Index   Back Top Print

[ IT  - LA ]

LETTERA ENCICLICA
AD SALUTEM HUMANI
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO XI
IN OCCASIONE DEL QUINDICESIMO CENTENARIO
DELLA MORTE DI SANT'AGOSTINO

 

Ai Venerabili Fratelli Patriarchi,
Primati, Arcivescovi, Vescovi
e agli altri Ordinari locali
che hanno pace e comunione con la Sede Apostolica.
 

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

L’efficace assistenza, con la quale Gesù Cristo ha finora protetto e proteggerà in avvenire la Chiesa da Lui provvidenzialmente fondata per la salute del genere umano, se già non apparisse conveniente, anzi del tutto necessaria alla natura stessa della divina istituzione e non si appoggiasse alla promessa del divino Fondatore, quale si legge nel Vangelo, si potrebbe tuttavia dedurre con ogni evidenza dalla stessa storia della Chiesa, non mai contaminata da veruna peste di errore, né scossa dalle defezioni, per quanto numerose, di figli suoi, né dalle persecuzioni degli empi, anche se spinte all’estremo della ferocia, mai limitata nel suo vigoroso rigoglio, quasi di gioventù che continuamente si rinnova. Svariate furono le vie e i disegni con cui Iddio volle, in ogni età, provvedere alla stabilità e favorire i progressi della sua istituzione perenne, ma specialmente vi provvide suscitando di volta in volta uomini insigni, perché essi, con l’ingegno e con opere mirabilmente opportune alla varietà dei tempi e delle circostanze, arginando e debellando il potere delle tenebre, confortassero il popolo cristiano.

Orbene, tale accurata elezione della Divina Provvidenza, più che in altri, risalta nitidamente in Agostino di Tagaste. Egli, dopo essere apparso ai coetanei quasi lucerna sul candelabro, sterminatore di ogni eresia e guida all’eterna salute, non solo continuò nel corso dei secoli ad ammaestrare e confortare i fedeli, ma anche ai giorni nostri reca un grandissimo contributo perché vigoreggi il fulgore della verità della fede e divampi l’ardore della carità divina. Anzi a tutti è noto, come non pochi, benché da Noi separati e che sembrano persino totalmente alieni dalla fede, si sentono attratti dagli scritti di Agostino, pieni di tanta sublimità e di soave diletto. Pertanto, cadendo quest’anno la fausta ricorrenza del XV centenario della beata morte del grande Vescovo e Dottore, i fedeli di quasi tutto il mondo bramosi di celebrarne la memoria, preparano solenni dimostrazioni di devota ammirazione. E Noi, sia per ragione del Nostro ministero apostolico, sia perché mossi da profondo sentimento di giubilo, volendo prendere parte a questa celebrazione universale, vi esortiamo, venerabili Fratelli, e con voi esortiamo il vostro clero e il popolo a voi affidato, a unirvi con noi nel rendere vivissime grazie al Padre celeste per aver egli arricchito la sua Chiesa di così grandi e numerosi benefìci per mezzo di Agostino, il quale dalla doviziosa sorgente dei doni divini tanta ricchezza seppe attingere per sé e tanta diffonderne in mezzo al popolo cattolico. Ben è vero però che anziché gloriarsi di un uomo, il quale, aggregato quasi per prodigio al corpo mistico di Gesù Cristo, non ebbe forse mai, a giudizio della storia, in nessun tempo e presso nessun popolo chi lo superasse in grandezza e sublimità, converrà piuttosto penetrarne la dottrina e nutrirsene e imitare gli esempi della santa sua vita.

Le lodi di Agostino non cessarono mai di risuonare nella Chiesa di Dio, massime per opera dei Romani Pontefici. Infatti Innocenzo I salutava il santo Vescovo ancora vivente, suo amico carissimo [1], ed encomiava le lettere ricevute da lui e da quattro Vescovi suoi amici come « lettere piene di fede e forti di tutto il vigore della religione cattolica » [2]. E Celestino I difendeva dagli avversari Agostino, poc’anzi defunto, con queste magnifiche parole: «Noi ritenemmo sempre nella nostra comunione Agostino di santa memoria per la sua vita e per i suoi meriti, né mai quest’uomo fu anche solo sfiorato da dicerie di sinistro sospetto; e ricordiamo ch’egli fu ai suoi tempi di tanto sapere, che anche dai miei predecessori fu sempre reputato fra i maestri migliori. Tutti dunque nutrirono comunemente buona opinione di lui, come d’uomo che riuscì a tutti di gradimento e di onore » [3]. Gelasio I esaltava insieme Girolamo ed Agostino, « quali luminari dei maestri ecclesiastici » [4]; ed Ormisda, al vescovo Possessore che lo consultava, rispose in questa forma veramente solenne: «Quale dottrina sia tenuta e affermata dalla Chiesa Romana, ossia cattolica, intorno al libero arbitrio e alla grazia divina, benché possa conoscersi nei vari libri del beato Agostino, massime in quelli ad Ilario e a Prospero, tuttavia si hanno capitoli espliciti negli archivi ecclesiastici » [5]. Non diversa è la testimonianza di Giovanni II, il quale, richiamandosi contro gli eretici alle opere di Agostino, dice: « La sua dottrina, secondo gli statuti dei miei predecessori, è seguita ed osservata dalla Chiesa Romana » [6]. E chi ignora quanto, nei tempi più vicini alla morte di   Agostino, fossero versati nella dottrina di lui i Pontefici Romani, come per esempio Leone Magno e Gregorio Magno? Questi infatti, con sentimento quanto umile per sé altrettanto onorifico per Agostino, così scriveva ad Innocenzo, Prefetto dell’Africa: «Se desiderate impinguarvi di un pascolo delizioso, leggete gli opuscoli di Agostino, vostro compatriota, e dopo l’acquisto del suo fior di farina non cercate la nostra crusca » [7]. È parimenti noto come Adriano I fosse solito citare passi di Agostino, da lui chiamato «Dottore egregio » [8]; è noto altresì come Clemente VIII per chiarire controversie difficili e Pio VI nella Costituzione Apostolica « Auctorem Fidei » per smascherare gli equivoci capziosi del Sinodo di Pistoia si servissero, come di appoggio, dell’autorità di Agostino. Torna poi ad onore del Vescovo d’Ippona, che assai spesso i Padri riuniti in Concilio adoperarono le stesse sue parole per definire la verità cattolica; e basti citare come esempio il Concilio di Orange II e il Tridentino. E per rifarCi agli anni Nostri giovanili, Ci piace riferire qui, e quasi far soavemente risonare nel Nostro cuore le parole con cui l’immortale Nostro predecessore Leone XIII, dopo aver fatto menzione dei Dottori delle età precedenti a quella di Agostino, esalta l’aiuto da lui recato alla filosofia cristiana: «Ma parve che a tutti togliesse la palma Agostino, il quale, dotato di robustissimo ingegno, e pieno al sommo delle discipline sacre e profane, gagliardamente combatté tutti gli errori dell’età sua con somma fede e con eguale dottrina. Qual punto della filosofia non ha egli toccato? Anzi, quale non approfondì con somma diligenza, o quando spiegava ai fedeli i misteri altissimi della fede e li difendeva contro gli stolti assalti degli avversari, o quando, annientate le follie degli Accademici e dei Manichei, metteva in salvo i fondamenti e la solidità della scienza umana, o quando andava ricercando la ragione, l’origine e le cause di quei mali dai quali gli uomini sono travagliati? »[9].

Ma prima di addentrarCi nella trattazione dell’argomento che Ci siamo proposto, vogliamo che siano tutti avvertiti che le lodi, veramente magnifiche, tributate dagli antichi autori ad Agostino, vanno prese nel loro giusto valore, e non già nel senso in cui le intesero alcuni di sentimenti non cattolici, come se l’autorità delle sentenze di Agostino fosse da anteporre all’autorità della Chiesa docente.

