DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
AL CLERO DI ROMA
Basilica di San Giovanni in Laterano
Venerdì, 13 maggio 2005
Cari sacerdoti e diaconi, che prestate il vostro servizio pastorale alla Diocesi di Roma, sono felice di incontrarvi agli inizi del mio ministero di Vescovo di questa Chiesa, "che presiede nell’amore". Saluto con affetto il Cardinale Vicario, che ringrazio per le gentili parole rivoltemi, il Vicegerente e i Vescovi Ausiliari. Saluto con animo amico ciascuno di voi e desidero esprimervi fin da questo primo incontro la mia gratitudine per la vostra fatica quotidiana nella vigna del Signore.
La straordinaria esperienza di fede, che abbiamo vissuto in occasione della morte del nostro amatissimo Papa Giovanni Paolo II, ci ha mostrato una Chiesa di Roma profondamente unita, piena di vita e ricca di fervore: tutto ciò è anche frutto della vostra preghiera e del vostro apostolato. Così, nell’umile adesione a Cristo unico Signore, possiamo e dobbiamo promuovere insieme quella "esemplarità" della Chiesa di Roma che è genuino servizio alle Chiese sorelle presenti nel mondo intero. Il legame indissolubile tra romanum e petrinum implica e richiede infatti la partecipazione della Chiesa di Roma alla sollecitudine universale del suo Vescovo. Ma la responsabilità di una tale partecipazione riguarda a titolo speciale voi, cari sacerdoti e diaconi, uniti al vostro Vescovo dal vincolo sacramentale e costituiti suoi preziosi collaboratori. Conto dunque su di voi, sulla vostra preghiera, sulla vostra accoglienza e dedizione, perché questa nostra amata Diocesi corrisponda sempre più generosamente alla vocazione che il Signore le ha affidato. E da parte mia vi dico: potete contare, nonostante i miei limiti, sulla sincerità del mio paterno affetto per tutti voi.
Cari sacerdoti, la qualità della vostra vita e del vostro servizio pastorale sembra indicare che, in questa come in numerose altre Diocesi del mondo, abbiamo ormai lasciato alle nostre spalle il tempo di quella crisi di identità che ha travagliato tanti sacerdoti. Rimangono però ben presenti quelle cause di "deserto spirituale" che affliggono l’umanità del nostro tempo e conseguentemente minano anche la Chiesa che vive in questa umanità. Come non temere che esse possano insidiare anche la vita dei sacerdoti? È indispensabile, dunque, ritornare sempre di nuovo alla radice del nostro sacerdozio. Questa radice, come ben sappiamo, è una sola: Gesù Cristo Signore. È Lui che il Padre ha mandato, è Lui la pietra angolare (1Pt 2,7). In Lui, nel mistero della sua morte e risurrezione il regno di Dio viene, e si compie la salvezza del genere umano. Ma questo Gesù non ha nulla che gli appartenga in proprio, è tutto interamente del Padre e per il Padre. Perciò Egli dice che la sua dottrina non è sua, ma di colui che lo ha mandato (cfr Gv 7,16): il Figlio da solo non può fare nulla (cfr Gv 5,19.30).
Questa, cari amici, è anche la vera natura del nostro sacerdozio. In realtà, tutto ciò che è costitutivo del nostro ministero non può essere il prodotto delle nostre capacità personali. Questo vale per l’amministrazione dei Sacramenti, ma vale anche per il servizio della Parola: siamo mandati non ad annunciare noi stessi o nostre opinioni personali, ma il mistero di Cristo e, in Lui, la misura del vero umanesimo. Siamo incaricati non di dire molte parole, ma di farci eco e portatori di una sola "Parola", che è il Verbo di Dio fatto carne per la nostra salvezza. Vale dunque anche per noi la parola di Gesù: "La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato" (Gv 7,16). Cari sacerdoti di Roma, il Signore ci chiama amici, ci fa suoi amici, si affida a noi, ci affida il suo corpo nell’Eucaristia, ci affida la sua Chiesa. E allora dobbiamo essere davvero suoi amici, avere con Lui un solo sentire, volere quello che Egli vuole e non volere quello che Egli non vuole. Gesù stesso ci dice: "Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando" (Gv 15,14). Sia questo il nostro comune proposito: fare, tutti insieme, la sua santa volontà, nella quale è la nostra libertà e la nostra gioia.
