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INCONTRO DI PAOLO VI
CON IL CLERO ROMANO

Lunedì, 10 febbraio 1975 

 

«Gratia vobis et pax in Deo Patre nostro et in Domino Iesu Christo».

Che la grazia del Signore, sì, e la pace sua sia nei vostri cuori, nelle vostre anime quale augurio e quale voto spontaneo e pieno, che viene dal nostro cuore in questo momento. Le parole così dense e così vere, che adesso abbiamo ascoltato, pronunciate dal nostro Cardinale Vicario, basterebbero per sé a colmare i desideri e le aspirazioni delle nostre anime, per questa conversazione spirituale che vuole preludere, come sempre, al prossimo tempo quaresimale, periodo che prima era il grande periodo della predicazione, e resta e rimane il grande periodo della penitenza, della revisione, dei nuovi propositi, dell’intensità di vita religiosa e di correttezza di vita morale, per essere degni, o meno indegni, di bene celebrare la festa pasquale. Questo momento era e potrebbe ancora essere una lezione di vita pastorale e di dottrina riguardante la vita ecclesiastica, la sua vocazione, il suo essere, la sua funzione. Ricordiamo ancora, e convenerazione, le parole del nostro venerato predecessore, Pio XII, che a questo momento attribuiva tanta importanza. Anche noi, anche noi gliela vorremmo attribuire, pur nella distanza che da lui ci separa. Ma siamo, direi, sopraffatti da un altro ordine di pensieri, da un altro modo di pensare. Il momento presente ci riporta, con una quasi ineluttabile spinta critica, a guardare l’essenza delle nostre cose. Poste le premesse da cui debbono partire, i problemi che vengono dopo si sciolgono, o trovano facilmente le loro conclusioni, e ciascuno può trarle da sé.

AUTORITÀ DEL PAPA

Le premesse. Ci sarebbe quasi da domandarsi se noi stiamo facendo un saggio di dialettica hegeliana. Io, voi; la sintesi, noi; e sarà questo il nostro breve colloquio. Sì, noi sentiamo il bisogno ancora di presentarci a voi quali siamo, e domando subito alla vostra bontà, alla vostra perspicacia, anzi, al vostro spirito di fede, di non guardare alla minima statura della nostra persona, all’esiguità della nostra capacità di consigliare, dirigere gli altri, ma di guardare ciò che ci soverchia, l’ufficio che il Signore, chissà perché, ha voluto affidarci. Noi vi parliamo a nome di un’altra persona. Noi siamo altri. Del resto, anche voi lo siete. Ogni sacerdote è un alter Christus. Ciascuno, quando esercita le proprie funzioni sacerdotali, non porta se stesso, riveste e rivive e attualizza una presenza, una funzione, una autorità, un messaggio che non è il proprio; tanto più noi che, direi per antonomasia, anche se ciò non è esclusivamente applicabile al nostro ufficio, siamo Vicario di Cristo. Credete che queste parole ci lascino tranquillo, o non ci riempiano di trepidazione, nell’atto stesso in cui le pronunciamo?

Dover presentare Cristo a dei confratelli, che sanno tutto e che sanno bene che cosa questo significa. Per noi è momento, direi, di spavento e di esaltazione, di gioia: psicologia, appunto, del rappresentante, che si può immaginare, ma che, se non si vive, non si può conoscere.

Noi parliamo davvero non in nostro nome, ma nel nome di Gesù Cristo che abbiamo la ventura di rappresentare, consci, quindi, di questa nostra, quasi fremente, responsabilità, e consci anche dell’aiuto enorme che da Lui ci viene per poter colloquiare con voi, che non ne avreste bisogno, perché siete tutti carichi e tutti pieni di scienza del Signore e di pratica di vita ecclesiastica. Ma questo è il momento particolare in cui noi, rincontrandovi, ci presentiamo quali siamo, per disposizioni del Signore. E sentiamo allora in questa definizione che noi diamo di noi stessi, innanzitutto la prima direi, contestazione, che viene proprio sopra il nostro nome, quello dell’autorità. «Sic nos existimet homo ut ministros Christi et dispensatores mysteriorum Dei». Ci appelliamo anche a questa citazione, tanto marcata in tutta l’opera di San Paolo, perché abbiate la bontà di accoglierci, quali noi oggi a voi ci presentiamo, cioè con tutta l’autorità del nostro ufficio. Sappiamo bene che questa autorità è stata analizzata nelle sue diverse, possibili esplicazioni, sia storiche che psicologiche. Autorità è dominio? Oh, no, certo, io non devo esercitare un dominio sopra di voi! E un impero, cioè una autorità che si pronuncia senza altra logica che quella che nasce da un impeto, o da una psicologia interiore? neppure. Voi sapete che è un, servizio. La nostra autorità è fatta per servire. Non è venuto nostro Signore, lui lo ha detto, per «ministrari», ma per «ministrare», cioè non per raccogliere i servizi degli altri, ma per effondere i propri a bene altrui. La stessa cosa, per noi.