Veramente « ammirabile è Iddio ne’ suoi Santi! » [10]. Ed Agostino nel libro delle sue Confessioni illustrò ed altamente magnificò la misericordia usatagli da Dio, con accenti che sembrano prorompere dai recessi più profondi di un cuore pieno di gratitudine e di amore. Per una speciale disposizione della Divina provvidenza, fin da fanciullo da sua madre Monica era stato talmente infiammato dell’amore divino, che poté un giorno esclamare: «Questo nome, tutto secondo la tua misericordia, o Signore, questo nome del mio Salvatore e Figlio tuo, fu dal mio cuore ancor tenero succhiato con lo stesso latte materno e altamente ritenuto impresso; e qualunque cosa non portasse questo nome, per quanto ricca di dottrina, di eleganza e di verità, non mi attirava totalmente » [11]. Da giovane poi, lungi dalla madre e discepolo di pagani, rallentatosi nella pietà di prima, si diede miseramente a servire alle voluttà del corpo e s’impigliò nei lacci dei Manichei, rimanendo nella loro setta circa nove anni; e ciò permise l’Altissimo, perché il futuro Dottore della Grazia apprendesse per propria esperienza, e tramandasse ai posteri, quanta sia la debolezza e la fragilità di un cuore, anche nobilissimo, non rinsaldato nella via della virtù dall’aiuto di una formazione cristiana e dalla preghiera assidua, massime nell’età giovanile, quando la mente con maggiore facilità resta adescata e snervata dagli errori, ed il cuore viene sconvolto dai primi impulsi dei sensi. Parimente Iddio permise questo disordine, perché Agostino conoscesse per pratica quanto infelice sia colui che tenta di riempirsi e saziarsi di beni creati, come egli stesso più tardi ebbe schiettamente a confessare al cospetto di Dio: « Tu infatti mi eri sempre vicino, misericordiosamente tormentandomi e aspergendo di amarissime contrarietà tutti i miei illeciti godimenti, perché così cercassi di godere senza contrarietà, e insieme non trovassi ove poter ciò fare, fuori di te, o Signore » [12]. E come mai Agostino sarebbe stato abbandonato a se stesso dal Padre celeste, se per lui insisteva con pianti e preghiere Monica, vero modello di quelle madri cristiane le quali, con la loro pazienza e dolcezza, con la continua invocazione della Divina Misericordia, ottengono alla fine di veder richiamati i figliuoli al retto sentiero? No, non poteva accadere che perisse il figlio di tante lacrime [13]; e bene ebbe a dire lo stesso Agostino: « Anche quanto narrai nei medesimi libri intorno alla mia conversione, convertendomi Iddio a quella fede che io turbavo con la mia così meschina e dissennata loquacità, non ricordate come tutto questo fu narrato in modo da mettere in risalto essere stato concesso alle fedeli e costanti lacrime di mia madre che io non perissi? »[14]. Pertanto Agostino cominciò gradatamente a staccarsi dall’eresia de’ Manichei, e, come spinto da ispirazione e impulso divino, a lasciarsi condurre incontro al Vescovo di Milano, Ambrogio, mentre il Signore « con mano tutta delicatezza e misericordia, trattando e plasmando il cuore » [15] di lui, operava in modo che, per mezzo dei dotti sermoni di Ambrogio, venisse condotto a credere nella Chiesa Cattolica e nella verità dei Libri Santi; sicché fin d’allora il figlio di Monica, benché non ancora sciolto dalle cure e dalle lusinghe dei vizi, pure era già fermamente persuaso che, per divina disposizione, non esiste via di salute se non in Gesù Cristo Signor Nostro e nella Sacra Scrittura, della cui verità unica garante è l’autorità della Chiesa Cattolica [16]. Ma quanto difficile e tormentata è la totale mutazione di un uomo da lungo tempo fuorviato! Egli infatti continuava a servire alle cupidigie e passioni del cuore, non sentendosi abbastanza forte da soffocarle; e lungi dall’attingere il vigore a ciò necessario almeno dalla dottrina platonica intorno a Dio e alle creature, avrebbe anzi spinto all’estremo la sua miseria con una miseria assai peggiore, ossia con la superbia, se finalmente non avesse appreso dalle Epistole di San Paolo, che chiunque voglia vivere da cristiano deve cercare appoggio nel fondamento dell’umiltà e nell’aiuto della grazia divina. Allora finalmente — episodio che nessuno può rileggere o ricordare senza sentirsi commuovere fino alle lacrime — pentito dei trascorsi della vita passata e mosso dall’esempio di tanti fedeli, che rinunciavano a tutto pur di lucrare l’unica cosa necessaria, si diede vinto alla misericordia divina, che lo stringeva soavemente di assedio, allorché colpito, mentre pregava, da una voce repentina che gli diceva: « Prendi e leggi », aperto il libro delle Epistole che gli stava vicino, sotto l’impulso della grazia celeste che tanto efficacemente lo stimolava, gli cadde sott’occhi quel passo: «Non nelle crapule e nelle ubriachezze, non nelle morbidezze e disonestà, non nella discordia e nell’invidia, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non abbiate cura della carne nelle sue concupiscenze » [17]. E a tutti è noto come da quel momento, fino a quando rese l’anima a Dio, Agostino vivesse ormai totalmente consacrato al suo Signore.

Certo, apparve ben presto quale « vaso di elezione » e quanto illustri imprese il Signore avesse preparato in Agostino. Il quale, appena ordinato sacerdote e poi assunto all’episcopato di Ippona, prese ad illuminare con gli splendori della sua immensa dottrina e a giovare coi benefìci del suo apostolato non solo l’Africa cristiana ma la Chiesa tutta. Egli meditava pertanto le Scritture sacre, innalzava al Signore preghiere prolungate e frequenti, delle quali ancora ci risuonano nei suoi libri i sensi e gli accenti fervorosi, e intensamente studiava le opere dei Padri e dei Dottori che l’avevano preceduto e che egli umilmente venerava, per sempre meglio penetrarvi e assimilarne le verità rivelate da Dio. Così, sebbene posteriore a quei santi personaggi che rifulsero come astri splendidissimi nel cielo della Chiesa, quali ad esempio Clemente di Roma e un Ireneo, un Ilario e un Atanasio, un Cipriano e un Ambrogio, un Basilio, un Gregorio Nazianzeno e un Giovanni Crisostomo, e sebbene fosse contemporaneo di Girolamo, Agostino riscuote tuttavia la maggiore ammirazione presso il genere umano per l’acutezza e la gravità dei pensieri e per quella meravigliosa sapienza che spirano i suoi scritti, composti e pubblicati per il lungo periodo di quasi cinquant’anni. Se riesce arduo il seguire quelle sue così numerose e copiose pubblicazioni che, abbracciando tutte le questioni precipue della teologia, della sacra esegesi e della morale, sono tali che i commentatori appena riescono ad abbracciarle e a comprenderle tutte, sarà bene tuttavia in una così ricca miniera di dottrina trarre in luce alcuni di quegli ammaestramenti che sembrano più opportuni ai tempi nostri e più utili alla società cristiana.

Dapprima Agostino si adoperò con ardore a che gli uomini imparassero e con ferma persuasione ritenessero quale fosse il fine ultimo e supremo prefisso loro, e quale la via unica da seguire per giungere alla verace felicità. E chi, domandiamo noi, per quanto leggero e frivolo, poteva udire senza commuoversi un uomo, stato per tanto tempo dedito alle voluttà e ricco di tante doti da procacciarsi le agiatezze di questa vita, confessare a Dio. «Ci hai fatto per te, e il nostro cuore è inquieto fin che riposi in te »? [18]. Parole che, mentre ci danno la sintesi di tutta la filosofia ci descrivono insieme al vivo sia la carità divina verso di noi, sia la dignità singolare dell’uomo, sia la condizione miseranda di quelli che vivono lontano dal loro Creatore. E senza dubbio, ai nostri tempi soprattutto, in cui le meravigliose proprietà delle cose create ci si manifestano ogni giorno più chiaramente, e l’uomo con la virtù del suo genio riduce in suo potere le forze prodigiose per applicarle ai proprî vantaggi, ai proprî lussi e godimenti; oggidì, diciamo, mentre le opere e i capolavori artistici che l’intelligenza o la meccanica dell’uomo va producendo, si moltiplicano ogni giorno, e con incredibile rapidità si esportano in tutte le parti della terra, avviene purtroppo che l’animo nostro, immergendosi tutto nelle creature, dimentichi il Creatore, cerchi i beni fuggevoli trascurando gli eterni e converta in danno privato e pubblico, e in rovina sua propria, quei doni che dal benignissimo Iddio ha ricevuto al fine di dilatare il regno di Gesù Cristo e promuovere la salvezza sua propria. Orbene per non lasciarci assorbire da una siffatta civiltà umana, tutta intenta alle cose sensibili e alle voluttà, conviene meditare profondamente i princìpi della sapienza cristiana, tanto bene proposti e chiariti dal Vescovo d’Ippona: « Iddio dunque sapientissimo Creatore e ordinatore giustissimo delle nature tutte, Egli, che costituì il genere umano come l’ornamento massimo tra tutte le cose terrene, diede agli uomini alcuni beni convenevoli a questa vita, cioè la pace temporale secondo il modo della vita mortale, nella salvezza, nell’incolumità, e la società dello stesso genere umano, e le altre cose che sono necessarie a conservare o a recuperare questa pace stessa, come quelle che sono con opportuna convenienza accessibili ai sensi, la luce, la notte, l’aria da respirare, l’acqua da bere e tutto ciò che serve a nutrire, a vestire, a curare e ad abbellire il corpo, con questa condizione giustissima che se l’uomo farà un retto uso di siffatti beni proporzionati alla pace dei mortali, ne riceverà dei maggiori e migliori, cioè la stessa pace dell’immortalità e la convenevole gloria, e onore nella vita eterna per godere di Dio e del prossimo in Dio; chi invece ne avrà abusato, non otterrà gli uni e perderà insieme gli altri beni » [19].