Poiché ha in Cristo la sua radice, il sacerdozio è, per sua natura, nella Chiesa e per la Chiesa. La fede cristiana infatti non è qualcosa di puramente spirituale e interiore e la nostra stessa relazione con Cristo non è soltanto soggettiva e privata. È invece una relazione del tutto concreta ed ecclesiale. A sua volta, il sacerdozio ministeriale ha un rapporto costitutivo con il corpo di Cristo, nella sua duplice e inseparabile dimensione di Eucaristia e di Chiesa, di corpo eucaristico e di corpo ecclesiale. Perciò il nostro ministero è amoris officium (S. Agostino, In Iohannis Evangelium Tractatus 123,5), è l’ufficio del buon pastore, che offre la vita per le pecore (cfr Gv 10,14-15). Nel mistero eucaristico Cristo si dona sempre di nuovo e proprio nell’Eucaristia noi impariamo l’amore di Cristo e quindi l’amore per la Chiesa. Ripeto pertanto con voi, cari fratelli nel sacerdozio, le indimenticabili parole di Giovanni Paolo II: "La Santa Messa è in modo assoluto il centro della mia vita e di ogni mia giornata" (Discorso del 27 ottobre 1995 nel trentennale del Decreto Presbyterorum ordinis). E questa dovrebbe essere una parola che ognuno di noi può personalmente dire come parola sua: la Santa Messa è in modo assoluto il centro della mia vita e di ogni mia giornata. Nello stesso modo, l’ubbidienza a Cristo, che corregge la disubbidienza di Adamo, si concretizza nell’ubbidienza ecclesiale, che per il sacerdote è, nella pratica quotidiana, anzitutto ubbidienza al suo Vescovo. Nella Chiesa però l’ubbidienza non è qualcosa di formalistico; è ubbidienza a colui che è a sua volta ubbidiente e impersona il Cristo ubbidiente. Tutto ciò non vanifica e nemmeno attenua le esigenze concrete dell’ubbidienza, ma assicura la sua profondità teologale e il suo respiro cattolico: nel Vescovo ubbidiamo a Cristo e alla Chiesa intera, che egli rappresenta in questo luogo.
Gesù Cristo è stato mandato dal Padre, nella potenza dello Spirito, per la salvezza dell’intera famiglia umana e noi sacerdoti, attraverso la grazia del sacramento, siamo resi partecipi di questa sua missione. Come scrive l’Apostolo Paolo, "Dio… ha affidato a noi il ministero della riconciliazione… Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio" (2Cor 5,18-20). Così San Paolo descrive la nostra missione di sacerdoti. Perciò, nell’omelia che ha preceduto il Conclave, ho parlato di una "santa inquietudine" che deve animarci, l’inquietudine di portare a tutti il dono della fede, di offrire a tutti quella salvezza che, sola, rimane in eterno. E in una città così grande come Roma che, da una parte è così penetrata dalla fede e nella quale tuttavia ci sono tante persone che non hanno percepito nel cuore realmente l’annunzio della fede, tanto più dobbiamo essere animati da questa inquietudine di portare questa gioia, questo centro della vita che le dà senso e direzione. Cari fratelli sacerdoti di Roma, Cristo risorto ci chiama a essere suoi testimoni e ci dona la forza del suo Spirito, per esserlo davvero. È necessario dunque stare con Lui (cfr Mc 3,14; At 1, 21-23). Come nella prima descrizione del "munus apostolicum", in Marco 3, è descritto quanto il Signore pensava che dovrebbe essere il significato di un apostolo: stare con Lui ed essere disponibile alla missione. Le due cose vanno insieme e solo stando insieme con Lui siamo anche e sempre in movimento con il Vangelo verso gli altri. Quindi è essenziale stare con Lui e così si anima l’inquietudine e ci si rende capaci di portare la forza e la gioia della fede agli altri, di dare testimonianza con tutta la nostra vita e non solo con qualche parola. Valgono per noi le parole dell’Apostolo Paolo: "Non è… per me un vanto predicare il Vangelo: è un dovere per me: guai a me se non predicassi il Vangelo!… Infatti, pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero… mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno" (1Cor 9, 16-22). Queste parole che sono l’autoritratto dell’apostolo ci danno anche il ritratto di ogni sacerdote. Questo "farsi tutto a tutti" si esprime nella vicinanza quotidiana, nell’attenzione per ogni persona e famiglia: voi sacerdoti di Roma avete al riguardo una grande tradizione, e lo dico con profonda convinzione, e la state onorando anche oggi, quando la città si è tanto dilatata ed è profondamente cambiata. È decisivo, come sapete bene, che la vicinanza e l’attenzione a tutti avvenga sempre nel nome di Cristo e sia costantemente protesa a condurre a Lui.
