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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI ITALIANI PARTECIPANTI ALLA
XXXV ASSEMBLEA GENERALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE

Giovedì, 14 maggio 1992

 

Christòs anèsti! Cristo è risorto!

1. Venerati e cari Confratelli, in questo tempo pasquale risuoni tra noi l’annuncio gioioso che il Signore è risorto e vivo: “Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù” (At 3, 13). Mentre così profonde novità segnano la vita delle Chiese e dei popoli dell’Europa, e li riavvicinano tra loro per un mutuo scambio di doni, accogliamo l’invito a porre il nostro incontro sotto il segno della fede nel Risorto.

Cristo è risorto! “Non era possibile”, infatti, che la morte “tenesse in suo potere” (At 2, 24) colui che è “l’Autore della vita” (At 3, 15). Il saluto che ci scambiamo ci riconduce al centro della nostra fede, e ci dà di coglierla nella sua essenzialità: il mistero di un Dio che è all’origine di tutto e che nel suo Figlio incarnato va incontro alla morte per liberare l’umanità che ne è diventata schiava. In questa fede vogliamo reciprocamente confermarci e confermare i nostri fratelli (cf. Lc 22, 32; At 1, 22). Questa fede vogliamo proclamare nelle nostre comunità ecclesiali, per riaffermare la potenza della vita nuova e divina, ricevuta in dono nel Battesimo. Questa fede dobbiamo instancabilmente annunciare a un mondo che continua a manifestare segni di ardente sete di vita, anche se tante volte non sa dove cercarne l’autentica sorgente. Cristo è risorto! Il saluto si fa così parola che apre alla speranza e mandato che impegna. È un saluto che, nella comunione della fede e nella condivisione di quanto in ambito pastorale e sociale la Conferenza Episcopale Italiana autorevolmente propone, vuole esprimere anche la comunione del cuore che mi lega a tutti voi: al Cardinale Camillo Ruini, Presidente, al Cardinale Salvatore Pappalardo, che, dopo undici anni di apprezzata collaborazione, cessa di essere uno dei Vice Presidenti, e a Mons. Giuseppe Agostino che gli subentra, a Mons. Dionigi Tettamanzi, Segretario Generale, a ciascuno di voi, Vescovi delle varie Chiese particolari d’Italia, qui riuniti per i lavori della XXXV Assemblea Generale della Conferenza Episcopale.

2. Il nostro incontro viene dopo la conclusione delle visite “ad limina Apostolorum”, che dal gennaio 1991 al febbraio 1992 hanno permesso a ciascuno, singolarmente e nelle Conferenze Episcopali regionali, di rinnovare la comunione con la Sede di Pietro e, quindi, con tutta la Chiesa. In queste visite ho avuto modo di approfondire la conoscenza delle situazioni sociali, culturali e pastorali, e di condividere con voi la sollecitudine per le Chiese e per la gente di questo amato Paese. L’incontrarvi è per me, quindi, una felice occasione per poter ripercorrere insieme quanto ci siamo detti in questi mesi e per riproporre, alla vostra attenzione e a quella delle vostre comunità ecclesiali, alcune costanti emerse dal nostro dialogo, come punti di riferimento per il cammino che le Chiese in Italia stanno compiendo, secondo gli orientamenti pastorali che opportunamente vi siete dati per gli anni ‘90, sotto il tema di “Evangelizzazione e testimonianza della carità”.

3. Il motivo conduttore, il richiamo pastorale sempre ribadito nei nostri incontri è stato l’appello a un rinnovato impegno di evangelizzazione, la riaffermazione della necessità e dell’urgenza indilazionabile di una “nuova evangelizzazione”. La recente Assemblea Speciale per l’Europa del Sinodo dei Vescovi ha mostrato con grande chiarezza come tale esigenza sia profondamente avvertita e condivisa da tutte le Chiese di questo Continente (cf. Declaratio, 3). Si tratta di una esigenza che scaturisce, anzitutto, dalla consapevolezza che la proclamazione del Vangelo è un atto mai concluso e sempre da rinnovarsi, coscienti come siamo della straordinaria ricchezza del dono che ci viene fatto e della inadeguatezza di ogni nostra pur generosa accoglienza. Tale esigenza è pure legata alla constatazione della svolta epocale che stanno vivendo la cultura e la vita dei popoli dell’Europa, attraversate da una crisi della coscienza collettiva che rischia di oscurarne o addirittura di strapparne le radici cristiane. Il richiamo al dovere di ridire il Vangelo agli uomini di questo tempo e di questi Paesi di antica evangelizzazione si accresce di ulteriori motivazioni nel V Centenario della evangelizzazione dell’America: una memoria che induce a verifica e fa appello a un nuovo slancio di missionarietà, due atteggiamenti che presuppongono una chiara e forte coscienza del Vangelo e della sua verità che salva.

