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LETTERA DI GIOVANNI PAOLO II
ALL'EPISCOPATO DEL NICARAGUA


Cari fratelli nell’Episcopato.

Mentre, in obbedienza alla misteriosa chiamata che lo fece successore di Pietro, il Papa volentieri dà ciò che ha e offre anche se stesso per il bene di tutti (cf. 2Cor 12,15), egli non dimentica i suoi doveri verso coloro che nelle Chiese particolari di tutto il mondo svolgono, in mezzo a non poche difficoltà, il ministero di Pastori.

Ad essi lo unisce un vincolo particolare. Speciale per le sue origini evangeliche: appunto a Pietro, al quale aveva conferito il primo posto tra i Dodici, Gesù ha voluto affidare, in un momento solenne della sua vita, la missione di confermare i suoi fratelli nella fede e nel servizio apostolico (cf. Lc 22,32). Speciale anche per la sua natura teologica: il Concilio Vaticano II, approfondendo l’antica dottrina della collegialità episcopale, ha sottolineato con ricchezza di concetti e di espressioni che il Collegio episcopale, “in quanto composto da molti, esprime la varietà e l’universalità del Popolo di Dio, in quanto poi è raccolto sotto un solo Capo, significa l’unità del gregge di Cristo” (Lumen Gentium, 22; cf. Christus Dominus, 4).

A causa di questo vincolo, al quale l’aspetto dogmatico non toglie niente alla sua dimensione profondamente affettiva, e date le particolari circostanze nelle quali siete chiamati ad esercitare il vostro ministero episcopale, sappiate che vi sono molto vicino. Vicino in quanto “non cesso di rendere grazie per voi, ricordandovi nelle mie preghiere” (Ef 1,16). Vicino per il desiderio e l’interesse con i quali mi informo costantemente delle vostre attività pastorali. Vicino per il sostegno spirituale al vostro lavoro, tanto devoto quanto esigente e delicato, in favore della promozione umana, personale e collettiva delle vostre genti. Vicino, infine, nella mia sollecitudine fraterna per la vostra opera di Pastori e Maestri nelle Chiese a voi affidate.

Inoltre, la festa di oggi degli apostoli Pietro e Paolo, ravvivando in noi il sentimento della Collegialità, mi offre l’opportunità di scrivervi, con il “vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati” (Rm 1,10).

Ho voluto che voi incontraste già nelle precedenti considerazioni, la prima e fondamentale espressione dell’incoraggiamento e dell’incitamento che desidero comunicarvi. Un Vescovo non è mai solo, poiché si incontra in viva e dinamica comunione con il Papa e con i suoi fratelli Vescovi di tutto il mondo. Non siete soli: vi sostiene la presenza spirituale di questo vostro fratello maggiore e vi circonda la comunione affettiva ed effettiva di migliaia di fratelli.

Desidero però invitarvi a riflettere su un’altra, più ristretta ma non meno importante, dimensione della comunione: la comunione tra di voi, membri di questa amata Conferenza Episcopale del Nicaragua.

Questa comunione, nata dalla partecipazione nella pienezza del sacerdozio di Cristo Gesù, non è meramente esteriore, non è frutto di convenzioni e protocolli; è una comunione sacramentale e come tale deve essere messa in pratica.

Vi confesso che non provo gioia più grande di quella che mi deriva dal sapere che tra di voi prevale, al di sopra di tutto ciò che potrebbe dividervi, questa unità essenziale in Cristo e nella Chiesa. Unità tanto più esigente e necessaria in quanto da essa dipenderà, da un lato la credibilità della vostra predicazione e l’efficacia del vostro apostolato, e dall’altro la comunione che, supposte le note difficoltà, voi avete la missione di costruire tra i vostri fedeli.

Ebbene, questa unità dei fedeli, appare ai nostri occhi come il dono forse più prezioso – poiché fragile e minacciato – di questa Chiesa nel Nicaragua che è vostra e nostra.

Ciò che dichiarò il Concilio Vaticano II sulla Chiesa universale – che è segno e strumento della unità da costruire nel mondo e nell’umanità (cf. Lumen Gentium, 1) – si può applicare, nella debita misura, alle comunità ecclesiali a tutti i livelli.

Per questo la Chiesa in Nicaragua ha la grande responsabilità di essere “sacramento”, cioè segno e strumento della unità nel Paese. Perciò deve essere essa stessa, come comunità, una vera unità e immagine della unità.

A questo proposito, devo ricordare che quanti più fermenti di discordia e di disunione, di rottura e di separazione esistono in un ambiente, tanto più la Chiesa deve essere ambito di unità e coesione.

