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DISCORSO DI SUA SANTITÀ PIO PP. XII
NEL V CENTENARIO DELLA MORTE DELL'ANGELICO
*

Sala di Costantino - Mercoledì, 20 aprile 1955

 

Accogliendo nella Nostra dimora, in numero così cospicuo, i capolavori di Fra Giovanni da Fiesole, non abbiamo soltanto inteso di tributare singolare testimonianza di ammirazione al genio di chi seppe assorgere alle somme vette dell'arte, traendo la ispirazione dai misteri della fede, ma di ravvivare altresì il messaggio profondamente religioso ed umano che egli ha predicato col suo pennello alle generazioni coeve e alle future, non stanche mai di contemplare le sue mistiche visioni, ove bellezza ed armonia quasi trascendono i vertici dell'umano per aprire come uno spiraglio nei cieli.

Desideriamo innanzi tutto di esprimere la Nostra viva compiacenza per il vasto movimento di studi che la celebrazione del V Centenario della morte di lui ha suscitato, spronando insigni critici e scrittori ad approfondire e divulgare la figura e l'opera di Fra Angelico con pregevoli pubblicazioni, in talune delle quali sono apparse sotto luce nuova e più vera l'epoca e le correnti di pensiero e di arte che hanno contrassegnato la prima metà del Quattrocento: pubblicazioni che tornano ad onore non solo delle arti, ma della coltura in genere e della stessa religione.

Esprimiamo inoltre ben di cuore la Nostra gratitudine verso tutte e singole le degnissime persone, che, rispondendo con filiale premura ai Nostri desideri, si sono adoperate affinchè le opere dell'Angelico, custodite come tesori incomparabili nei musei e nelle gallerie di diverse nazioni, Ci fossero inviate temporaneamente in questa fausta circostanza, procurando a Noi stessi il godimento di ammirarle, ed insieme la letizia di poterle mostrare ai carissimi figli, che, provenienti da ogni parte del mondo, visiteranno l'Urbe in questi giorni.

La presente Mostra è la prima imponente raccolta in un medesimo luogo delle opere di lui, e precisamente in questo Palazzo Apostolico, la cui soglia aveva ripetutamente varcata il genio dell'eccelso artista. L'umile e pio Fra Giovanni da Fiesole vi venne, come, è noto, nel periodo più maturo della sua vita artistica, chiamato dai Nostri Predecessori, da Eugenio IV, e poi dal grande mecenate Niccolò V, a cui il Rinascimento deve molti dei suoi primi passi, e qui lasciò eternate sulle pareti alcune delle più vigorose pagine del suo mondo figurativo, a lustro e decoro di questa Apostolica residenza e a perenne testimonianza della perfetta intesa tra la Religione e l'arte. A distanza di cinque secoli, l'odierno omaggio reso al santo religioso e sommo artista riveste il significato di ben meritata riconoscenza, che Noi volentieri gli tributiamo, anche perché la sua memoria e la sua opera Ci sembrano in qualche modo congiunte col Nostro pur travagliato Pontificato. Ci piace ricordare, tra l'altro, la Nostra visita compiuta quindici anni or sono alla Basilica di Santa Maria sopra Minerva, che custodisce religiosamente i suoi resti mortali; ma in modo particolare l'Angelico, che può dirsi l'estatico pittore di Maria Regina dei cieli, Ci ricorda lo straordinario favore concesso alla Nostra piccolezza dalla divina Provvidenza, di onorare in singolari guise la Madre di Dio, tra cui quello d'incoronare per mano Nostra l'immagine della Vergine, come egli fece più volte nell'estasi dell'arte in capolavori che sono restati nei secoli quali tipi di paradisiaca bellezza.