Ma parlando del fine ultimo dell’uomo, Sant’Agostino si affretta a soggiungere che vano sarà lo sforzo di quanti vogliono raggiungerlo, se non si sottometteranno alla Chiesa Cattolica e non le presteranno umile obbedienza, essendo la Chiesa sola divinamente istituita per conferire luce e forza alle anime, quella luce e quella forza senza le quali necessariamente si devia dal retto sentiero e si corre facilmente all’eterna rovina. Iddio infatti, per sua bontà, non ha voluto che gli uomini restassero come titubanti e ciechi a ricercarlo: « cercare Iddio se mai, a tentoni, lo rinvenissero » [20]; ma, sgombrate le tenebre dell’ignoranza, si diede a conoscere mediante la rivelazione e richiamò gli erranti al dovere di pentirsi: e « sopra i tempi di una tale ignoranza avendo Iddio chiuso gli occhi, adesso ordina agli uomini che tutti in ogni luogo facciano penitenza » [21]. Così avendo guidato gli scrittori sacri con la sua ispirazione, affidò le Scritture sante alla Chiesa, perché le custodisse e autenticamente le interpretasse, mentre della Chiesa stessa mostrò e confermò fin da principio l’origine divina, con i miracoli operati da Cristo suo fondatore: « sanati i languenti, mondati i lebbrosi, restituito il camminare agli zoppi, la vista ai ciechi e l’udito ai sordi. Gli uomini di quel tempo videro l’acqua convertita in vino, cinque migliaia di persone saziate con cinque pani, i mari passati a piedi, i morti che risorsero a vita. Alcune di queste meraviglie provvedevano con più manifesto beneficio al corpo, altre con prodigio più occulto all’anima, e tutte agli uomini con la testimonianza della maestà divina. Così allora l’autorità di Dio tirava a sé le anime erranti dei mortali » [22]. E sia pure che la frequenza dei miracoli andasse poi alquanto diminuendo; ma per quale ragione, chiediamo, avvenne ciò se non perché la testimonianza divina si venne facendo ogni giorno più manifesta e per la stessa meravigliosa propagazione della fede e per il miglioramento che ne seguiva alla società, a norma della morale cristiana? « Pensi, dunque — così Agostino, nell’adoperarsi a richiamare alla Chiesa il suo amico Onorato — pensi che poco vantaggio sia derivato alle cose umane dal fatto che non poche persone dottissime hanno preso a discutere, e lo stesso volgo ignorante, di uomini e di donne, crede e confessa come nessuno degli elementi né di terra né di fuoco, niente insomma che tocchi i sensi del corpo, si può adorare invece di Dio, e a Dio si ha da arrivare per la sola via dell’intelligenza? che professa l’astinenza fin a contentarsi di lievissimo sostentamento di pane e di acqua, e pratica digiuni non osservati per un giorno solo, ma continuati per più giorni, e la castità fino alla rinuncia delle nozze e dei figli? che si sottopone ai patimenti fino a non far conto delle croci e del fuoco? che la liberalità spinge fino a distribuire ai poveri i proprî patrimoni? infine, che tutto questo mondo visibile disprezza, fino al desiderio della morte? Il praticare ciò è di pochi; minore è il numero di coloro che sanno farlo come si conviene; ma intanto ecco moltitudine di gente che l’approva, che l’ascolta, che manifesta per questo il suo favore, che infine l’ama; essi danno colpa alla propria fiacchezza, se non arrivano a tanto, ma ciò non è senza profitto dello spirito nella via di Dio, né senza produrre almeno alcune scintille di virtù. A tanto condusse la divina provvidenza con gli oracoli dei profeti; con l’Incarnazione e l’insegnamento di Cristo; con i viaggi degli Apostoli; con le contumelie, le croci, il sangue, le morti dei martiri; con la vita edificante dei Santi, e oltre a tutto questo, secondo la convenienza dei tempi, con miracoli degni di fatti e di virtù tanto grandi. Considerando dunque tanto manifesto l’intervento di Dio, con vantaggio e frutto così rilevanti, potremmo noi esitare a raccoglierci nel seno di quella Chiesa, che nella Sede Apostolica, per le successioni dei Vescovi, occupa il fastigio stesso dell’autorità, riconosciuta dal genere umano, checché indarno vadano attorno abbaiando gli eretici, condannati parte dal giudizio del popolo, parte dalla solennità dei Concilii e parte anche dalla maestà dei miracoli? » [23]. Queste parole di Agostino, oltre a non avere finora perduto nulla di forza e di autorità, sono state anzi, come ognuno vede, del tutto confermate dal lungo spazio di ben quindici secoli, nel corso dei quali la Chiesa di Dio, benché angustiata da tribolazioni tanto numerose e da tanti sconvolgimenti; benché dilaniata da tante eresie e scissioni, afflitta dalla ribellione e dalla indegnità di tanti suoi figli, pur nondimeno fidente nelle promesse del suo Fondatore, mentre si è veduta cadere attorno, l’una dopo l’altra, le umane istituzioni, non solamente è rimasta salva e sicura, ma ancora in ogni età, oltre ad essere stata sempre più adorna di esempi di santità e di sacrificio ed aver continuamente acceso ed aumentato in numerosissimi fedeli la fiamma della carità, è giunta con l’opera dei suoi missionari, dei suoi martiri, alla conquista di nuove genti, fra le quali sono in fiore e crescono vigorose la tanto inclita prerogativa della verginità e la dignità del sacerdozio e dell’episcopato; infine talmente seppe trasfondere nei popoli tutti il suo spirito di carità e di giustizia, che gli stessi uomini a lei estranei o anche nemici non possono che ritrarre da lei qualche cosa della sua maniera di parlare e di operare. A ragione quindi Agostino, dopo aver mostrato ed opposto ai Donatisti, i quali pretendevano restringere e rimpicciolire la vera Chiesa di Cristo ad un angolo dell’Africa, la universalità, o come si dice, la cattolicità della Chiesa aperta a tutti, perché vi potessero venire soccorsi e difesi con i mezzi proprî della divina grazia, concludeva l’argomentazione con queste solenni parole: « Sicuro ne giudica il mondo intero » [24]; la cui lettura, non è gran tempo, talmente colpì l’animo di un personaggio illustre e nobilissimo, che senz’altra lunga e grave esitazione si risolvette ad entrare nell’unico ovile di Cristo [25].

Del resto apertamente Agostino dichiarava che questa unità della Chiesa universale, non meno che l’immunità del suo magistero da qualsiasi errore, non solo procedeva dall’invisibile suo Capo Cristo Gesù, il quale « governa dal cielo il corpo suo » [26] e parla mediante la sua Chiesa docente [27], ma anche dal capo visibile in terra, il Pontefice Romano, che, per diritto legittimo di successione, siede sulla Cattedra di Pietro; poiché questa serie dei successori di Pietro « è la stessa pietra che non possono vincere le superbe porte dell’inferno » [28], e sicurissimamente nel grembo della Chiesa « ci mantiene, a cominciare dallo stesso apostolo Pietro, a cui il Signore, dopo la sua risurrezione, affidò da pascere le sue pecorelle, la successione dei sacerdoti fino al presente episcopato » [29].

Pertanto, allorché cominciò a spandersi l’eresia Pelagiana e i seguaci di essa si sforzavano, con inganno ed astuzia, di confondere le menti e gli animi dei fedeli, i Padri del Concilio Milevitano che, oltre altri Concilii, si radunò, per l’opera e quasi sotto la guida di Agostino, non presentarono forse le questioni da essi discusse, e i decreti fatti per risolverle, a Innocenzo I, perché li approvasse? E il Papa, rispondendo, lodava quei Vescovi del loro zelo per la religione e dell’animo devotissimo al Romano Pontefice, ben « sapendo essi — così diceva loro — che dalla sorgente apostolica sempre sgorgano i responsi per tutte le regioni a coloro che li domandano; e specialmente, quando trattasi della regola di fede, penso che non ad altri che a Pietro, cioè a causa del loro nome ed onore, tutti i fratelli e colleghi nostri nell’episcopato si debbano rivolgere, come ora si è rivolta la Carità vostra perché egli è in grado di giovare in comune a tutte le Chiese, in qualsivoglia parte del mondo si trovino » [30]. Così, dopo che la sentenza del Romano Pontefice contro Pelagio e Celestio fu colà recata, Agostino in un discorso al popolo pronunciò quelle memorande parole: « Intorno a questa causa furono già mandate le sentenze di due Concilii alla Sede Apostolica; da essa si ebbero pure le risposte. La causa è finita; Dio voglia che abbia fine una volta anche l’errore » [31]. Parole che, in forma alquanto compendiosa, sono passate in proverbio: Roma ha parlato, la causa è finita. E altrove, dopo aver riferito la sentenza del Papa Zosimo che condannava e riprovava i Pelagiani, dovunque fossero, egli così diceva: « In queste parole della Sede Apostolica suona tanto certa e chiara la fede cattolica, così antica e così sicura, che al cristiano non è lecito dubitarne » [32].

Orbene chiunque crede alla Chiesa, che dallo Sposo divino ricevette le ricchezze della grazia celeste da distribuirsi specialmente per via dei sacramenti, sull’esempio del buon Samaritano, infonde olio e vino nelle ferite dei figli di Adamo, in modo da purificare i rei dalla colpa, da fortificare i deboli e gli infermi, e da conformare infine i buoni all’ideale di una vita più perfetta. E sia pure che qualche ministro di Cristo, abbia potuto talora venir meno al proprio dovere: forse per questo sarà restata priva di efficacia la virtù di Cristo? « Anch’io, dico, ascoltiamo il vescovo di Ippona, e tutti diciamo che i ministri di tanto giudice devono essere giusti; siano i ministri giusti, se vogliono; che se poi tali non vogliono essere coloro che siedono sulla cattedra di Mosè, mi rassicurò nondimeno il mio maestro, del quale il suo Spirito disse: Questi è colui che battezza » [33]. Oh, davvero avessero ascoltato Agostino, o l’udissero oggi tutti coloro che, come i Donatisti, sogliono prender motivo dalla caduta di qualche sacerdote, per lacerare la inconsutile veste di Cristo, e si gettano in tal modo miseramente fuori della via della salute! Abbiamo veduto con quanta ubbidienza il nostro Santo, pur d’ingegno così sublime, si assoggettasse all’autorità della Chiesa docente, ben persuaso fin che si fosse così regolato, di non discostarsi un punto dalla cattolica dottrina. Inoltre, avendo ben ponderato quella sentenza: « Se non avrete creduto non capirete » [34], aveva perfettamente inteso che, non solamente coloro i quali, obbedientissimi agli insegnamenti della fede meditano la parola di Dio con animo desideroso e umile, sono illustrati da quella luce celeste che è negata ai superbi; ma anche che appartiene all’ufficio dei sacerdoti, le cui labbra devono custodire la scienza [35] — essendo essi obbligati a debitamente spiegare e difendere le verità rivelate, e farne ai fedeli penetrare il senso — di meditare profondamente, per quanto dalla divina bontà è dato a ciascuno, le verità della fede. Così egli, illuminato dalla Sapienza increata, nell’orazione e meditazione dei misteri delle cose divine, poté giungere, coi suoi scritti, a lasciare in eredità ai posteri un vasto e meraviglioso complesso di sacra dottrina.

Chiunque abbia dato una scorsa anche rapida a tanta ricchezza di opere Venerabili Fratelli, certo non può ignorare con quanto acume il Vescovo di Ippona si studiasse di progredire nella conoscenza di Dio stesso. Oh, come seppe egregiamente sollevarsi dalla varietà ed armonia delle cose create al loro Creatore, e con quanta efficacia si adoperò sia con gli scritti sia con la viva parola perché da quelle anche il popolo affidato alle sue cure salisse a Dio. « La bellezza della terra — diceva — è quasi una voce della muta terra. Considerandone attentamente la bellezza, vedendo com’essa è feconda, come ricca di forze, come fa germinare le sementi, come sovente produce anche dove non fu seminato, ti senti spontaneamente portato quasi ad interrogarla, poiché la stessa ricerca è un interrogare. Dalle cose stupende rivelate dall’attenta investigazione, vedendo tanta potenza, tanta bellezza, tanta eccellenza di virtù, la tua mente è portata a pensare come essa, non potendo esistere da sé, deve avere ricevuto l’essere non da se stessa ma dal Creatore. E questo che in essa hai trovato, è il grido della sua confessione affinché tu lodi il Creatore. E considerate le bellezze tutte di questo mondo, non senti forse quella bellezza stessa rispondere come ad una voce: Non sono opera mia ma di Dio? » [36]. E con simile magnificenza di eloquio, quante volte egli esaltò l’infinita perfezione, bellezza, bontà, eternità, immutabilità e potenza del suo Creatore, mentre pur considerava come Dio si possa meglio pensare che esprimere, come egli sia meglio nell’essere che nel pensiero [37], e come al Creatore più propriamente si convenga il nome che rivelò Dio stesso a Mosè allorquando lo interrogava per sapere chi era che lo mandava [38]. Tuttavia egli non fu pago di investigare la divina natura con le sole forze dell’umana ragione, ma, seguendo il lume delle Sacre Scritture e dello Spirito di Sapienza, applicò tutto il vigore del suo potentissimo ingegno a scrutare nel più profondo di tutti i misteri quello che tanti altri Padri già prima di lui avevano preso a difendere dagli empi assalti degli eretici, con una costanza che diremmo senza limiti ed un meraviglioso ardore di spirito: vogliamo dire l’adorabile Trinità del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo nell’unità della natura divina.