4. Occorre riconoscere che questo appello a una “nuova evangelizzazione” assume connotazioni tutte proprie per le comunità ecclesiali italiane, per la singolarità di questo Paese e la varietà di situazioni culturali e religiose al suo interno. Su queste caratteristiche ci siamo confrontati negli incontri con le varie Conferenze Episcopali regionali. Mi basta qui, pertanto, brevemente accennarle. I segni della presenza del Vangelo nella storia e nella cultura del popolo italiano non cessano di manifestarsi, lasciando emergere un ricco patrimonio di valori spirituali, morali e umani. È viva pure nella maggioranza della gente la coscienza di un’appartenenza a un contesto religioso, cui ci si affida soprattutto negli eventi fondamentali della vita, come la nascita e la morte. Sono ancora significative, specialmente in alcuni contesti sociali, forme di espressione religiosa tradizionale, di pietà popolare e di religiosità civica. È però anche vero che la cultura, che sempre più va permeando la società italiana, presenta caratteri di crescente secolarismo e indifferentismo. La forma con cui questi si manifestano è prevalentemente quella di un relativismo, che abbraccia tanto la sfera della verità che quella dell’etica. Proprio a queste radici, come a loro terreno di coltura, si riconducono i molteplici fenomeni di disgregazione e di malessere sociale, l’appiattimento della persona e dei modelli sociali su forme di vita puramente consumistiche, i diversi attentati alla vita umana e alla legalità, il concreto disprezzo del valore incomparabile della persona e della doverosa ricerca della giustizia e della solidarietà.

5. Di fronte a questa situazione, più volte abbiamo ripetuto che con la “nuova evangelizzazione” vogliamo metterci in cammino verso traguardi di maturità: il nostro obiettivo pastorale primario è di edificare comunità cristiane mature e di aiutare i cristiani a crescere in una fede adulta, cristiani e comunità cioè che sappiano essere nel mondo testimoni della trascendente verità della vita nuova in Cristo. La maturità della fede è una risposta alle esigenze dei tempi. E ciò giustamente, perché compito della Chiesa nella storia è di discernere i segni dei tempi, rispondere alle sollecitazioni che la richiamano a vivere nella fedeltà al suo Signore, sempre più profondamente ma anche in modi sempre più comprensibili dagli uomini d’oggi (cf. Gaudium et spes, 4). Ma la tensione verso la maturità della fede non dipende solo né primariamente dalle esigenze, pur importanti, delle circostanze storiche. Essa infatti è connaturata al dinamismo stesso della vita cristiana. Per sua intima natura, la fede reclama la totale disponibilità del credente a un radicamento sempre più profondo e a una espressione sempre più ampia, seguendo il dinamismo stesso dello Spirito, che è fonte inesauribile di vita e di pienezza (cf. Rm 8, 1-17). La vita del cristiano e quella della comunità di fede, incarnazioni germinali del Regno di Dio, richiedono per loro stessa natura di sprigionare dal piccolo granello di senapa le potenzialità del grande albero (cf. Mt 13, 31-32).

6. Occorre a questo punto riflettere su cosa vogliamo dire quando parliamo di “maturità” di fede. Certamente essa implica accoglienza del dono della grazia, libera scelta personale, consapevolezza di verità, apertura alla celebrazione e alla lode di Dio, superamento di ogni frattura tra fede e vita nel servizio della carità e nell’impegno per la giustizia, coinvolgimento responsabile nell’edificare il tessuto delle comunità ecclesiali, generosa e coerente comunicazione della propria esperienza di fede nella missionarietà, convinta partecipazione alla inculturazione della fede, appassionata offerta e organizzazione della speranza nell’attuale realtà sociale e politica. Dietro ciascuna di queste espressioni della maturità cristiana sta quella compromissione totale dell’esistenza personale e comunitaria che nel Vangelo assume la forma del seguire Gesù. “Vieni e seguimi!”, è l’invito di Gesù a chi gli chiede indicazioni per raggiungere la pienezza della vita (Mt 19, 21). Ma la condizione di questa sequela è la piena espropriazione di sé, per “ritrovare” se stesso nella adesione a Gesù Cristo e, con lui, nel dono di sé ai fratelli: “se qualcuno vuole venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16, 24-25). L’invito e le condizioni di Gesù riguardano tutti, perché unica, nelle diverse forme, è la vocazione alla santità, unico è il distacco richiesto nei riguardi degli idoli di questo mondo, unica è la sequela del Signore. La fede cristiana non si identifica con la pura accoglienza di un complesso di verità, sebbene non possa sussistere senza l’adesione della mente alla verità rivelata e la continua e amorosa ricerca dell’intelligenza di essa. La fede cristiana non si riduce neppure alla semplice obbedienza ai comandamenti del Signore, sebbene non possa prescindere dalla coerenza della vita con la verità che si professa. La fede cristiana manifesta la sua assoluta originalità e novità nell’essere un incontro personale con il Signore Gesù, una comunione e condivisione di vita con lui. “Venite e vedrete”, dice Gesù ai primi discepoli, ed essi “si fermarono presso di lui” (Gv 1, 39). Vedere il Signore, dimorare con Lui e in Lui (cf. Gv 15, 1-11), questa è la scelta radicale che il Vangelo propone e che costituisce il criterio e la misura della maturità del discepolo di Cristo. È da questo incontro e da questa comunione personale che nasce la forza della testimonianza e lo slancio della missionarietà. “Ho visto il Signore”, è il grido di Maria di Magdala dopo l’incontro con il Maestro risorto (Gv 20, 18), e lo stesso affermano Tommaso e i discepoli che hanno ricevuto dal Risorto il dono della pace e dello Spirito: “Abbiamo visto il Signore” (Gv 20, 22).