Ciò vuol dire che la sintesi, l’unità possibile, fra questi due momenti: esercitare l’autorità, e servire quelli a cui essa si rivolge, si riconduce all’amore. È l’amore, la carità di Cristo che ci autorizza a rivolgerci a voi; ed è in virtù di questa carità, che vi è stata data e che vogliamo vivere con tutta la fedeltà e con tutta la pienezza di cui siamo capaci, che noi siamo adesso a colloquio con voi, e lo siamo non per un momento, ma in virtù di uno «status», di una situazione che chiamiamo canonica, cioè legislativa, stabilita da regole indiscutibili. Questo rapporto che cosa è? È un rapporto di carità, è un rapporto che vuole il vostro bene ancor prima del nostro: siamo al vostro servizio, e ci accusiamo, semmai, di aver mancato, se non avessimo servito quanto e come dovevamo. Ne abbiamo però il proposito, davanti a Dio e anche davanti a voi, che siete tutti diventati - perché così è, al momento presente, la spiritualità del mondo che sta ad osservare - dei critici, nel senso benevolo, se volete, ma esigenti di vedere se questa autorità personifica e realizza la propria definizione. Dio mi aiuti ad essere fedele a quello che vi sto dicendo. Sì, io desidero servirvi per amore; poco vi conosco, ma vi amo molto, vi amo tutti, vi amo quali voi siete, e vorrei entrare tanto, tanto di più, nella vostra vita per poter capire meglio, per avere capacità di affetto, di aiuto, di consiglio, di conversazione, di convivenza con voi, perché questo è il mio ufficio che, ripeto, congiunge in sé le due definizioni che il Signore ha dato: una di fermezza e l’altra di dolcezza, una di esigenza inflessibile, l’altra, invece, che è tutta comprensione. Questa è la duplice funzione del Vicario di Cristo; e tale a voi la raccomando: perché? Oh! perché voi siete buoni a seguirla. La virtù più contestata, fino ad essere annullata, quasi che fosse una frustrazione della persona, e cioè l’obbedienza, nel campo nostro, nella «Ecclesia», nella compagine della società ecclesiastica, non è, non è vanificata, superata; è invece il rapporto normale nelle posizioni che la legge della Chiesa ha fissato a ciascuno di noi. Cerchiamo di rispondervi bene, e di creare questa armonia, questo consenso che renderà facile e contento il vivere insieme e l’aiutarci a vicenda. Io che sono a questo posto e che ho questa immensa, opprimente responsabilità, sono il primo che vi prego: aiutatemi, aiutatemi a compiere la mia missione, e guardate che considero ciascuno di voi davvero come «cooperatores ministerii nostri», come collaboratori di questo nostro compito, che il Signore ci ha affidato per costruire la Chiesa. Il solo vedervi così numerosi, cos? presenti, mi riempie di gioia, come se incontrassi degli amici, dei fratelli: lo siete, nel senso vero della parola; siamo tutti di una stessa famiglia, la famiglia di Cristo, la famiglia della Chiesa; una grande gioia mi invade anche per quello che la grande famiglia della diocesi di Roma rappresenta.