Ripieno di luce superna, egli ragiona di questo primo e fondamentale articolo della fede cattolica con tale profondità e sottigliezza che per gli altri Dottori venuti dopo di lui fu in qualche modo sufficiente che attingessero dalle riflessioni di Agostino per innalzare quei saldi monumenti di scienza divina in cui sono andati a spuntarsi in ogni tempo i dardi della depravata ragione umana intesa a combattere questo mistero, il più difficile da capire. E giova qui riferire la dottrina del Vescovo di Ippona: « Con proprietà doversi dire che in quella Trinità appartiene alle singole persone distintamente ciò che si dice reciprocamente in senso relativo, rispetto cioè alle altre Persone, come Padre e Figlio e Dono di entrambi, lo Spirito Santo: perché non il Padre è Trinità non Trinità è il Figlio, non Trinità è il Dono. E ciò che si dice dei singoli a sé, non dirsi tre in plurale, ma uno solo, la Trinità stessa; come Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo: buono il Padre, buono il Figlio, buono lo Spirito Santo; onnipotente il Padre, onnipotente il Figlio, onnipotente lo Spirito Santo; ma non tre Dei, o tre buoni, o tre onnipotenti, ma un solo Dio, buono, onnipotente, la stessa Trinità: e ogni altra cosa non si dica con relazione tra loro, ma dei singoli a sé. Ciò infatti si dice di essi quanto all’Essenza, perché essere qui vale quanto essere grande, essere buono, essere sapiente e ogni altra cosa che si dice essere a sé ciascuna persona o la stessa Trinità » [39]. Il mistero che qui è adombrato con tanta sottigliezza e concisione, egli poi si studia di farlo intendere in qualche modo mediante appropriate similitudini: così, ad esempio, quando ravvisa una immagine della Trinità nell’anima umana che si avvia alla santità. Essa infatti, nell’atto stesso in cui si sovviene di Dio, lo pensa e lo ama: e ciò ci mostra in certa guisa come il Verbo è generato dal Padre, « il quale in certo modo ha espresso nel Verbo a sé coeterno tutto ciò ch’egli ha sostanzialmente » [40]; e come dal Padre e dal Figlio proceda lo Spirito Santo, che « ci dimostra la comune carità con cui il Padre e il Figlio scambievolmente si amano » [41]. Agostino ci ammonisce poi che questa immagine di Dio che è in noi, dobbiamo renderla ogni giorno più splendida e più bella fino al termine della vita; sicché quando questo termine avverrà, quella divina immagine già insita in noi « divenga perfetta mediante la visione stessa che si godrà dopo il giudizio a faccia a faccia, mentre avviene ora solo per ispecchio in enigma » [42]. Né si potrà mai ammirare abbastanza la dichiarazione che il Dottore d’Ippona ci dà del mistero dell’Unigenito di Dio fatto carne, quando chiede esplicitamente (con quelle parole che San Leone Magno riferisce nella Lettera dommatica a Leone Augusto) che « dobbiamo riconoscere una duplice sostanza in Cristo, cioè la divina, per la quale egli è uguale al Padre, e l’umana per la quale il Padre è superiore. Le due sostanze unite non formano due, ma un solo Cristo; perché Dio non risulti una Quaternità ma una Trinità. Come infatti l’anima razionale e la carne formano un solo uomo, così Dio e l’uomo formano un solo Cristo » [43]. Sapientemente adoperò quindi Teodosio il giovane, allorquando ordinò che egli, con ogni dimostrazione di riverenza, fosse indotto a partecipare al Concilio Efesino, che abbatté l’eresia di Nestorio: ma una morte inattesa vietò ad Agostino di unire la sua forte e possente voce alla voce degli altri Padri presenti, nell’esecrare l’eretico che aveva osato, per così dire, dividere Cristo ed impugnare la divina maternità della Beatissima Vergine [44], Non vogliamo poi tralasciare di ricordare, sia pur di passaggio, che più di una volta Agostino mise pure in chiara luce la regale dignità di Cristo, che Noi abbiamo additata e proposta al culto dei fedeli nell’Enciclica «Quas primas », pubblicata alla fine dell’Anno Santo: il che risulta anche dalle lezioni desunte dai suoi scritti, che Ci piacque introdurre nella liturgia della festa di N. S. Gesù Cristo Re.

Non vi è forse chi ignori come egli, abbracciando in uno sguardo la storia di tutto il mondo, appoggiato a quei sussidi che potevano prestargli sia la lettura assidua della Bibbia, sia la scienza umana di quei tempi, nella sua eccellentissima opera «Della città di Dio » tratti mirabilmente della divina provvidenza nel governo di tutte le cose e di tutti gli eventi. Con quel suo profondo acume egli vede e distingue, nell’avanzare e progredire dell’umano consorzio, due città, fondate sopra « due amori: cioè, l’amore terreno di se stessi fino al disprezzo di Dio, e l’amore celeste di Dio fino al disprezzo di se stessi » [45]; la prima, Babilonia; la seconda Gerusalemme; le quali « sono insieme confuse, e vanno così confuse dall’origine dell’uman genere sino alla fine del mondo » [46]; non però con eguale esito, giacché mentre verrà giorno in cui i cittadini di Gerusalemme saranno chiamati a regnare con Dio eternamente, i seguaci di Babilonia dovranno espiare per tutta l’eternità le loro nequizie insieme coi demoni. Così alla mente investigatrice di Agostino la storia della società umana appare come un quadro della incessante effusione in noi della carità di Dio, il quale promuove l’incremento della città celeste da lui fondata in mezzo a trionfi e a travagli, ma in modo che anche le follie e gli eccessi, operati dalla città terrena abbiano a servire ai suoi progressi, conforme sta scritto: « agli amanti di Dio, che giusta il proposito sono chiamati santi, ogni cosa si volge in bene » [47]. Stolti ed insipienti sono quindi tutti coloro i quali considerano il corso dei secoli non altrimenti che come uno scherzo ed un giuoco della cieca fortuna e quasi fosse unicamente dominato dalla cupidigia e dalla ambizione dei potenti della terra, ovvero come un’incessante spinta dello spirito a secondare le forze umane, a favorire i progressi delle arti, a procacciarsi le agiatezze della vita; laddove, al contrario, questi eventi naturali ad altro non hanno da servire se non a secondare l’incremento della Città di Dio, che è quanto dire la diffusione della verità evangelica e il conseguimento della salute delle anime in conformità degli arcani ma pur sempre misericordiosi consigli di Colui « il quale attinge dall’una all’altra estremità fortemente, e tutto dispone con soavità » [48]. E per insistere alquanto su questo punto diremo ancora che Agostino volle impresso il marchio o meglio bollate a fuoco le turpitudini del paganesimo dei Greci e dei Romani; della cui religione alcuni scrittori dei nostri giorni, leggeri e dissoluti, sembrano quasi sdilinquirsi di desiderio, stimandola cosa eccellente per bellezza, armonia e piacevolezza. Egli, che ben conosceva come i suoi contemporanei vivevano infelicemente dimentichi di Dio, non di rado ricorda con parole mordaci, talvolta con frasi sdegnose tutto ciò che di violento, di insulso, di atroce e di lussurioso si era infiltrato per opera dei demoni nei costumi degli uomini mediante il falso culto degli dei. Nessuno del resto potrebbe illudersi di trovare salvezza in quel fallace ideale di perfezione che la Città terrena si propone: non v’è persona, infatti, che riesca ad attuarlo in se stesso, e se pure vi riuscisse, non otterrebbe altro che il gusto di una gloria vana e fugace. Agostino lodava sì i Romani antichi, in quanto « posponevano gli interessi privati a quelli pubblici, cioè a quelli dello Stato, e facendo tacere la propria avarizia sovvenivano al pubblico erario e provvedevano spontaneamente ai bisogni della patria: uomini onesti e costumati, conformemente alle leggi allora vigenti, che si giovarono di tutti questi mezzi della vera via a conseguire onori, imperio e gloria; furono in onore tra quasi tutti i popoli; e assoggettarono molte genti alle leggi dell’impero » [49]. Ma, come egli soggiunge poco dopo, con tali e tante fatiche che cosa altro essi ottennero mai « se non quel fasto inutile e vano dell’umana gloria, alla quale si riduce tutta la ricompensa di tanti che arsero di cupidigia, e intrapresero guerre furenti per essa? »[50]. Non ne segue per altro che i felici successi e l’impero stesso, dei quali il Creatore nostro si serve giusta i segreti consigli della sua provvidenza, siano un privilegio riservato solo a coloro che non si curano della Città celeste. Iddio infatti « ricolmò l’Imperatore Costantino che non invocava i demoni ma adorava lo stesso vero Dio, di tanti doni temporali, quanti nessuno oserebbe desiderare » [51]; e concesse una prospera fortuna e innumerevoli trionfi a Teodosio, che si diceva « più lieto di appartenere alla Chiesa che non all’impero terreno » [52], e ripreso da Ambrogio per la strage di Tessalonica « ne fece penitenza in guisa che il popolo orante per lui spargeva più lacrime nel vedere la maestà imperiale umiliata, che non la temesse quando peccando aveva infierito » [53]. Anzi, ancorché i beni di questo mondo siano elargiti indistintamente a tutti, buoni e cattivi, come pure le sventure possano colpire tutti, onesti e malvagi, non si può tuttavia dubitare che Iddio distribuisce i beni e i mali di questa vita come meglio giovano alla salute eterna delle anime e al bene della Città celeste. Quindi è che i prìncipi e i governanti, avendo ricevuto la potestà da Dio affinché con l’opera loro si sforzino, ciascuno nei limiti della propria autorità, ad attuare i disegni della divina Provvidenza, cooperando con essa, evidentemente non debbono mai, per provvedere al benessere temporale dei cittadini, perdere di vista quel fine altissimo che è proposto a tutti gli uomini; e non solo non debbono fare od ordinare cosa alcuna la quale possa riuscire in detrimento delle leggi della giustizia e della carità cristiana, ma anzi debbono rendere ai sudditi più agevole la via a conoscere e a conseguire beni non caduchi. « Noi infatti — così il Vescovo d’Ippona — non chiamiamo fortunati alcuni imperatori cristiani per avere avuto un lungo regno, per essere morti tranquillamente lasciando sul trono i figli, per avere domato i nemici dello Stato, per avere saputo schivare e sgominare i sudditi ribelli. In questa vita travagliata, di tali doni o conforti, e di altri ancora, sono stati favoriti anche certuni che adoravano i demoni e non appartenevano quindi, come costoro, al regno di Dio. E ciò, per effetto della misericordia divina, affinché quelli che credevano in Dio non andassero dietro a questi beni, quasi fossero i supremi. Invece li chiamiamo felici se comandano con giustizia, se, ricordandosi di essere uomini, non si lasciano boriosamente inebriare dalle lingue che li esaltano e da omaggi troppo servili, se pongono l’autorità loro al servizio della maestà divina, massime per la dilatazione del suo culto; se temono, amano, onorano Dio; se amano soprattutto quel regno dove non hanno a temere rivali; se sono lenti alla vendetta, facili al perdono; se si servono della vendetta per la necessità di governare e difendere la Repubblica e non per saziare gli odi delle inimicizie; se concedono il perdono, non per l’impunità della colpa, ma per la speranza della correzione; se, quando sono costretti a punire aspramente, compensano, con la dolcezza della misericordia e con la larghezza dei benefìci; se in loro la sensualità è tanto più raffrenata quanto più potrebbe essere libera; se preferiscono domare le prave cupidigie, anziché i popoli; e se tutte queste cose le fanno non per amore di una vana gloria, ma per l’amore della felicità eterna e non trascurano di immolare al loro vero Dio il sacrificio dell’umiltà, della misericordia e dell’orazione per i proprî peccati. Tali sono gli Imperatori cristiani che diciamo che sono intanto felici per la speranza su questa terra, e che lo saranno poi in realtà quando giungerà la beatitudine eterna che aspettiamo » [54]. È un ideale questo del principe cristiano di cui non si può trovare altro più nobile e più perfetto; ma esso non sarà certo abbracciato ed attuato da chi confida nella sapienza umana, spesso ottusa in sé e più spesso accecata dalle passioni; ma solamente da colui che, formato alla dottrina del Vangelo, sa che egli presiede alla cosa pubblica in forza di una disposizione divina, e che ciò non può farlo nel miglior modo e con felice successo se non sia profondamente radicato nel sentimento della giustizia, unita alla carità ed alla umiltà interna: « I re delle genti che governano con impero e quelli che le hanno sotto il loro dominio si fanno chiamare benefattori. Non così però per voi, ma chi tra di voi è più grande diventi come il più piccolo, e colui che governa sia come uno che serve » [55]. Mentre pertanto sono in grande errore tutti quelli che ordinano le condizioni dello Stato, senza tener conto alcuno del fine ultimo dell’uomo, né dell’uso regolato dei beni di questa vita, sono del pari in errore molti altri i quali pensano che le leggi per governare lo Stato e favorire i progressi del genere umano, non possono regolarsi alla stregua dei precetti di Colui che proclamò: « Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno » [56]; di Cristo Gesù, diciamo, il quale volle la sua Chiesa abbellita e fortificata con tale costituzione magnifica ed immortale, che tante vicissitudini di cose e di tempi, tante persecuzioni non poterono mai in tutto lo spazio di venti secoli, né mai potranno scuoterla in avvenire sino alla fine del mondo. Perché, dunque, quanti sono governatori di popoli, solleciti del bene e della salvezza dei loro cittadini, dovranno impedire l’azione della Chiesa? Non dovrebbero piuttosto offrirsi ad aiutarla, per quanto portano le circostanze? Lo Stato non ha infatti da temere una invasione della Chiesa nei suoi propri fini e diritti; ché anzi i cristiani sino dall’inizio rispettarono con tanta deferenza questi diritti, secondo l’ordine del loro, stesso fondatore, che, esposti alle vessazioni ed alla morte, potevano dire giustamente: « I prìncipi mi perseguitarono senza ragione » [57].