7. Parrebbe prevalere nella cultura contemporanea il convincimento che la condizione dell’adulto si identifichi con quella di una totale autonomia. Adulto, per molti uomini e donne del nostro tempo, è colui che è autonomo dagli altri, che non soggiace a nessuno e che di nessuno necessita nel suo fare e produrre. Adulta sarebbe la ragione che si è svincolata da ogni legame di tradizione e di rivelazione. Adulta sarebbe la volontà di chi prescinde da ogni norma e si determina secondo un arbitrio che non ha riferimenti se non in se stesso. Non così pensa il Vangelo, per il quale essere “adulto”, ovvero essere “grande”, non si misura sul potere autonomo di cui si gode e sulla produttività di cui si è capaci, ma, al contrario, sul farsi “piccolo” e considerarsi “servo” di tutti: “Chi è il più piccolo tra tutti voi, questi è grande” (Lc 9, 48) e “colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo” (Mt 20, 26). In questa duplice figura del “piccolo” e del “servo” sta l’essenza stessa della maturità cristiana. Essa è totale affidamento a Dio come Padre, in una assoluta disponibilità all’ascolto della sua Parola e delle esigenze dei fratelli, a non considerare mai compiuta la propria esistenza in attesa di una voce che ancora una volta dica: “Ora va’! Io ti mando” (Es 3, 10). Essa implica totale compromissione con gli altri e per gli altri, come espressione perfetta dell’amore che viene da Dio. In una società che sembra aver generalizzato il minimalismo delle proposte di vita, il radicalismo della proposta del Signore Gesù suona come una sfida suggestiva e tremenda ad assumere in pienezza la responsabilità di se stessi per farsi dono totale al Padre e ai fratelli. È la sfida a poggiare le radici della propria esistenza personale e comunitaria nella salda ricchezza del dono inesauribile dello Spirito, piuttosto che nella limitatezza e precarietà dei nostri sforzi e delle nostre realizzazioni umane.

8. Parlare di cristiani “maturi” nei termini dei “piccoli” e dei “servi” non significa affatto optare per una identità cristiana meno evidente e meno presente nella storia. Al contrario: Annunciando le Beatitudini, il Signore Gesù comincia con il chiamarci alla “povertà nello spirito”, per renderci simili a Lui “mite ed umile di cuore” (Mt 11, 29), e conclude con la prospettiva di una persecuzione per causa sua e del Vangelo, come espressione suprema del servizio di testimonianza ai fratelli (cf. Mt 5, 3-12). In mezzo a questo cammino - dalla povertà al servizio e dall’espropriazione di sé al rifiuto da parte del mondo -, sta l’adesione piena alla verità, cioè al mistero salvifico di Dio, al suo disegno sulla storia e sul mondo, che il Vangelo chiama la sua “giustizia”. Scegliere che Dio e la sua “giustizia” siano al centro della nostra esistenza - ed è questa la scelta fondamentale -, implica l’accettazione delle esigenze radicali con cui Gesù, con la sua parola “Ma io vi dico...”, ci insegna un progetto di vita che contraddice le logiche dominanti del mondo, quelle che fanno del potere, dell’avere e del piacere gli idoli dell’uomo (cf. Mt 5, 20-48). Solo su questa strada si cammina verso quella maturità che il Vangelo chiama perfezione: “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5, 48). Questa “giustizia” e “perfezione”, che risplende nelle “opere buone”, è la prima forma di evangelizzazione dei nostri fratelli, perché “rendano gloria al Padre che è nei cieli” (Mt 5, 16).