Ma lo sarà solamente se darà testimonianza di essere “cor unum et anima una” grazie a principi soprannaturali di unità, sufficientemente forti e determinanti per vincere le forze della divisione alle quali anch’essa si trova soggetta.

Posto che voi siete per vocazione divina segni visibili di unità, vogliate far sì che non si dividano a causa di opposte ideologie i cristiani del vostro Paese, i quali unisce “un solo Signore, una sola fede, un solo Battesimo, un solo Dio e Padre”, come essi sono soliti cantare ispirandosi alle parole dell’apostolo Paolo. E avvenga che uniti dalla medesima fede e respingendo tutto ciò che è contrario o distrugge questa unità, i vostri cristiani siano accomunati negli ideali evangelici di giustizia, pace, solidarietà, comunione e partecipazione, senza che li separino irrimediabilmente opzioni contingenti nate da sistemi correnti, partiti e organizzazioni.

Cresce, da questo punto di vista, la vostra responsabilità, poiché intorno al Vescovo deve intessersi concretamente l’unità dei fedeli.

Conoscete la grande importanza delle lettere di sant’Ignazio di Antiochia, sia per l’autorità di chi le ha scritte – un discepolo dell’apostolo amato – sia per l’antichità che fa di esse la testimonianza di un momento vitale nella storia della Chiesa, sia per la ricchezza del suo contenuto dottrinale.

Ebbene, con termini molto forti Ignazio dimostra in queste lettere, certamente per rispondere alle prime difficoltà in questo campo, che non c’è né può esserci comunione valida e duratura nella Chiesa se non nell’unione di mente e cuore, di rispetto e obbedienza, di sentimenti e di azione con il Vescovo. Quella delle corde della lira è un’immagine bella e suggestiva di una realtà più profonda: il Vescovo è come Gesù Cristo, reso presente in mezzo alla sua Chiesa quale principio vivo e dinamico di unità. Senza di lui questa unità non esiste o si trova ad essere falsata e, pertanto, è inconsistente ed effimera.

Da ciò l’assurdo e pericoloso che è l’immaginarsi, come a lato – per non dire di fronte – alla Chiesa costruita intorno al Vescovo, un’altra Chiesa concepita come “carismatica” e non istituzionale, “nuova” e non tradizionale, alternativa e, come si preconizza ultimamente, una “Chiesa popolare”.

Non ignoro che a tale denominazione – sinonimo di “Chiesa che nasce dal popolo” – si può attribuire un significato accettabile. Con essa si vorrebbe indicare che la Chiesa sorge quando una comunità di persone, specialmente di persone disposte per la loro piccolezza, umiltà e povertà alla avventura cristiana, si apre alla Buona Novella di Gesù Cristo e comincia a viverla nella comunità di fede, amore, speranza, preghiera, di celebrazione e partecipazione ai misteri cristiani, specialmente nell’Eucaristia.

Sapete però che il documento conclusivo della III Conferenza Episcopale Latinoamericana di Puebla definì “poco felice” questo nome di “Chiesa popolare” (cf. Puebla, n. 263). Lo fece, dopo maturo studio e riflessione tra i Vescovi di tutto il Continente, perché era cosciente del fatto che questo nome nasconde, in generale, un’altra realtà.

“Chiesa popolare”, nella sua accezione più comune, accertabile negli scritti di una certa corrente teologica, significa una Chiesa che nasce molto più da supposti valori di uno strato di popolazione che dalla libera e gratuita iniziativa di Dio. Significa una Chiesa che si esaurisce nella autonomia delle cosiddette basi, senza riferimento ai legittimi Pastori o Maestri; o almeno sovrapponendo i “diritti” delle prime all’autorità e ai carismi che la fede fa percepire nei secondi. Significa – giacché al termine “popolo” si dà facilmente un contenuto marcatamente sociologico e politico – Chiesa incarnata nelle organizzazioni popolari, segnata da ideologie, poste al servizio delle loro rivendicazioni, dei loro programmi. È facile percepire – e lo indica esplicitamente il documento di Puebla – che il concetto di “Chiesa popolare” difficilmente sfugge alla infiltrazione di connotazioni fortemente ideologiche, nella linea di una certa radicalizzazione politica, della lotta di classe, dell’accettazione della violenza per il conseguimento di determinati fini, ecc.