COLLABORATORI DEL PAPA

Io mi ricordo che la prima volta che venni a Roma (avevo 8 anni e mezzo) si fece con la mia famiglia una escursione fino a San Giovanni in Laterano; ricordo ancora benissimo il senso di desolazione che mi sorprese in quella grande casa, tetra, chiusa, abbandonata d’intorno, senza nessuna circolazione perché non c’erano i tram, né altro in quel momento; e mi dissero: questa è la «mater et caput» . . . Ricordo poi tutte le volte che, venuto a Roma giovane studente, appena detta la S. Messa, avevo occasione di passare davanti a quell’edificio, bello ma cadente: lo si vedeva dalle finestre e dalle porte chiuse, dall’impossibilità di entrare. Ricordo anche il senso di disagio che mi metteva la stessa basilica di S. Giovanni: la sera era come penetrare in una caverna, senza luce; cinque navate buie e paurose a chi osava inoltrarsi. E sempre, fino da allora, i ragazzi e i giovani sognano: da qui bisogna ridare la vita alla Chiesa romana . . .  E mi piace cogliere l’occasione di questo ricordo per presentare al Cardinale Vicario la professione della mia affezione, della mia riconoscenza, della mia solidarietà.

E sono tanto lieto di vederlo così vivace e così teso nel suo lavoro, sempre pieno di nuove e buone idee e con la parola così felice e così aderente alle necessità a cui si rivolge. Salutiamo . . . , ma prima di salutare dobbiamo ricordare il buon Monsignor Rovigatti che ci è scomparso. Diamo a lui la preghiera del nostro suffragio con il ringraziamento per l’opera che ha tentato di fare e per quella di buon esempio e di buona parola che svolse prima come parroco. Pace in Paradiso all’anima sua. E salutiamo dunque il ritorno di un nuovo reduce, di Monsignor Canestri. Avremmo anche delle confidenze da farvi sul perché abbiamo scelto lui: abbiamo cercato di leggere nei vostri cuori: chi gradirebbe il clero romano di avere a questo posto, senza niente misconoscere i meriti di tutti gli altri? In fondo c’era una simpatia che era rimasta superstite e quasi pronta a rinascere. E perché non viene Monsignor Canestri ad aiutare il Cardinale Vicario? Domandiamo a lui? Contentissimo! pronto!

Ecco la genesi di questo episodio che non è secondario, che è di grande importanza; e l’occasione mi è propizia per dire davanti a voi, la mia riconoscenza, la mia stima, la mia devozione, la mia comunione con gli altri Vescovi che esercitano il ministero nella Chiesa romana. Sappiate che tutti mi siete cordialmente, spiritualmente presenti; immagino quale è la vostra fatica, e quindi, se non altro la condivido col pensarla, col pregare perché sia meritoria ed efficace. E poi bisogna che io vi dica la gioia di vedere quel bel palazzo che adesso è San Giovanni in Laterano, trasformato in un alveare. Un alveare dove circola la vita, con corridoi pieni di uffici, di consigli presbiterali e pastorali e di tutti gli altri settori elencati nel vostro bellissimo annuario diocesano fino a confondere la mente del lettore che non abbia pratica di tutta questa nomenclatura, di questa geografia burocratica. Mando perciò a tutto il Vicariato, in questo momento, un grande saluto, un grande incoraggiamento, un grande ringraziamento. È un momento di comunione, questo, e voglio davvero che sia manifestato da parte mia, proprio per il dovere d’ufficio, che mi viene dall’incarico che mi è dato; ma mi viene anche dal cuore, con la consapevolezza di dover molto, molto bene, a questo gruppo, a questa rocca, a questo castello di operosità, così, tendenzialmente almeno, bene ordinato. Lo sarà anche meglio, fra poco, se avremo una nuova disposizione delle norme del Vicariato.

Abbiamo letto quelle di Pio X, prima di toccare le cose presenti per rimodernarle secondo i nuovi bisogni, con l’animo molto riverente, quasi scrupoloso, di non portare niente di artificioso, ma soltanto di utile e di moderno. E poi ringrazio tutta la grande compagine di quelli che intorno al Vicariato vivono, tutte le ramificazioni che si protendono in tutta la diocesi, le prefetture, e i parroci. E quanti sono i parroci di Roma? 254, o son cresciuti? Ne sono già nati una quarantina, da quando io sono vostro Vescovo, e quindi sento questa levitazione, questo aumento, sì con la grande gioia di vedere crescere la Chiesa di Dio, ma anche, potete credere, con senso di trepidazione per i tanti problemi, che accompagnano questa necessaria espansione della Chiesa di Roma. Alcune parrocchie le abbiamo visitate, ne vorremmo visitare di più, ma diventa così difficile la circolazione personale per noi, non è vero? E non siamo così pronti e così facili a venirvi a trovare quanto vorrebbe il nostro desiderio. Però manterremo, se Dio ci aiuta, se ci dà la possibilità, le due visite annuali alle parrocchie, una per il «Corpus Domini», e l’altra per la quaresima, secondo le indicazioni che voi stessi, attraverso il Cardinale Vicario, vorrete darci. La preferenza? Dove è più grande il bisogno, dove maggiore è il merito della fatica pastorale esercitata, dove è più facile, anche in pratica, poter accedere a queste vostre diverse parrocchie.