9. Mi è caro affidarvi questa immagine di maturità nella fede, perché ad essa potrà far riferimento l’impegno di approfondimento degli Orientamenti pastorali per gli anni ‘90, alla luce delle responsabilità delle Chiese in Italia nei confronti della nuova situazione dell’Europa. Su questa figura di maturità dovranno soprattutto misurarsi i diversi soggetti dell’azione pastorale. Prima fra tutti la comunità parrocchiale, il cui tessuto cristiano necessita di una profonda ricostruzione (cf. Evangelizzazione e testimonianza della carità, 28), attraverso una presenza viva e cooperante di tutti i suoi membri: presbiteri, diaconi, religiosi, fedeli laici. I giovani, poi, cui è da riservare particolare attenzione, per accompagnarli con un dialogo personalizzato nella formazione di una forte personalità cristiana. Un ruolo non secondario in ciò è chiamata a svolgere la scuola, che, nelle sue varie forme e nei suoi diversi momenti, dovrebbe proporsi come luogo di esperienza di integrale umanità; nella scuola si realizza in misura rilevante il più ampio compito di presenza della Chiesa nel mondo della cultura. Alla costruzione di questa maturità cristiana ed ecclesiale deve concorrere in particolare quel cammino permanente di catechesi, che la vostra Conferenza Episcopale, d’intesa con la Santa Sede, sta progressivamente offrendo alle comunità ecclesiali, tramite i diversi volumi del Catechismo per la vita cristiana. Al suo vertice si pone la catechesi degli adulti, a cui un particolare impulso potrà venire dalla celebrazione del II Convegno nazionale dei Catechisti nel prossimo novembre. Di questa immagine piena dell’esperienza cristiana devono, infine, farsi portatori, insieme con le forze educative e culturali, i mezzi di comunicazione sociale, affinché a tutti possa risplendere, con verità ed efficacia, la gioia che l’incontro con il Risorto genera nel cuore di chi crede in lui e a lui si affida (cf. Lc 24, 32. 41).

10. Un’ultima parola sento di dover aggiungere. Nel proporre alla porzione del popolo di Dio affidata alla vostra guida pastorale questi traguardi di maturità, sarete affiancati anzitutto dai vostri presbiteri. So che ad essi e ai loro problemi la vostra Conferenza Episcopale dedicherà l’Assemblea Generale del prossimo ottobre, e sono certo che in quella occasione le indicazioni della Esortazione apostolica postsinodale Pastores dabo vobis, che ho voluto indirizzare a tutta la Chiesa in occasione del Giovedì Santo, non mancheranno di essere meditate e attualizzate per la situazione della Chiesa in Italia. Da questo documento, che offre un progetto articolato di riflessione sulla identità del presbitero e sulle esigenze della sua formazione, permettete che stralci un testo, come esortazione per tutti noi, fratelli nell’episcopato: “La fisionomia del presbiterio è... quella di una vera famiglia, di una fraternità, i cui legami non sono dalla carne e dal sangue, ma dalla grazia dell’Ordine: una grazia che assume ed eleva i rapporti umani, psicologici, affettivi, amicali e spirituali tra i sacerdoti; una grazia che si espande, penetra e si rivela e si concretizza nelle più varie forme di aiuto reciproco, non solo quelle spirituali ma anche quelle materiali. La fraternità presbiterale non esclude nessuno, ma può e deve avere le sue preferenze: sono quelle evangeliche, riservate a chi ha più grande bisogno di aiuto o di incoraggiamento” (n. 74).

Possiate, cari fratelli, realizzare questa fraternità nel vostro presbiterio. Siate padri, fratelli e amici dei vostri presbiteri: incoraggiatene costantemente con l’insegnamento e l’esortazione il ministero, sorreggeteli con la vostra presenza e condivisione nelle difficoltà, sperimentate con loro la dolcezza di far parte del gruppo di coloro che il Signore ha scelto perché insieme stiano sempre con lui (cf. Mc 3, 14; At 1, 21).

11. Affido queste riflessioni a Maria Santissima, invocando la sua intercessione, perché possano tradursi in progetti concreti di impegno pastorale, facendo di ciascuno di voi un fedele amministratore della grazia del Signore (cf. 1 Cor 4, 1-2) e un pastore sollecito del suo popolo (cf. 1 Pt 5, 1-4). Con questa fiducia imparto a ciascuno di voi e alle vostre Chiese la benedizione apostolica.  

 

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