Al quale proposito con la sua solita chiarezza diceva Agostino: « In che cosa i cristiani avevano mai leso i regni terreni? Forse che il Re loro proibì ai suoi soldati di prestare e compiere quanto era dovuto ai re della terra? Ai Giudei anzi che stavano su ciò architettando una calunnia contro di lui, non disse egli: Rendete a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio? Ed egli stesso non pagò il tributo traendolo dalla bocca di un pesce? Non è vero che il suo precursore non disse ai soldati di questo regno, che gli domandavano il da farsi per la salvezza eterna; Sciogliete il cingolo, gettate via le armi, abbandonate il vostro re, perché possiate essere soldati di Dio; ma disse invece: Non opprimete nessuno, non calunniate nessuno, accontentatevi del vostro stipendio? Uno dei suoi soldati, e a lui carissimo compagno, non proclamò forse ai suoi commilitoni e per così dire connazionali di Cristo: Ogni uomo, sia soggetto alle maggiori autorità?

E poco appresso: Rendete a tutti quanto dovete: a chi il tributo, il tributo; a chi la tassa, la tassa; a chi il timore, il timore; a chi l’onore, l’onore; a nessuno siate debitori, se non dell’amore scambievole. E ancora non ordinò che la Chiesa pregasse pure per gli stessi re? Che offesa dunque i cristiani fecero loro? Quale debito non adempirono? Quale ordine dei re terreni i cristiani non eseguirono? Dunque i re della terra perseguitarono i cristiani senza ragione » [58]. Certamente si deve richiedere ai discepoli di Cristo di ubbidire alle giuste leggi della propria nazione, a patto che non si voglia loro comandare o proibire cosa che la legge di Cristo proibisca o comandi, dando con ciò origine ad un dissidio tra la Chiesa e lo Stato. Appena occorre perciò avvertire — come Ci pare di avere sempre detto abbastanza — che dalla Chiesa non può venire nessun danno allo Stato, ma anzi può derivarne moltissimo aiuto e utilità. Su questo punto non occorre qui di nuovo allegare le bellissime parole del Vescovo di Ippona, riportate già nell’ultima Nostra Enciclica «Della cristiana educazione della gioventù » o quelle che il Nostro immediato predecessore Benedetto XV riferì nella sua Enciclica « Pacem Dei munus », per mostrare più chiaramente che la Chiesa sempre si studiò di unire mediante la legge cristiana le nazioni, e promosse del pari in ogni tempo tutto ciò che poteva stabilire fra gli uomini i benefìci della giustizia, della carità e della pace comune, affinché esse tendessero « a una certa unità, generatrice di prosperità e di gloria ». Inoltre, dopo aver descritto le note proprie del governo divino, svolgendo per sommi capi punti che gli sembravano toccare la Chiesa e lo Stato, Agostino non si ferma, ma passa oltre ad indagare con acume sottilissimo e a contemplare come la grazia di Dio, in un modo del tutto interno ed arcano, muove l’intelletto e la volontà dell’uomo. E quanto potere abbia nell’anima questa grazia di Dio, egli stesso aveva sperimentato fin da quando, a un tratto, in Milano, meravigliosamente trasformato si accorse che dileguavano tutte le tenebre del dubbio. «Quanto dolce — andava dicendo — mi si fece improvvisamente il mancare della soddisfazione dei piaceri! se prima temevo di perderli, ora godevo di lasciarli. Tu li allontanavi da me, Tu, vera e somma soavità, li allontanavi ed entravi Tu in vece loro, più dolce di ogni piacere, ma non dolce alla carne ed al sangue; più chiaro di ogni luce, ma più intimo di ogni segreto; più alto di ogni onore, ma non per gli altezzosi » [59]. Frattanto il Vescovo d’Ippona teneva per maestra e guida la Sacra Scrittura e specialmente le lettere di Paolo apostolo (il quale pure in modo meraviglioso era stato, un tempo, condotto a seguire Cristo), si uniformava alla dottrina tradizionale, trasmessagli da personaggi santissimi, ed al sentimento cattolico dei fedeli; e con sempre più ardente zelo insorgeva contro i Pelagiani che protervamente blateravano che la Redenzione umana di Gesù Cristo mancava di ogni efficacia; infine, illuminato dallo spirito divino, per più anni venne investigando sopra la rovina del genere umano, seguita alla caduta dei progenitori, sulle relazioni che corrono tra la grazia di Dio e il libero arbitrio e sopra le questioni che chiamiamo della predestinazione. E con tanta sottigliezza e buon esito egli investigò, che, chiamato poi e tenuto come « il Dottore della Grazia », aiutò, ispirandoli, tutti gli altri scrittori cattolici delle età susseguenti, e nello stesso tempo impedì che in tali difficilissime questioni errassero o per l’uno o per l’altro estremo di questi due punti: non insegnassero cioè, o che nell’uomo decaduto dalla pristina integrità il libero arbitrio sia una parola senza realtà, come piacque ai primi novatori ed ai giansenisti; ovvero che la grazia divina non si conceda gratuitamente e non possa ogni cosa, come sognavano i Pelagiani. Ma per riportare qui alcune pratiche considerazioni opportune ad essere meditate con gran frutto dagli uomini del nostro tempo, è ben chiaro che i lettori di Agostino non saranno trascinati nel perniciosissimo errore divulgatosi nel secolo XVIII, vale a dire che le inclinazioni naturali della volontà non sono mai da temersi né da frenarsi, perché tutte buone. Da questo falso principio originarono sia quei metodi di educazione, riprovati non è molto nella Nostra Enciclica «Della cristiana educazione della gioventù »; metodi che giungono a tali estremi che, tolta ogni separazione dei sessi, non viene più adoperata nessuna cautela contro le nascenti passioni dei fanciulli e dei giovanetti; sia quella licenza di scrivere e leggere, di procurare e frequentare spettacoli, nei quali si apprestano insidiosi pericoli alla innocenza ed alla pudicizia, e, quel che è peggio, cadute rovinose: sia quella disonesta moda di vestire, per la cui estirpazione non potranno mai lavorare abbastanza le donne cristiane. È infatti insegnamento del nostro Dottore che l’uomo, dopo il peccato dei progenitori, non si trova più nella integrità nella quale fu creato, e dalla quale, mentre la godeva, era portato con facilità e prontezza al retto operare; ma che invece, nella presente condizione della vita mortale, è necessario che egli si opponga e comandi alle cattive passioni, da cui è trascinato e allettato, secondo il detto dell’Apostolo: «Nelle mie membra vedo un’altra legge, che si oppone alla legge della mia mente e mi fa schiavo della legge del peccato, la quale è nelle mie membra » [60]. Egregiamente Agostino commentava questo punto al suo popolo: « Finché si vive quaggiù, o fratelli, è così; così anche noi, che pure siamo vecchi in questa battaglia, abbiamo meno nemici, ma tuttavia ne abbiamo. In certo qual modo sono stanchi i nostri nemici anche per la nostra età, ma pure così stanchi non cessano di turbare la quiete della vecchiaia con ogni genere di cattivi moti. La battaglia dei giovani è più aspra; noi la conosciamo; attraverso essa passammo … Infatti, finché portate il corpo mortale, combatte contro di voi il peccato; ma, che non domini. Che vuol dire, non domini? Che non si deve ubbidire ai suoi desideri. Se cominciate ad obbedire, esso domina. E che significa obbedire, se non prestare le vostre membra quali strumenti di iniquità al peccato? Non voler prestare le membra tue quali strumenti di iniquità al peccato. Iddio ti diede il potere di tenere a freno le tue membra, mediante il suo Spirito. Insorge la natura; tu raffrena le membra; che potrà essa fare con la sua ribellione? Tu raffrena le membra: non prestare le tue membra a strumenti di iniquità al peccato, non armare il tuo avversario contro di te. Tieni in freno i piedi, perché non vadano a cose illecite. Insorge la natura: tu tieni a freno le membra; trattieni le mani da ogni delitto; trattieni gli occhi, perché non vedano malamente, trattieni le orecchie perché non odano volentieri le parole libidinose; tieni a freno tutto il corpo, tieni a freno i fianchi, tieni a freno le parti superiori, tieni a freno le inferiori. Che fa la natura? Sa insorgere, vincere non sa. Insorgendo spesso inutilmente, impara anche a non insorgere » [61].