«PENSIAMO A TUTTI VOI . . .»

E pensiamo a tutti voi, carissimi parroci, a voi responsabili della vita pastorale, spirituale di Roma; a tutti i vice-parroci, che anch’essi si moltiplicano: «dilatentur spatia caritatis». E poi, ai quartieri dove sembra che ci sia quasi una emarginazione, come oggi si dice, quasi una trascuranza. Tutte le sere la nostra preghiera finisce quasi per fare il giro di questa circonferenza romana, e deve così salutare tutti questi confratelli che sono là con i poveri, con gli sfrattati, con i bisognosi, e consacrano la loro vita in una zona, dove è poco facile vivere tranquilli e felici. Abbiate voi un supplemento della mia benedizione, proprio per questa vostra elezione, per questa vostra particolare condizione di vita pastorale.

E poi? È sufficiente l’organizzazione parrocchiale di Roma? Ecco, vedete, bisogna essere realisti. Quando io sono venuto a Roma, ripeto, la prima volta, la Città aveva, sì e no, 300 mila abitanti, Adesso ha più di 3 milioni, si è decuplicata. Si sono forse decuplicate le forze ecclesiastiche che lavorano in Roma? Sono diminuite, forse, non cresciute. Quanti sono i preti che vengono dalla diocesi? Ecco un grande problema che vi consegno; cercate, pregate il Signore perché mandi operai alla sua messe, che vi mandi qualche vocazione, perché questa Roma non sia deserta dai ministri del Vangelo e della grazia di Dio. E grazie, grazie a tutti i religiosi, che si offrono ad integrare, a completare la vita pastorale di Roma. Sono ormai la maggioranza. Io li guardo con grande affezione e con grande rispetto. So c e cosa significa per loro, che hanno un programma ha stabilito, una fisionomia particolare di preghiera, di abitudini, di organizzazione, il trasferirsi nel campo pastorale, che ha tutt’altre regole ed esigenze. Siccome questo sacrificio è fatto da molte famiglie religiose, e in genere, non mi smentisca il Cardinale Vicario, fatto molto bene, allora io devo davvero ringraziare e benedire anche voi religiosi, per quello che fate a questa cara e diletta diocesi romana.

E poi tutte le altre opere. Quanti sono quelli che esercitano il ministero, direi, volontariamente? Sono molti, per fortuna. La Curia comincia, anzi continua ad abituarsi a desiderare di portare il suo concorso: chi in una chiesa, chi in un convento, chi in una scuola, ecc., ma insomma c’è una espansione della carità pastorale, che invade anche questo complesso così difficile e così prezioso che è l’organizzazione della Curia romana per i bisogni universali del mondo. Ma però, anche essa non resta insensibile ai bisogni immediati della popolazione romana, ed anche a questi che esercitano il loro ministero in maniera sussidiaria, ma fedele ed ordinata, vada il nostro grande e cordiale saluto ed incoraggiamento.