Ed ora l'alta stima per Fra Angelico, di cui tante opere abbiamo sotto gli occhi, Ci porterebbe a tracciare uno studio analitico sulla sua arte; tuttavia le Nostre presenti condizioni non Ci permettono che di toccarne rapidamente qualche aspetto più caratteristico, lasciando agl'illustri critici l'ufficio e il diletto di approfondire alcune questioni che hanno sempre interessato i cultori dell'arte fin dai tempi in cui egli fiorì, e, molto più, da quando si è formata con metodo proprio la scienza della storia e della critica dell'arte stessa. Torna, infatti, a sommo onore dell'Angelico l'essersi imposto in ogni tempo all'ammirata attenzione degli studiosi; né, in verità, egli potrebbe essere trascurato da chiunque si accinga a tracciare le vie maestre, lungo le quali si è sviluppata la cultura occidentale, di cui egli è senza dubbio un pilastro, sia come interprete della sua epoca, sia come efficace promotore dell'avanzamento di quella.

Se, in tempi lontani e tuttora, il giudizio dei critici si è diviso a suo riguardo in divergenti opinioni, queste toccano lati secondari della sua persona, o della genesi della sua arte, oppure aspetti puramente interpretativi di essa; però nessun uomo retto ha posto mai in dubbio gli attributi essenziali che universalmente gli sono riconosciuti: essere l'Angelico un sommo pittore, di alta spiritualità, innovatore e geniale, efficace, sincero e perfetto. Benchè sulle vie delle arti, col volgere dei tempi, si mutino i gusti e le maniere, e quantunque la ricerca di nuove forme espressive induca spesso gli animi a un certo oblio e disprezzo dell'antico; per l'Angelico, come per i veri e grandi geni, non si è data mai età in cui fosse sminuita l'alta ammirazione da lui riscossa sia presso i dotti che in mezzo al popolo. La sua arte è legata, è vero, a un tempo; appartiene ad una determinata età, alla quale altre ed altre han fatto seguito; ma i successivi sviluppi non sono da considerarsi superamenti in contrasto con quell'arte, quasi che ad essa fosse mancata la perfezione o il punto di arrivo. Gli studi più moderni sono concordi, in questo giudizio essenziale, avendo ormai risolto in suo favore anche la già dibattuta questione se egli dovesse considerarsi discepolo della tradizione gotica, oppure precursore del rinascimento umanistico. L'Angelico fu pronto ed aperto nell'assimilare le nuove correnti rinnovatrici dell'arte, adoperandosi affinché a questa fosse conservato il tradizionale carattere religioso nelle sue finalità didattiche ed etiche. Nessun dubbio che egli sia uno degli anelli più rappresentativi, nel travaglio di transizione dall'una all'altra età.

Parimenti è stata collocata nel vero la sua persona, sottraendola alla popolare e pia leggenda, secondo cui il fervoroso Frate avrebbe dipinto i suoi Santi, come assorto in inconscie estasi, abbandonata la mano alla guida di esseri ultraterreni. Ciò però non significa che la sua profonda religiosità, la sua serena ed austera ascesi, nutrita da virtù solide, da contemplazioni e da preghiere, non abbia esercitato un determinante influsso nel dare alla espressione artistica quel potere di linguaggio, con cui egli raggiunge immediatamente gli spiriti, e, come più volte è stato notato nel trasformare in preghiera la sua arte, essendo solito ripetere « che chi fa cose di Cristo con Cristo deve star sempre » (G. Vasari - Vite dei più eccell. Pittori, Scult. ed Arch., Firenze 1878, t. II. p. 520).

Che poi egli dipendesse, e per quali aspetti, da Giotto ; quale influsso subisse da Masaccio; con quali criteri risolvesse i nuovi ed ardui problemi fin d'allora agitati intorno alle teorie dello spazio e della luce; come intendesse il ritorno al classicismo; se si schierasse col Cennini che attribuiva alla pittura l'ufficio di scoprire l'invisibile, e non coll'Alberti che le restringeva il dominio nel solo visibile; se vi fosse in lui un'intenzione esplicitamente polemica contro la corrente neo-platonica, certamente da lui respinta: sono questioni le quali formano ancora oggetto di indagini che onorano coloro che vi si applicano.