Se per tale battaglia noi ci rivestiamo delle armi della salvezza, dopo che avremo cominciato ad astenerci dal peccato, quietato a poco a poco l’impeto dei nemici e snervate le loro forze, voleremo finalmente a quel regno della pace, dove trionferemo con gaudio infinito. Se avremo vinto tra tanti ostacoli e combattimenti, si dovrà ciò attribuire alla grazia di Dio, che dà internamente luce alla mente e forza alla volontà; alla grazia di Dio, il quale, avendoci creato, può ancora con i tesori della sua sapienza e potenza infiammare l’animo nostro della carità e interamente riempirlo. Giustamente dunque la Chiesa, che per mezzo dei Sacramenti diffonde in noi la grazia, si chiama santa, perché non solo fa che in ogni tempo innumerevoli uomini si uniscano a Dio con stretto vincolo di amicizia e in essa perseverino, ma molti di più ne solleva, con la sua guida ed invitta grandezza d’animo, a perfetta santità di vita, ad eroiche imprese. E in verità non cresce forse ogni anno il numero dei martiri, delle vergini, dei confessori, che essa propone all’ammirazione e all’imitazione dei suoi figli? Non sono bellissimi fiori di eroica virtù, di castità e carità, questi che la grazia di Dio trapianta dalla terra in cielo? Solo restano e languiscono miseramente nella nativa debolezza coloro che resistono alle divine ispirazioni e non fanno giusto uso della loro libertà. Parimenti la grazia di Dio non permette che noi disperiamo della salute di nessuno, finché vive, e in tutti anzi speriamo ogni giorno maggiori gli aumenti della carità. In essa grazia è posto il fondamento della umiltà, giacché quanto più uno è perfetto, tanto più deve ricordare quelle parole: « Che cosa hai che tu non abbia ricevuto? Se poi l’hai ricevuto, perché gloriarti, come se non l’avessi ricevuto? » [62]; e non può non mostrarsi riconoscente verso colui che « ai deboli riservò questa forza di essere, col suo aiuto, invitti nel volere ciò che è buono e invitti nel non volere abbandonarlo » [63]. E il benignissimo Gesù Cristo ci stimola a chiedere i doni della sua grazia: « Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto. Infatti ognuno che chiede, riceve; e chi cerca trova; e a chi picchia sarà aperto » [64]. Anche il dono della perseveranza « si può meritare con la preghiera » [65]. Quindi è che nelle chiese non cessa mai la preghiera privata e pubblica: « E quando mai non si pregò nella Chiesa per gli infedeli e per i nemici di lei, affinché credano? Quando mai un fedele ebbe un amico, un parente, un coniuge infedele senza chiedere per lui al Signore una disposizione di mente docile alla fede cristiana? E chi mai non chiese per se stesso di essere perseverante nel Signore? » [66]. Dunque, Venerabili Fratelli, auspice il Dottore della Grazia, pregate Iddio e con voi preghino il clero e il popolo vostro, per quelli specialmente che sono privi della fede cattolica o errano dalla retta via; e con ogni diligenza procurate, inoltre, che santamente si vengano educando coloro che si mostrano idonei e chiamati al sacerdozio, dovendo questi un giorno, ciascuno per il proprio ufficio, divenire i dispensatori della grazia divina.

Possidio, il primo scrittore della vita di Agostino, sin d’allora affermava che, assai più dei lettori delle opere di lui, « avevano potuto trarre profitto coloro che poterono udirlo parlare e vederlo presente nella Chiesa, e che in particolare conobbero il suo contegno tra gli uomini. Perché non solo egli era uno scriba, erudito nel regno dei cieli, che dal suo tesoro trae fuori cose nuove e cose vecchie; un negoziante che, trovata la perla preziosa, la comperò vendendo tutte le cose che possedeva; ma anche uno di coloro rispetto ai quali fu scritto: Così parlate e così fate; e dei quali il Salvatore dice: Chi così avrà fatto e così avrà insegnato agli uomini, costui sarà chiamato grande nel regno dei cieli » [67]. Pertanto, a cominciare dalla prima di tutte le virtù, il nostro Agostino tanto desiderò e cercò l’amore di Dio, rinunziando a tutto il resto, con tanta costanza in sé l’accrebbe, che a ragione si dipinge con un cuore infuocato in mano. E chi ha letto anche una sola volta le « Confessioni », potrà mai dimenticare quel colloquio tenuto dal figlio con la madre presso la finestra della casa di Ostia? La descrizione di quella scena non riesce tanto colorita al vivo e così tenera, da parerci di vedere fissi nella contemplazione delle cose celesti Agostino e Monica? « Soli ci intrattenevamo insieme — egli scrive — assai dolcemente; e dimenticando il passato, guardandoci innanzi, venivamo tra noi cercando alla presenza della Verità, che sei tu, quale debba essere la vita eterna dei Santi, che mai occhio vide, né orecchio udì, né mente d’uomo comprese. Ma con la bocca aperta del cuore agognavamo abbeverarci alle tue superne acque, della fontana di vita che è in te perché, da essa irrorati, secondo la nostra capacità potessimo in qualche modo afferrare col pensiero una così grande cosa … E così parlando, e a quella vita agognando, l’afferrammo un tantino con tutto l’impeto del cuore, e sospirammo e quivi  lasciammo come prigioniere le primizie dello spirito e ritornammo al suono della nostra voce dove la parola ha inizio e fine. Ma che cosa mai è simile al tuo Verbo, Signore nostro, che in sé sussiste e mai invecchia e tutto rinnova? » [68]. Né si dovranno dire insoliti nella sua vita tali rapimenti della mente e del cuore. Poiché ad ogni istante di tempo libero dai doveri e dalle fatiche quotidiane, egli meditava le Sacre Scritture, a lui così note, per coglierne diletto e luce di verità; con il pensiero e con l’affetto s’innalzava a volo sublime dalle opere di Dio e dai misteri dell’infinito suo amore verso di noi, a grado a grado, sino alle stesse divine perfezioni e in esse quasi si immergeva, quanto a lui era dato per l’abbondanza della grazia soprannaturale.

« E spesso torno a far questo, — così pare che egli ci parli, come in confidenza — questo mi delizia, e quando posso rilassarmi dalle mie necessarie occupazioni, in questo diletto mi rifugio. Né in tutti questi oggetti, che io percorro consultando te, trovo luogo sicuro all’anima mia se non in te, dove si raccolgono le cose mie disperse e nulla di me si diparte da te. E talvolta mi fai entrare in un affetto molto insolito, dentro ad una non so quale dolcezza, che se in me toccasse il colmo, non so qual cosa sarebbe, ma certo non sarebbe più questa vita » [69]. Perciò esclamava: «Tardi io ti ho amato, o bellezza tanto antica e tanto nuova! tardi io ti ho amato » [70]. E quanto affettuosamente contemplava la vita di Cristo, la cui somiglianza si studiava di ritrarre ogni giorno più perfetta in sé, l’amore ripagando con amore, non altrimenti da quello che proprio egli andava, con il consiglio, inculcando alle vergini: « Si configga a voi interamente nel cuore, chi per voi fu confitto in croce! » [71]. Di questo amore di Dio ardendo sempre più vivacemente, fece incredibili progressi in tutte le altre virtù.

Né si può non ammirare come un uomo tale — che per la straordinaria eccellenza d’ingegno e di santità era da tutti venerato, esaltato, consultato ed ascoltato — fosse tuttavia, negli scritti destinati al pubblico e nelle sue lettere, intento sopra ogni cosa a procurare che le lodi tributategli andassero all’autore di ogni bene, cioè a colui al quale soltanto si dovevano, e agli altri facesse animo e, salva la verità, li encomiasse. Inoltre usava il massimo ossequio verso i suoi colleghi nell’episcopato, segnatamente verso i più insigni che l’avevano preceduto, come Cipriano e Gregorio Nazianzeno, Ilario e Giovanni Crisostomo, come Ambrogio, suo maestro nella fede, che egli venerava qual padre e di cui soleva spesso ricordare gl’insegnamenti e gli esempi. Ma segnatamente in lui rifulse, come inseparabile dall’amor di Dio, lo zelo delle anime, di quelle anime in ispecie che egli aveva da reggere per debito dell’ufficio pastorale.