GLI EQUIVOCI DEL PLURALISMO

Siamo di educazione diversa, ognuno ha il suo modo di vedere le cose; è diventato di moda il pluralismo. Vi pregherei di fare un esame analitico sopra questa parola, che è già stata oggetto di studi particolari da parte dei competenti. Si tratta di vedere, di stare attenti a quanto c’è di equivoco sotto questa espressione, quasi che ciascuno, in omaggio all’«unusquisque in suo sensu abundet», possa fare quello che vuole. Saremmo non più nella Chiesa cattolica, ma in quelle Chiese dilette, ma tormentate dalla dispersione costituzionale che le obbliga a dividersi dentro di sé. Stiamo attenti che il nostro pluralismo, cioè, la libertà concessa alle diverse forme di esprimersi, canonicamente, ma autenticamente, nella Chiesa, non abbia a portare in noi quel particolarismo che vuol dire dispersione, che vuol dire non sommare le forze, non far coincidere le proprie energie con quelle altrui. Dobbiamo imparare a convivere, ad aiutarci, a collaborare e a vedere questo grande panorama della diocesi di Roma, come una cosa organica, come un «corpus» eletto, a cui abbiamo l’onore di appartenere e in cui ciascuno deve cercare di infondere il proprio contributo, in una maniera che può sì essere libera . . . . io faccio sempre il paragone dell’orchestra; nell’orchestra ciascuno suona il proprio strumento, ma la musica deve essere unica; se ogni strumento suona una musica sua, non è più orchestra, è piuttosto una gran confusione di suoni: il che vuol dire, fuori di paragone : ciascuno può seguire la propria spiritualità, le proprie possibilità, eccetera, ma nel concerto armonioso di una stessa spiritualità e di uno stesso scopo, che e la santificazione e la salvezza spirituale della popolazione romana.

Vi sono altri fenomeni. Anche San Paolo aveva un’idea fissa su questo. Egli dice: «Parvum fermentum totam massam corrumpit». Basta un piccolo fermento per diffondere un disagio, un pessimismo, un disfattismo in tutto il corpo. E questi gruppi che si attestano col nome di comunione, tante volte proprio per essere estranei alla vera comunione, hanno una grande responsabilità; avranno buonissime idee, avranno tante ragioni di criticare, di imputare a me, a noi, i difetti della nostra organizzazione ecclesiastica, ma sappiamo che hanno la responsabilità enorme, che pesa sopra di loro, di essere dei disfattisti dell’unione e della legge che presiede alla Chiesa, secondo il comando evangelico di Cristo: costruire la Chiesa, non demolire la Chiesa, «super te aedificabo Ecclesiam meam». Bisogna portare un contributo positivo, non soltanto negativo, che in fondo è molto facile, e alcune volte è diventato di maniera, è diventato vile. Non va. Bisogna che siamo tutti così virtuosi e così umili da metterci insieme, da tollerarci, da perdonarci, da riconciliarci e da cercare di costruire secondo un piano, che chi ha la responsabilità propone; che non è poi un piano, direi, artificioso, né opprimente, ma organico : che cerca cioè di valorizzare, per quanto è possibile, ciascuno, e ciascuno secondo il proprio spirito.

QUALI BISOGNI CI SONO?

Quali altri bisogni ci sono? Quante parrocchie dovremmo ricostruire e costruire? «Dilatentur spatia caritatis». Abbiamo bisogno di preti, e sono quelli più necessari, abbiamo bisogno di case di preghiera: le chiese, le parrocchie nuove. E poi abbiamo bisogno di scuole, abbiamo bisogno di reinserirci nella rete organizzativa della popolazione. Come si fa, come si fa? La prima cosa è proprio questa: cerchiamo di volerci molto bene, cerchiamo di amare questa Chiesa, nella quale il Signore ci ha messo, e amare vuol dire non soltanto essere fieri, o essere entusiasti perché certe cose vanno bene e sono messe sul candelabro dell’opinione pubblica, se vuoi anche internazionale e mondiale. No, dobbiamo amarla perché, come dice Sant’Ignazio nella sua famosa lettera ai romani, è la presidente dell’amore, della carità. Qui si dovrebbe davvero respirare fra di noi una grande amicizia, una grande simpatia, una grande cordialità, una grande solidarietà, un conoscersi, un invitarsi, un dare un aiuto spontaneo, e l’essere anche capaci di queste correzioni fraterne, che alcune volte sono più salutari che non tutte le sanzioni canoniche: la buona parola del fratello, quanto bene può fare! Amarci. E allora dobbiamo guardare di dare alla comunione (il nome ritorna) il suo senso vero e pieno, dobbiamo imparare a vivere insieme, dobbiamo esercitarci nella collaborazione, nella comprensione, nell’integrarci a vicenda, nel darci ai bisogni della diocesi. Bravi quelli che, non obbligati, lo fanno; e bravi quelli che lo fanno, obbligati: questi poveri parroci, che portano davvero il «pondus diei» e persistono e perseverano, e so di alcuni che dànno veramente la loro esistenza, la loro vita. Dio vi benedica, o fratelli. Troverete la vostra ricompensa. Non sarò io che vi darò dei premi, ma sarà il Signore, sarà Gesù Cristo che vi verrà incontro, sarà la Madonna, che vi darà la mano, fra i due santi romani, Pietro e Paolo, e tutti gli altri, che vi incoraggiano in questo sforzo che ha veramente dell’esemplare, che ha dell’eroico.