La schietta pietà dell'Angelico è considerata, a ragione, una base essenziale della efficacia di lui; ma un secondo fondamento deve ricercarsi nella sua cultura, cioè, nella dottrina dell'universo appresa alla scuola della filosofia perenne e alla quale egli aderiva con chiara e tranquilla certezza. Non pochi critici hanno giustamente osservato come la dottrina tomistica si rispecchi nei suoi quadri, non solo per il contenuto, ma anche per il metodo stilistico e tecnico. L'Angelico parte dalla natura, si direbbe, a somiglianza del grande Dottore, allorchè questi si accinge ad esporre le celebri sue « cinque vie »; e la natura egli ama appassionatamente, in quanto è opera e riflesso di Dio. Di essa, però, egli insiste a mettere in risalto l'aspetto estetico, anzi pare che miri con ardimento a imporle un suo ideale di bellezza, vagheggiato, nelle devote contemplazioni del suo mondo soprannaturale. La visione del creato nella sua formalità estetica non risulta monca e parziale, poichè per lui il bello si identifica col vero, col buono, col santo, col perfetto e col casto, quasi a quel modo che le divine perfezioni, di cui le creature sono riflesso, non si distinguono in Dio realmente, ma solo più o meno esplicitamente per la innata debilità dell'intelletto creato.

Egualmente dalla dottrina del Dottore San Tommaso egli ha appreso la grande sintesi dell'universo, il quale, vario negli elementi che lo costituiscono, prende le mosse da Dio e torna a Dio dopo aver percorso il suo cammino, a guisa di orbita sfavillante di armonia, di bellezza, di verità e di santità: questa sintesi par di riscontrare nelle celebri composizioni, ove deliziose figure di angeli, di' santi, di frati, di vergini fanno corona al trono del Redentore e della Madre sua.

Certamente la pittura dell'Angelico è sempre religiosa: per i soggetti prescelti, ma altresì per il modo ed il metodo con cui li tratta. Assuefatto alla tranquilla disciplina monastica e ognora sollecito della perfezione nelle intenzioni, nelle parole, negli atti, cercherà di raggiungerla anche nella tecnica dell'arte, che sarà pertanto nitida e serena. Nella sua vita, come nei suoi dipinti, non vi saranno momenti drammatici esteriori, bensì lotte interiori in piena rassegnazione al volere divino e in calma fiducia nella vittoria del bene. La luce stessa, che sparge nello spazio e sui personaggi, non è misurabile tanto dalla quantità, che dalla qualità di purezza; luce, per quanto è possibile, celeste.

I suoi racconti sono semplici e lineari, modellati quasi sullo stile degli Evangelisti. I suoi personaggi rivelano sempre un'intensa vita interna, dalla quale i volti, i gesti, le movenze restano trasfigurati. Narrando o mostrando al popolo i divini misteri, egli si comporta da accorto « predicatore », qual era, cercando di suscitare una immediata ammirazione con gli elementi descrittivi e decorativi, per poi parlare più pacatamente all'intimo dell'anima. Quando, però, egli vuol dare un soggetto di contemplazione ai propri confratelli, esercitati a meditare le cose superne, si dà premura di rimuovere ogni oggetto di distrazione, e cioè, le tonalità forti della luce e del colore, il multiloquio di troppe figure e gesti, dando invece risalto alla pura interiorità: i corpi allora vengono sublimati in una diafanità e leggerezza sopra-terrena, gli spazi si vuotano, i volumi si contraggono e scompaiono le parti decorative, a lui tanto care, quali sono i gentili paesaggi della sua Toscana e le nuove forme architettoniche create allora dal Brunelleschi. Ne risulta così uno spirituale lirismo erompente da puri accordi interiori, che aleggia ancora nelle celle e negli ambulacri del suo convento di San Marco in Firenze, le cui pareti, da sè sole, basterebbero a celebrare la immortale gloria di un artista.

A suo tempo, in questo «, studio » di Niccolò V e in altre grandi tavole d'altare, egli ricorrerà allo stile monumentale, ma nella misura consentita dal suo proposito, ormai divenuto suo inderogabile canone d'espressione, di parlare delle cose divine con un linguaggio vero e comprensibile, tuttavia degno di Dio e dei suoi Santi.