Da quando infatti, così ispirando Iddio, e per la fiducia del vescovo Valerio e la scelta del popolo, fu prima iniziato al sacerdozio e poi sollevato alla cattedra d’Ippona, egli pose ogni studio nel condurre il gregge alla felicità celeste, sia col nutrirlo della sana dottrina, sia col tutelarlo dagli assalti dei lupi. Accoppiando dunque alla fortezza la carità verso gli erranti, combatté le eresie, mise in guardia il popolo contro gl’inganni usati in quel tempo dai Manichei, dai Donatisti, dai Pelagiani, dagli Ariani; e questi stessi egli confutò in modo che non solo ne infrenò la diffusione delle false dottrine e ricuperò le anime da essi traviate, ma anche li convertì alla fede cattolica. Pertanto egli stava sempre pronto a disputare anche in pubblico, mentre aveva ogni fiducia nel divino aiuto, nella forza e nella virtù insite nella verità, e nella fermezza del popolo; e qualora gli venissero recati scritti di eretici, senza por tempo in mezzo li confutava l’uno dopo l’altro, non lasciandosi infastidire o staccare né dalla scipitezza delle opinioni, né dai cavilli, né dall’ostinatezza e dalle ingiurie degli avversarii. Nondimeno, benché così alacremente combattesse per la verità, non cessava mai d’implorare da Dio la correzione di questi nemici, che egli trattava con benevolenza e carità cristiana; e dai suoi scritti stessi si vede con quanta modestia d’animo e vigore di persuasione parlava loro: « Infieriscano contro di voi — diceva loro — quelli che non sanno con quale fatica si scopra il vero e con quanta difficoltà si schivino gli errori. Infieriscano contro di voi quelli che non sanno quanto sia raro ed arduo l’innalzarsi sopra le fantasie della carne nella serenità di una mente pia … Infieriscano contro di voi anche coloro che non furono mai sedotti da un errore come quello da cui vedono sedotti voi. Io, invece, che dopo un lungo e fiero travaglio finalmente potei venire a conoscere che cosa sia quella schietta verità che si percepisce senza la mescolanza di vane favole …; io, che finalmente tutte quelle fantasie, dalle quali voi siete per lunga consuetudine avviluppati e stretti, le cercai curiosamente, le udii attentamente, le credetti sconsigliatamente e con ardore le persuasi a quanti potei, e contro altri le difesi pertinacemente ed animosamente, io davvero non posso infierire contro di voi, ma vi debbo ora sopportare, come allora sopportai me medesimo, e trattarvi con altrettanta pazienza quanta me ne usarono i prossimi miei, nel tempo in cui rabbioso e cieco andavo errando dietro i vostri dogmi » [72].

Il Vescovo d’Ippona pertanto, con il suo amore per la religione, con l’assidua operosità e la benignità di animo, come poteva rimanere deluso e senza buon successo? E così, i Manichei venivano tratti all’ovile di Cristo, il dissidio o scisma di Donato veniva a cessare, e i Pelagiani erano completamente sgominati, in modo che, morto Agostino, Possidio poteva scrivere di lui: «Quel memorando uomo, membro principale del corpo del Signore, era sempre sollecito e quanto mai vigilante per il bene della Chiesa universale. E gli fu concesso da Dio di poter godere anche in questa vita del frutto delle sue fatiche, dapprima con l’unione e la pace perfetta nella Chiesa e nel territorio d’Ippona, a cui egli massimamente soprintendeva; poi, vedendo come in altre parti dell’Africa, per la sua stessa cura e per quella dei sacerdoti che egli vi aveva assegnati, la Chiesa del Signore aveva felicemente germogliato e s’era moltiplicata e rallegrandosi che quei Manichei, Donatisti e Pelagianisti e Pagani erano finiti per buona parte e s’erano aggregati alla Chiesa di Dio. Andava lieto ed esultante dei progressi da lui favoriti e del fervore di tutti i buoni; tollerava con santo e pietoso compatimento le mancanze disciplinari dei fratelli e gemeva sulle iniquità dei cattivi, sia di quelli che erano dentro la Chiesa, sia di quelli che ne erano fuori, godendo sempre, come dissi, degli acquisti che il Signore faceva, e dolendosi dei danni » [73]. Se nel trattare i grandi affari dell’Africa e anche della Chiesa universale fu d’animo forte ed invitto, verso il suo gregge fu, più che altri mai, padre premuroso e benigno. Era solito predicare al popolo assai spesso, o commentando testi per lo più desunti dai Salmi, dal Vangelo di San Giovanni, dalle Lettere di San Paolo, in una forma piana e adatta all’intendimento della gente più umile e semplice, o riprendendo col più felice esito gli abusi e i vizi che si fossero insinuati fra i cittadini d’Ippona, e molto si affaticava, e a lungo, non solo per riconciliare a Dio i peccatori, soccorrere i poveri e intercedere per i colpevoli, ma anche per comporre le liti e le contese che accadessero tra i fedeli in cose profane; e benché si lamentasse della distrazione e dissipazione che ciò gli costava, tuttavia al disgusto per le cose del secolo fece andare innanzi l’esercizio della carità episcopale. E tale carità e grandezza di animo sommamente rifulse nell’estremo frangente in cui si trovò quando, dai Vandali che devastavano l’Africa, nessun’offesa fu risparmiata alla dignità sacerdotale e ai luoghi sacri. Esitando alcuni Vescovi e sacerdoti sulla condotta che dovevano tenere fra quelle tante e così gravi calamità, il santo vecchio, interrogato da uno di essi, rispose chiaramente che a nessun sacerdote era lecito disertare il posto, checché fosse per avvenire, poiché i fedeli non potevano rimanere privi del sacro ministero: « Come non pensare — diceva — quando si giunge a questa estrema gravità di pericoli, né vi è alcuna via di scampo, che grande accorrere suole farsi nella chiesa da gente dell’uno e dell’altro sesso e d’ogni età, e chi domanda il battesimo, chi la riconciliazione, chi anche l’applicazione della penitenza, e tutti chiedono conforto e celebrazione e amministrazione dei Sacramenti? Se vi mancano i sacri ministri, quale immensa perdita ne segue per coloro che partono da questo secolo o non rigenerati o non assolti! e quanto grave lutto per i loro congiunti e amici che non li avranno con sé nella pace della vita eterna! Quanti gemiti da tutti, e da parte di alcuni quali bestemmie si leverebbero per l’assenza dei sacri ministri e dei sacri ministeri! Vedi che cosa fa la paura dei mali temporali e che triste acquisto con essa invece si fa dei mali eterni! Quando invece si trovano al loro posto i ministri, si reca a tutti il soccorso con le forze che Dio ad essi provvede; quelli sono battezzati, questi sono riconciliati, nessuno resta privo della comunione del Corpo di Cristo; tutti sono consolati, edificati, esortati a pregare Dio, il quale è in grado di sventare tutti i mali che si temono; e tutti si trovano disposti ad ogni evento, in modo che se da essi questo calice non può passare, s’uniformino alla volontà di colui che non può volere niente di male » [74].

E concludeva in questa forma: « Chi poi fugge, sì che al gregge di Cristo vengano a mancare gli alimenti di cui vive spiritualmente, è un mercenario che vede venire il lupo e scappa perché non gli importa delle pecore » [75]. Per il resto, Agostino confermò gli ammonimenti con l’esempio; perché assediata dai barbari la città dov’era la sua sede episcopale, il magnanimo pastore vi rimase col suo popolo e ivi rese l’anima a Dio.

Ed ora, per aggiungere ciò che un più compiuto elogio di Agostino sembra ancora richiedere, diremo, come la storia attesta, che il Santo Dottore della Chiesa, il quale a Milano aveva visto « fuori delle mura della città, sostenuto e nutrito da Ambrogio un albergo di Santi » [76], e poco dopo la morte di sua madre, era venuto a « conoscere in Roma parecchi monasteri … né solo di uomini, ma anche di donne » [77], appena approdò sui lidi d’Africa, concepì il pensiero di promuovere le anime alla perfezione e santità della vita nello stato religioso, e fondò in un suo podere un cenobio, ove « dopo avere allontanato da sé tutte le cure del secolo, postavi dimora per quasi un triennio insieme con quelli che gli erano associati, viveva a Dio nei digiuni, nelle orazioni e buone opere, meditando giorno e notte la legge di Dio » [78]. Promosso poi al sacerdozio, fondò subito ad Ippona nelle vicinanze della chiesa un altro cenobio « e cominciò a vivere coi servi di Dio secondo il modo e la regola stabilita ai tempi degli Apostoli, in quanto soprattutto nessuno doveva possedere cosa di proprio in quella comunità, ma tutto era comune e a ciascuno si distribuiva secondo il bisogno » [79].

Sublimato alla dignità di Vescovo, non volendo restare privo dei benefìci della vita comune e volendo d’altra parte lasciar aperto il monastero a tutti i visitatori e ospiti del Vescovo d’Ippona, egli istituì nella stessa casa episcopale un cenobio di chierici con questa regola: che, rinunziati i beni di famiglia, vivessero in comunità lungi dalle seduzioni del mondo e da ogni suo lusso ma con un tenore di vita non troppo austero né difficile, adempiendo nello stesso tempo ai doveri di carità verso Dio e verso il prossimo. Alle religiose poi che, governate da sua sorella, abitavano non molto distante, diede una regola meravigliosa, piena di saggezza e di moderazione, secondo la quale oggidì si reggono molte famiglie religiose dell’uno e dell’altro sesso, e non solo quelle che sono chiamate Agostiniane, ma altre ancora che dal proprio Fondatore hanno ricevuto la regola stessa accresciuta con particolari costituzioni. Con i semi gettati in patria di una siffatta professione di vita perfetta, conforme ai consigli evangelici, egli non solo si rese benemerito dell’Africa cristiana ma di tutta la Chiesa, alla quale vennero da una siffatta milizia, col volgere degli anni e anche oggidì, tanto vantaggio ed incremento. Così, vivente ancora Sant’Agostino, da questa opera insigne erano già derivati consolantissimi frutti. Possidio narra che per concessione di lui, quale Padre e legislatore pregatone da ogni parte, un gran numero di religiosi si era già sparso per ogni dove per fondarvi nuovi monasteri e per aiutare con la dottrina e l’esempio della santità le chiese dell’Africa, recandovi dappertutto la fiamma attinta dal centro. Di questa magnifica fioritura di vita religiosa, che tanto pienamente corrispondeva ai suoi desideri, poté ben consolarsi Agostino, come quando scriveva: « Io, che scrivo queste cose, ho amato con ardore quella perfezione di cui il Signore ha parlato quando disse al ricco giovinetto: Va, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, ed avrai un tesoro in cielo; vieni e seguimi; così ardentemente l’amai, e non per le mie forze, ma per l’aiuto della sua grazia ho fatto così. Che se io non fui ricco, ciò non mi diminuisce il merito; perché gli stessi apostoli che primi fecero questo non furono ricchi; chi lascia ciò che ha e ciò che desidera di avere, lascia il mondo intero. Quanto poi io abbia profittato in questa via della perfezione, lo so più io di qualsiasi altro uomo, ma più lo sa Iddio di me. E allo stesso proposito di vita, con quanta forza io posso, esorto gli altri, e nel nome del Signore ho compagni quelli che per il mio ministero vi sono stati indotti » [80]. Così vorremmo oggi che ogni parte della terra sorgessero molti, a somiglianza del santo Dottore, « seminatori di casto consiglio », i quali con prudenza pure, ma con fortezza e perseveranza si facessero promotori della vita religiosa e sacerdotale, abbracciata beninteso per vocazione divina, affinché più efficacemente si venisse a impedire che lo spirito cristiano vada indebolendo, e perisca a poco a poco l’integrità dei costumi.