Quando io stesso, nel mio discorso d’inaugurazione dell’Assemblea di Puebla, indicai serie riserve sulla denominazione “Chiesa che nasce dal popolo”, tenevo presenti i pericoli che ho appena ricordato. Perciò, sento ora il dovere di ripetere, valendomi della vostra voce, lo stesso avvertimento pastorale, affettuoso e chiaro. È un richiamo rivolto ai vostri fedeli per mezzo vostro.
Una “Chiesa popolare” opposta alla Chiesa presieduta dai legittimi Pastori è – dal punto di vista dell’insegnamento del Signore e degli Apostoli nel Nuovo Testamento ed anche nell’insegnamento antico e recente del Magistero solenne della Chiesa – una grave deviazione dalla volontà e dal piano di salvezza di Gesù Cristo. È inoltre un principio di sgretolamento e di rottura di quella unità che egli lasciò quale segno caratteristico della Chiesa stessa, e che egli volle affidare precisamente a coloro che “lo Spirito Santo ha posto a pascere la Chiesa di Dio” (At 20,28).

Vi affido inoltre, amati fratelli nell’Episcopato, l’incarico e il compito di rivolgere ai vostri fedeli, con pazienza e fermezza, questo richiamo di fondamentale importanza.

Teniamo tutti presente nello spirito il drammatico giudizio del mio predecessore Paolo VI, quando scriveva nella sua memorabile esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi che i pericoli più insidiosi e gli attacchi più mortali per la Chiesa non sono quelli che vengono dall’esterno – questi possono solo rafforzarla nella sua missione e nella sua opera – ma sono quelli che vengono dall’interno.

Tutti i figli della Chiesa si adoperino dunque, in questo momento storico per il Nicaragua e per la Chiesa in questo Paese, a contribuire a mantenere solida la comunione intorno ai suoi Pastori, evitando qualsiasi germe di frattura o divisione.

Questo richiamo giunga soprattutto alla coscienza dei presbiteri, siano essi nativi del paese, missionari che da molti anni consacrano la loro vita al ministero pastorale in questa nazione o volontari desiderosi di dare il loro contributo ai fratelli nicaraguesi, in un momento di somma importanza. Sappiano che se desiderano veramente servire il popolo come sacerdoti, questo popolo affamato e assetato di Dio e pieno di amore per la Chiesa, spera da loro l’annuncio del Vangelo, la proclamazione della paternità di Dio, l’amministrazione dei misteri sacramentali della salvezza. Non è in un ruolo politico, ma nel ministero sacerdotale che il popolo desidera averli vicini.

Trasmettete questo richiamo alla coscienza dei religiosi e religiose, nativi o venuti dall’estero. La gente di questo paese desidera vederli uniti ai loro Vescovi in una incrollabile comunione ecclesiale, portatori di un messaggio non parallelo, e ancor meno contrapposto, ma armonico e coerente con quello dei loro legittimi Pastori.

Trasmettete questo richiamo a quanti si trovano a qualche titolo al sincero servizio della missione della Chiesa, specialmente se ricoprono posizioni di particolare responsabilità come nell’Università, nei Centri di studio e di ricerca, nei mezzi di comunicazione sociale, ecc. Offrano la loro disponibilità a servire in conformità con la disposizione ugualmente generosa e decisa dei loro Vescovi e della grandissima porzione del popolo che, con i Vescovi, desiderano il bene del Paese, ispirandosi agli orientamenti della Chiesa.

Vi esorto infine, cari fratelli, a proseguire anche in mezzo a non lievi difficoltà, nel vostro instancabile lavoro, per assicurare la presenza attiva della Chiesa in questo momento storico che vive il Paese.

Sotto la vostra direzione di Pastori solleciti, avvenga che i fedeli cattolici del Nicaragua diano costantemente una testimonianza chiara e convincente di amore e di capacità di servizio al loro paese, non minore né meno efficace di quella di altri. Una testimonianza di chiaroveggenza di fronte ai fatti e alle situazioni. Di piena disponibilità a servire la causa autentica del popolo. Di valore nel proporre, in ogni situazione, il pensiero e gli orientamenti – ciò che ho molte volte chiamato il cammino – della Chiesa, anche quando questi non siano in accordo con altri cammini proposti.

Desidero, spero e auguro che facciate tutto il possibile perché nel vostro popolo la fedeltà a Cristo e alla Chiesa, lungi dal diminuirla, confermi e arricchisca la lealtà verso la patria terrena.

Con questa opportunità mi compiaccio nel darvi fraternamente, in pegno di abbondanti grazie divine per le vostre persone e il vostro ministero, la mia cordiale benedizione apostolica, che estendo a tutti i vostri fedeli.

Vaticano, 29 giugno 1982.

GIOVANNI PAOLO II

 

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