio, siete esseri immortali, avete diritto alla libertà, alla giustizia, all’amore, alla verità che vi faccia vivere veramente da uomini, da figli di Dio?

E perché voi avete diritto alla parola che io porto e io ho il dovere di portarvela, ci siamo incontrati.

Vogliamo fare che questo incontro non sia l’ultimo, che non. si dica: è venuto il Papa e tutto è finito? No, bisogna che noi stabiliamo una corrente di buoni rapporti, di amicizia. Vi manderò i miei sacerdoti, i miei religiosi, per assistervi, non per imporvi niente, non per darvi fastidio. Chi vuole essere buon cristiano, chi vuole essere credente, chi vuol dare una speranza e una dignità alla propria vita, ha possibilità di accogliere questa parola e questa grazia, che il Signore ha lasciato al destino umano. Noi lo faremo, rispondete, ed ecco che allora faremo amicizia, ecco che allora il mondo del lavoro non sarà più quello triste, angosciato, attraversato da tante passioni, che lo rendono infelice, anche se è così grande e così degno di essere assistito ed amato.

Che possa essere un mondo sereno, forte, sano, tranquillo, cristiano e felice, come vi auguro. Che in voi rinasca la fiducia nella Chiesa, come in me l’amore per tutto il mondo moderno del lavoro. Ecco il mio voto, ecco la mia Benedizione Apostolica, che tutti vi abbraccia in Dio, insieme alle vostre dilette famiglie.

                                               



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