Quando c’è un programma, e il Cardinale Vicario vi invita, non rispondiamo: questo non mi riguarda, io ho già fatto e farò. No, cerchiamo tutti di suonare la medesima musica e di avere l’umiltà di compaginarci insieme con gli altri e di moltiplicare l’effetto del nostro sforzo pastorale ed apostolico, proprio per la somma, per la coincidenza, per la corrispondenza che ha l’uno con l’altro. Guardiamo di integrarci insieme a vivere la vita ecclesiastica, proprio con questo aiuto fraterno e leale e disinteressato. Questa è la comunione.

STRUTTURE E CARISMI

E la seconda cosa (cambiamo il nome ma resta sempre la stessa materia, pressappoco): la compagine. Cerchiamo che la compagine nella Chiesa di Roma, cioè la sua organizzazione, sia davvero efficiente. Lo so; lo sappiamo, perché è diventato un luogo comune: si cerca di distinguere le strutture dai carismi. È una distinzione che vale fino ad un certo punto, e direi, nella pratica non vale. Sant’Agostino in un suo famoso detto che io ho ripetuto altre volte così si esprime: lo Spirito del Signore anima il corpo della Chiesa. Chi è nel corpo è animato, ed ha lo Spirito di Cristo, chi si stacca dal corpo di Cristo non ha più questa corrente vitale vivificante dello Spirito di Cristo. E quelli che fanno appunto i piccoli gruppi per essere più spirituali, può darsi che abbiano buone intenzioni, e io gli auguro anche di avere l’efficacia delle loro intenzioni; ma la realtà è che, nella via normale, nel disegno di Dio, tanto ci è dato di Spirito quanto aderiamo al corpo della Chiesa. Le compagini, le strutture, queste famose burocrazie, questi famosi giuridismi, ecc., sono parole false. In fondo, è la comunione. Siamo uomini e bisogna che abbiamo delle regole umane, tangibili, ecc., che ci tengono insieme, che ci aiutano, che ci sostengono, che ci puniscono, ecc., per essere un «corpus». La Chiesa è un corpo mistico di Cristo. Dobbiamo essere corpo anche noi nella compagine della Chiesa, altrimenti l’elemento mistico si distacca e non sappiamo quale sia la sorte di chi osa, di chi ha la caparbietà, l’imprudenza di ritenersi animato dallo Spirito Santo senza essere nel luogo canonico, dove lo Spirito Santo ha la sua dimora. Voi siete il tempio dello Spirito Santo. Se usciamo da questo tempio, sappiamo noi se lo Spirito ci seguirà? Abbiamo l’umiltà, ripeto, di santificare il corpo, anche le cose materiali, amministrative, prosaiche di questa Chiesa, di innalzarle nel loro significato, nella loro limitata ma indiscutibile necessità, e vedremo allora che lo Spirito del Signore darà anche i mezzi per sostenere i programmi che al corpo della Chiesa sono affidati.