Naturalmente una tale vicinanza e dedizione ha per ciascuno di voi, di noi, un costo personale, significa tempo, preoccupazioni, dispendio di energie. Conosco questa vostra fatica quotidiana e voglio ringraziarvi, da parte del Signore. Ma vorrei anche aiutarvi, in quanto posso, a non cedere sotto questa fatica. Per poter resistere, e anzi crescere, come persone e come sacerdoti, è fondamentale anzitutto l’intima comunione con Cristo, il cui cibo era fare la volontà del Padre (cfr Gv 4,34): tutto ciò che facciamo, lo facciamo in comunione con Lui e ritroviamo così sempre di nuovo l’unità della nostra vita in tante dispersioni favorite dalle diverse occupazioni di ogni giorno. Dal Signore Gesù Cristo, che ha sacrificato se stesso per fare la volontà del Padre, impariamo inoltre l’arte dell’ascesi sacerdotale, che anche oggi è necessaria. Essa non va collocata accanto all’azione pastorale, come un peso aggiuntivo che rende ancora più gravosa la nostra giornata. Al contrario, nell’azione stessa dobbiamo imparare a superarci, a lasciare e donare la nostra vita. Ma, perché tutto questo avvenga realmente in noi e perché realmente la nostra azione sia in se stessa la nostra ascesi e il nostro donarsi, perché non rimanga tutto questo solo un desiderio, abbiamo senza dubbio bisogno di momenti per ritemprare le nostre energie anche fisiche, e soprattutto per pregare e meditare, rientrando nella nostra interiorità e trovando dentro di noi il Signore. Perciò il tempo per stare alla presenza di Dio nella preghiera è una vera priorità pastorale, non è una cosa accanto al lavoro pastorale, stare davanti al Signore è una priorità pastorale, in ultima analisi la più importante. Ce lo ha mostrato nel modo più concreto e luminoso Giovanni Paolo II, in ogni circostanza della sua vita e del suo ministero.
Cari sacerdoti, non sottolineeremo mai abbastanza quanto la nostra personale risposta alla chiamata alla santità sia fondamentale e decisiva. È questa la condizione non solo perché il nostro personale apostolato sia fruttuoso ma anche, e più ampiamente, perché il volto della Chiesa rifletta la luce di Cristo (cfr Lumen gentium, 1), inducendo così gli uomini a riconoscere e ad adorare il Signore. La supplica dell’Apostolo Paolo a lasciarsi riconciliare con Dio (cfr 2Cor 5,20) dobbiamo accoglierla anzitutto in noi stessi, chiedendo al Signore con cuore sincero e con animo determinato e coraggioso di allontanare da noi tutto ciò che ci separa da Lui ed è in contrasto con la missione che abbiamo ricevuto. Il Signore, siamo sicuri, è misericordioso e saprà esaudirci.
Il mio ministero di Vescovo di Roma si colloca nel solco di quello dei miei Predecessori, accogliendo in particolare l’eredità preziosa che ha lasciato Giovanni Paolo II: per questa via, cari sacerdoti e diaconi, camminiamo insieme con serenità e fiducia. Continueremo a cercare di far crescere la comunione all’interno della grande famiglia della Chiesa diocesana e a collaborare per incrementare l’orientamento missionario della nostra pastorale, in conformità alle linee di fondo del Sinodo romano, tradotte in atto con particolare efficacia nell’esperienza della Missione cittadina. Roma è una Diocesi assai grande ed è una Diocesi davvero speciale, per la sollecitudine universale che il Signore ha affidato al suo Vescovo. Perciò il vostro rapporto, cari sacerdoti, con il Vescovo diocesano, che sono io purtroppo, non può avere quell’immediatezza quotidiana che desidererei e che è possibile in altre situazioni. Attraverso l’opera del Cardinale Vicario e dei Vescovi Ausiliari, ai quali esprimo la mia viva gratitudine, mi è possibile però essere concretamente vicino a ciascuno di voi, nelle gioie e nelle difficoltà che accompagnano il cammino di ogni sacerdote. E soprattutto desidero assicurarvi quella vicinanza più profonda e decisiva che unisce il Vescovo ai suoi sacerdoti e ai suoi diaconi, nella preghiera quotidiana. E siate sicuri che realmente nella mia preghiera il clero di Roma è particolarmente presente. E siamo vicini nella fede e nell’amore di Cristo e nell’affidamento a Maria, Madre dell’unico e Sommo Sacerdote. Proprio dalla nostra unione a Cristo e alla Vergine traggono alimento quella serenità e quella fiducia di cui tutti sentiamo il bisogno, sia per il lavoro apostolico sia per la nostra esistenza personale.