Ma a che cosa, in sostanza, mira il linguaggio pittorico che l'Angelico rivolge ai figli del suo secolo e dei seguenti? Da un lato egli intende inculcare le verità della fede, persuadendo gli animi con la forza della loro bellezza; dall'altro, si propone d'indurre i fedeli alla pratica delle virtù cristiane, proponendone amabili ed attraenti esempi. Per questo secondo scopo la sua opera diventa un, messaggio perenne di cristianesimo vivo, e, sotto un certo aspetto, altresì un messaggio altamente umano, fondato sul principio del potere trasumanante della religione, in virtù del quale ogni uomo, che viene a diretto contatto con Dio e i suoi misteri, torna ad essere simile a Lui nella santità, nella bellezza, nella beatitudine: un uomo, cioè, secondo i disegni primigeni del suo Creatore. Il pennello di Fra Angelico dà così vita a un tipo di uomo-modello, non dissimile dagli angeli, in cui tutto è equilibrato, sereno e perfetto: modello di uomini e di cristiani, forse rari nelle condizioni della vita terrena, ma da proporre all'imitazione del popolo. Si guardino attentamente i Santi che attorniano Cristo e la Vergine, o anche gli anonimi personaggi dei suoi racconti. Essi non rivelano incertezze e tormenti di ordine intellettuale: ognuno di loro gode del tranquillo possesso della verità, alla quale è giunto per la conoscenza naturale o per la fede soprannaturale. La loro volontà è rivolta al bene; le passioni, le reazioni, i sentimenti cui sono soggetti, perchè umane creature, si presentano sempre temperati da un interno dominio dell'anima. Il pianto sacro per il morto Redentore è bensì acerbo dolore, ma non strazio disperato; la letizia dei Beati non può dirsi ancora abbandono a giubilo incontenibile; l'austerità dei penitenti non ha ombra di angoscia; la concentrazione meditativa di San Domenico è ben diversa dall'astrazione estatica che annullerebbe la personalità dell'uomo; signoreggiata dalla forte tempra dell'animo è la veemenza del Battista. Questa moderazione delle passioni e dei sentimenti vuole predicare l'Angelico alle anime cristiane.

Una bontà positiva, inoltre, avvolge ogni figura, siano angeli o santi religiosi o gente del popolo. Una bontà materna traspare dalle sue Madonne, anche se assise nella maestà monumentale del trono. L'angelo, che ha avuto da Dio il tremendo officio di scacciare i progenitori dall'Eden, trova anch'egli modo di posare la mano, libera dalla spada, sulla spalla di Adamo; parrebbe quasi ad infondergli coraggio e speranza. Perfino i giudici iniqui e i carnefici dei martiri non mancano di una certa bontà, forse perchè consapevoli d'essere strumenti della gloria di Dio.

Si direbbe anzi che egli stesso si dichiari incapace di dar vita al torbido e alla malvagità. Costretto talvolta a far posto nel suo mondo a questo elemento tenebroso della umana realtà, ne evita il più possibile la diretta visione, come può riscontrarsi nel « Martirio dei Santi Cosma e Damiano » e nel « Giudizio finale », in cui la schiera dei dannati è da taluni attribuita ad altre mani della sua scuola.

L'uomo, nel mondo dell'Angelico, che è quello della verità, non è naturalmente nè buono nè santo; però può e deve divenirlo, essendo la santità facile e bella, poichè Cristo, di cui tante volte egli mostra il sacrificio, è morto per questo fine, la sua santissima Madre ne è l'eccelso esempio, i Santi gioiscono per averla raggiunta, e gli Angeli si deliziano di vivere in conversazione coi Santi.