E poi l’attività: cosa deve fare questa Chiesa romana? Qui comincerebbe il discorso quaresimale, di quelli consueti che facevano i predicatori, i parroci . . . Io raccomando a tutti una cosa sola. Voi conoscete i paragrafi di questo grande programma. Primo, Cristo . . . : che davvero gli uomini, le donne, il popolo conosca e abbia un contatto con Cristo. Il primo contatto è la fede: quindi l’istruzione, quindi il catechismo, quindi la diffusione della buona stampa, la parola che corre in qualche maniera nelle mani di tutti, entra nelle famiglie: cercare la conoscenza di Cristo. E poi la grazia di Cristo: guardare di curare molto (sapete che la Conferenza Episcopale Italiana se n’è occupata in questi anni) le pratiche dei sacramenti, come si devono dare i sacramenti . . . Il richiamo fattoci da tutta la grande famiglia del clero italiano sopra l’evangelizzazione mediante la grazia dei sacramenti deve essere anche il nostro programma. Se sapessimo dar bene il battesimo! Io ho vissuto (nei momenti direi più pieni del mio sacerdozio episcopale) proprio nelle cresime amministrate a decine di migliaia nella diocesi di Milano il contatto diretto con i ragazzi che stanno attendendo l’incontro con lo Spirito Santo, ai quali si può domandare: «ma tu sarai fedele?», «ma tu vuoi essere davvero un cristiano vero o un cristiano di nome?», ecc. Tutta la fraseologia che si vive in queste condizioni è di una efficacia, di una grandezza e di una bellezza che non ha uguali e che compensa il povero vescovo che deve esercitare il proprio ministero ad usura. Si viene via felici. Tutta questa gioventù lieta, pura, buona, nel momento della sua prima coscienza all’alba dell’adolescenza, che dice sì come ha detto sì il padrino al battesimo. Lo dice lui, adesso, finalmente; lui a se stesso: sì, voglio essere fedele e riceverò la grazia dello Spirito Santo, la Cresima. Sono momenti di una importanza veramente decisiva: questo è il cristianesimo operante. Non parliamo poi dell’Eucaristia, e di tutta la liturgia. Mi piacerebbe sentirvi cantare di più, il nostro popolo non canta; quando vengono dal Nord i tedeschi, i fiamminghi, la Polonia, sono masse di voci: questo è popolo che prega e che prega insieme. Qui invece ancora non si sa se voi siete capaci di organizzare il coro anche per i canti più comuni, il «Credo», il «Sanctus». Vogliate rendere questo grande servizio alla preghiera collettiva, liturgica, autentica del popolo di Dio, per la gloria del Padre, per la glorificazione di Cristo, per l’esaltazione dello Spirito Santo.

COSA DEVE FARE QUESTA CHIESA DI ROMA?

E poi, e poi, oh! il parlare a chi è maestro in queste cose!: «cognosco oves meas», conoscete i vostri fedeli. Come, si domandava un parroco, posso conoscere trentamila fedeli? Niente da dire; ma cerchi almeno di conoscere quelli che bussano alla sua porta, quelli da cui può andare quando sono malati. Il contatto personale: è un’altra logorante, estenuante fatica della vita pastorale, ma è quella che produce. Se noi riuscissimo ad avere delle parrocchie di minori proporzioni, dove il parroco è veramente il padre e il consigliere!

Ho detto consigliere, proprio così. Io credo che una delle grandi opere di carità che il parroco e il sacerdote devono e possono fare è quella di essere l’amico, il consigliere dei fedeli; e se oggi abbiamo dei fenomeni negativi, ahimé, nella Chiesa (questa contestazione, questo malumore, questo spirito di contraddizione, questo pessimismo, questo disfattismo), cerca cerca, il germe è un cattivo consiglio dato da un prete; battiamoci il petto se è così, e guardiamo alla nostra responsabilità. La parola che si dà agli altri sia creativa di verità, di carità, di buona volontà; sia consolante. Perché mancano le vocazioni? mancano forse perché manca la «conversatio», la confidenza, la presenza nei momenti decisivi di una vita, nei quali un amico prete può essere maestro e dire: pensaci! Non forziamo nessuno per carità! ma dobbiamo essere presenti con il consiglio . . . Dopo la mamma, il prete. Sono essi le sorgenti. E se le vocazioni mancano, è perché manca chi abbia assistito nell’età che si orienta verso la vita, nel momento in cui si sarebbe potuto intraprendere il cammino del dono di sé al servizio di Cristo.

È tutto. Avrei ancora tante altre cose da dire ma voi le sapete. Guardate però che siete seguiti, sappiate che siete assistiti davvero da una grande stima dell’umile Papa che vi parla, da una grande affezione, da un desiderio di aiutarvi, di comprendervi, di servirvi, di animarvi, di sostenervi. Col Cardinale Vicario, col Vice Gerente e con i vescovi ausiliari cercheremo di fare quanto è possibile; voi cercherete di fare da voi, anche nell’area che vi è destinata, tutto il bene che vi è dato di compiere. Facciamo per questo Anno Santo un atto generoso, insieme, di buona volontà, e certamente non mancherà sulla nostra buona volontà la benedizione di Dio.

 



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