 Abbiamo accennato, Venerabili Fratelli, alle imprese e benemerenze di un Santo che per forza di ingegno acutissimo, per copia e altezza di scienza, per santità tanto sublime, per invitta difesa della verità cattolica, non trova quasi altri, o certo pochissimi, che gli si possano paragonare di quanti fiorirono finora dal principio del genere umano. E sopra abbiamo citato parecchi suoi encomiatori; ma quanto cordialmente e quanto bene gli scriveva San Girolamo come a suo contemporaneo e familiarissimo: « Io sono ben risoluto di amarti, di accoglierti, di onorarti, ammirarti e difendere i tuoi detti come fossero miei » [81]. E di nuovo altra volta: «Orsù, coraggio, tu sei celebrato nel mondo; i cattolici ti venerano e onorano come restauratore dell’antica fede e, ciò che è segno di gloria maggiore, tutti gli eretici ti detestano, e con pari odio abbominano anche me, quasi per uccidere col desiderio quelli che non possono con la spada »[82].

A noi pertanto, Venerabili Fratelli, sta sommamente a cuore che in questo quindicesimo centenario dalla morte del Santo, che si compirà fra non molto, come Noi stessi l’abbiamo molto volentieri ricordato in questa Enciclica, così voi lo commemoriate in mezzo al vostro popolo, in modo che tutti gli facciano onore, tutti si sforzino di imitarlo, tutti ringrazino Iddio dei benefizi che per via di un così grande Dottore pervennero alla Chiesa. Noi ben sappiamo quanto la insigne figliuolanza di Agostino andrà innanzi con l’esempio, come è giusto, mentre pure gode di conservare religiosamente a Pavia, nella chiesa di San Pietro in Ciel d’oro, le ceneri del suo Padre e Legislatore, restituito a lei per benignità del nostro antecessore, Leone XIII, di felice memoria. Ci auguriamo che colà numerosissimi accorrano da ogni parte i fedeli per venerare il sacro corpo di lui e guadagnare l’indulgenza da Noi concessa. Ma non possiamo qui passare in silenzio quale e quanta speranza e attesa nutriamo in cuore, che il Congresso Internazionale Eucaristico, il quale si terrà prossimamente a Cartagine, riesca ad onore di Agostino, oltre che di trionfo a Cristo Gesù nascosto sotto le specie Eucaristiche. Siccome infatti si tiene il Congresso in quella città, dove un tempo il nostro santo Dottore vinse gli eretici e rassodò nella fede i cristiani; in quell’Africa latina le cui antiche glorie non potranno mai essere dimenticate in nessuna età, e meno che altre, quella di avere dato alla Chiesa questo luminare splendidissimo di sapienza; non molto lontano da Ippona a cui toccò la felice sorte di godere per tanto tempo dell’esempio di virtù e delle cure pastorali di lui, non può certo accadere che la memoria del santo Dottore e la dottrina di lui intorno all’augusto Sacramento dell’Altare — che qui abbiamo omessa siccome già nota in buona parte a moltissimi dalla stessa liturgia della Chiesa — non siano presenti agli animi, anzi quasi davanti agli occhi di tutti i congressisti. Infine esortiamo tutti i fedeli cristiani, e quelli principalmente che si raduneranno a Cartagine, che invochino l’intercessione di Agostino presso la bontà divina, perché conceda in avvenire giorni più felici alla Chiesa, e che quanti sono dispersi in quelle immense regioni dell’Africa, indigeni e stranieri o privi ancora della verità cattolica o dissidenti da Noi, accolgano la luce della dottrina evangelica loro recata dai nostri missionari, e si affrettino a rifugiarsi in seno alla Chiesa, Madre amantissima.

Delle celesti grazie, intanto, sia mediatrice e al tempo stesso testimonianza della Nostra paterna benevolenza l’Apostolica Benedizione che a Voi, Venerabili Fratelli, e a tutto il clero e popolo vostro impartiamo con ogni affetto nel Signore.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 20 aprile, festa della Pasqua di Resurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo, dell’anno 1930, nono del Nostro Pontificato.

 

PIUS PP. XI 


[1] Innocentius Aurelio et Augustino episcopis: epist. 184 inter augustinianas.

[2] Innocentius Aurelio, Alypio, Augustino, Evodio et Possidio episcopis: epist. 183, n. 1 inter augustinianas.

[3] Caelestinus Venerio, Marino, Leontio, Auxonio, Arcadio, Filtanio et ceteris Galliarum episcopis: epist. 21, c. 2, n. 3.

[4]Gelasius universis episcopis per Picenum, circa fin.

[5] Hormisdas, epist. 70, ad Possessorem episcopum.

[6] Iohannes II, epist. olim 3, ad quosdam Senatores.

[7] Registrum epistolarum, lib. X, epist. 37, ad Innocentium Africae praefectum.

[8] Hadrianus I, epist. 83, episcopis per universam Spaniam commorantibus; cf. epist. ad Carolum regem de imaginibus, passim.

[9] Encycl. Aeterni Patris.

[10] Ps. LXVII, v. 36.

[11] Confess., lib. III, c. 4, n. 8.

[12] Confess., lib. II, c. 2, n. 4.

[13] Confess., lib. III, c. 12, n. 21.

[14] De dono perseverantiae, c. 20, n. 53.

[15] Confess., lib. VI, c. 5, n. 7.

[16] Confess., lib. VII, c. 7, n. 11.

[17] Confess., lib. VIII, c. 12, n. 29.

[18] Confess., lib. I, c. 1, n. 1.

[19] De civitate Dei, lib. XIX, c. 13, n. 2.

[20] Act. Apost., XVII, 27.

[21] Act. Apost., XVII, 30.

[22] De utilitate credendi, c. 16, n. 34. 

[23] De utilitate credendi, c. 17, n. 35.

[24] Contra epist. Parmeniani, lib. III, n. 24.

[25] H. Newman, Apologia, Edit. Londin. 1890, pp. 116-117.

[26] Enarrat. in ps. 56, n. 1.

[27] Ibidem.

[28] Psalmus contra partem Donati.

[29] Contra epist. Manichaei quam vocant fundamenti, c. 4, n. 5.

[30] Innocentius Silvano, Valentino et ceteris qui in Milevitana synodo interfuerunt, epist. 182, n. 2 inter augustinianas.

[31] Serm. 131, c. 10, n. 10.

[32] Epist. 190, ad Optatum, c. 6, n. 23.

[33] In Iohannis evang., tract. 5, n. 15.

[34] Isai., VII, 9 (sec. LXX).

[35] Mal., II, 7.

[36] Enarrat. in ps. 144, n. 13.

[37] De Trinitate, lib. VII, c. 4, n. 7.

[38] Enarrat in ps. 101, n. 10.

[39] De Trinitate, lib. VIII, proem., n. 1.

[40] De Trinitate, lib. XV, c. 21, n. 40.

[41] De Trinitate, lib. XV, c. 17, n. 27.

[42] De Trinitate, lib. XIV, c. 19, n. 25.

[43] In Iohannis evang., tract. 78, n. 3. Cf. S. Leonis epist. 165, Testimonia, c. 6.

[44] Ibidem; cf. Breviarium causae Nestorianorum et Eutychianorum, c. 5.

[45] De civitate Dei, lib. XIV, c. 28.

[46] Enarrat. in ps. 64, n. 2.

[47] Rom., VIII, 28.

[48] Sap., VIII, 1.

[49] De civitate Dei, lib. V, c. 15.

[50] Ibidem, c. 17, n. 2.

[51] Ibidem, c. 25.

[52] Ibidem, c. 26.

[53] De civitate Dei, lib. XV, c. 26.

[54] De civitate Dei, lib. V, c. 24.

[55] Luc., XXII, 25-26.

[56] Luc., XXI, 33.

[57] Ps. CXVI, v. 161. 

[58] Enarrat. in ps. 118, sermo 31, n. 1.

[59] Confess., lib. IX, c. 1, n. 1.

[60] Rom., VII, 23.

[61] Serm. 128, c. 9-10, n. 11-12.

[62] I Cor., IV, 7.

[63] De correptione et gratia, c. 12, n. 38.

[64] Matth., VII, 7-8.

[65] De dono perseverantiae, c. 6, n. 10.

[66] Ibidem, c. 23, n. 63.

[67] Vita S. Augustini, c. 31.

[68] Confesss., lib. IX, c. 10, nn. 23-24.

[69] Confess., lib. X, c. 40, n. 65.

[70] Ibidem, c. 27, n. 38.

[71] De sancta virginitate, c. 55, n. 56.

[72] Contra epist. Manichaei quam vocant fundamenti, c. 2-3, nn. 2-3.

[73] Vita S. Augustini, c. 18.

[74] Epist. 228, n. 8.

[75] Epist. 228, n. 14.

[76] Confess., lib. VIII, c. 6, n. 15.

[77] De moribus Ecclesiae Catholicae et de moribus Manichaeorum, lib. I, c. 33, n. 70.

[78] Possidius, Vita S. Augustini, c. 3.

[79] Ibidem, c. 5.

[80] Epist. 157, c. 4, n. 39.

[81] Epist. 172, n. 1 inter augustinianas.

[82] Epist. 195, inter augustinianas.

 



Copyright © Dicastero per la Comunicazione - Libreria Editrice Vaticana