Nelle virtù che egli propone, affine di avvincere ad esse gli animi, non mette tanto in risalto lo sforzo nell'atto di conquistarle, quanto la beatitudine che deriva dal loro possesso e la nobiltà di chi ne è rivestito. In questo modo la profonda umiltà della Vergine davanti a Gabriele si rivela nel volto di lei con espressione di regalità, quella medesima che lo illumina al momento della incoronazione per mano del Figlio: perciò i profili della Vergine nei due momenti sono egualmente regali, salvo il lieve turbamento accennato nel primo, e trasformato nel secondo in un leggiadro sorriso di gaudio. Nella condanna di S. Stefano stanno di fronte la virtù e la passione, la prima in veste di reo, la seconda in quella di giudice; ma il reo umilia il potente, benché assiso in soglio, con l'impavida fermezza nella sua fede. L'Angelico è insuperabile nell'intessere l'elogio delle virtù cristiane; dove forse la lode diventa poema, è nel mirabile affresco, qui accanto, che può definirsi l'apoteosi della povertà e della sventura tollerate cristianamente. Il cieco, il paralitico, il piagato, la vedova e gli altri indigenti, che circondano il santo diacono Lorenzo, traggono dalla fede cristiana, di cui sono imbevuti, uno splendore di dignità, che le stesse miserie non riescono ad offuscare. Forse uno dei tanti deliziosi angeli, che popolano altre sue visioni, non starebbe a disagio tra questa schiera di povera gente, che ha però l'anima ricca di serenità e di speranza.

Il mondo pittorico di Fra Giovanni da Fiesole è bensì il mondo ideale, la cui aura è rifulgente di pace, di santità, di armonia e di gaudio, e la cui realtà è nel futuro, quando sulla nuova terra e nei nuovi cieli trionferà la giustizia finale (cfr. 2 Petr. 3, 13); tuttavia questo soave e beato mondo può già fin da ora prendere vita nel segreto delle anime, e ad esse pertanto egli lo propone, invitandole ad entrarvi. In questo invito Ci pare che consista il messaggio che l'Angelico consegna alla sua arte, fiducioso che sarebbe quanto mai adatta ad efficacemente diffonderlo.

È vero che all'arte, per essere tale, non è richiesta una esplicita missione etica o religiosa. Essa, come linguaggio estetico dello spirito umano, se questo rispecchia nella sua verità totale, o almeno non lo deforma positivamente, è già di per sè sacra e religiosa, in quanto cioè è interprete di un'opera di Dio; ma se anche il contenuto e le finalità saranno quelle che l'Angelico assegnò alla propria, allora assorgerà alla dignità quasi di ministro di Dio, riflettendone un maggior numero di perfezioni. Questa eccelsa possibilità dell'arte Noi vorremmo qui additare alla schiera, tanto da Noi amata, degli artisti. Che se invece il linguaggio artistico si adeguasse, con le sue parole e cadenze, a spiriti falsi, vuoti e torbidi, cioè difformi dal disegno del Creatore, se, anzichè elevare la mente e il cuore a nobili sentimenti, eccitasse le più volgari passioni, troverebbe bensì presso alcuni eco ed accoglienza, anche solo in virtù della novità, che non è sempre un valore, e della esigua parte di reale che ogni linguaggio contiene; ma una tale arte degraderebbe sè stessa, rinnegando il primordiale ed essenziale suo aspetto, nè sarebbe universale e perenne, com'è lo spirito umano, a cui si rivolge.

Nel tributare pertanto il Nostro omaggio al sommo artista, e nell'invitare i Nostri diletti figli ad accogliere, quasi disposto dalla Provvidenza, il messaggio religioso e umano di Fra Giovanni da Fiesole, il Nostro pensiero non riesce a staccarsi dal considerare con ansia il presente mondo in cui viviamo, così differente da quello descritto in queste mirabili tavole, ove si trovano, suggellate da arte squisita, le più alte e più vere aspirazioni dell'uomo.

Facciamo perciò ardenti voti, affinchè il soffio della cristiana bontà, della serenità e dell'armonia divina, che si sprigiona dall'opera dell'Angelico, pervada i cuori di tutti, mentre, auspice delle più abbondanti grazie celesti, impartiamo di cuore a voi tutti la Nostra paterna Apostolica Benedizione.


*Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, XVII,
 Diciassettesimo anno di Pontificato, 2 marzo 1955 - 1° marzo 1956, pp. 39 - 46
 Tipografia Poliglotta Vaticana

 



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