Cari sacerdoti e diaconi, ecco alcune considerazioni che desideravo proporre alla vostra attenzione. Prima di dare adesso la parola a voi, per le vostre domande e riflessioni, ho ancora da annunciare una notizia molto gioiosa. Abbiamo una comunicazione arrivata oggi. Ha scritto il Cardinale Saraiva Martins, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, insieme con Sua Eccellenza Nowak, Segretario della stessa Congregazione:
Instante Em.mo ac Rev.mo Domino D. Camillo S.R.E. Cardinali Ruini, Vicario Generali Suae Sanctitatis pro Dioecesi Romana, Summus Pontifex BENEDICTUS XVI, attentis peculiaribus expositis adiunctis, in audentia eidem Cardinali Vicario Generali die 28 mensis Aprilis huius anni 2005 concessa, dispensavit a tempore quinque annorum exspectationis post mortem Servi Dei Ioannis Pauli II (Caroli Wojtyla), Summi Pontificis, ita ut causa Beatificationis et Canonizationis eiusdem Servi Dei statim incipi posset. Contrariis non obstantibus quibuslibet.
Datum Romae, ex aedibus huius Congregationis de Causis Sanctorum, die 9 mensis Maii A.D. 2005.
Iosephus Card. Saraiva Martins
Praefectus
Eduardus Nowak
Archiepiscopus tit. Lunensis
a Secretis
Allora adesso la parola a voi. Cercherò in quanto posso alla fine di dare una risposta.
Al termine degli interventi dei sacerdoti e di un Diacono della diocesi di Roma, il Santo Padre ha pronunciato le seguenti parole:
Alla fine posso soltanto dire grazie per la ricchezza, per la profondità di questi contributi, nei quali appare un Presbiterio pieno di entusiasmo, di amore per Cristo e di amore per il gregge a noi affidato, di amore per i poveri. E non solo della città di Roma, ma realmente della Chiesa universale, di tutti i nostri fratelli. Grazie anche per l'affetto espresso per me, che mi aiuta tanto. Non mi sento in grado adesso di entrare nei dettagli di quanto è stato detto. Sarebbe bello continuare una vera discussione, e spero che si offrano possibilità di fare una discussione concreta, con domande e risposte. In questo momento esprimo semplicemente la mia gratitudine per tutto. Sento realmente il vostro impegno pastorale, sento come volete costruire la Chiesa di Cristo qui a Roma, sento come riflettete anche su come fare meglio, sento come tutto scaturisce da un grande amore per il Signore e per la Chiesa.
Vorrei solo accennare a tre o quattro punti, che mi sono rimasti nella memoria. Avete parlato di questo intreccio tra romanità e universalità. Mi sembra questo un punto molto importante. Da una parte, questa è una vera Chiesa locale, che deve vivere come tale. Ci sono delle persone che soffrono, che vivono, che vogliono credere o non riescono a credere. Qui deve crescere nelle parrocchie la Chiesa di Roma con la sua grande responsabilità per il mondo, perché porta in sé questo mandato, in certo modo, di «esemplarità», così che appaia nella Chiesa di Roma il volto della Chiesa come tale e sia un modello per le altre Chiese locali. Per poter essere un modello, dobbiamo noi stessi essere una Chiesa locale, che si impegna ogni giorno nel lavoro umile che esige questo essere Chiesa in un determinato luogo e in un determinato tempo.
Avete parlato della parrocchia come struttura fondamentale, aiutata e arricchita dai movimenti. E mi sembra che proprio durante il Pontificato di Papa Giovanni Paolo II si sia creato un fecondo insieme tra l'elemento costante della struttura parrocchiale e l'elemento, diciamo, «carismatico», che offre nuove iniziative, nuove ispirazioni, nuove animazioni. Sotto la guida sapiente del Cardinale Vicario e dei Vescovi ausiliari, tutti i Parroci possono insieme essere realmente responsabili della crescita della parrocchia, assumendo tutti gli elementi che possono venire dai movimenti e dalla realtà vissuta della Chiesa in diverse dimensioni.
Ma volevo parlare ancora di questo intreccio tra romanità e universalità. Uno dei nostri confratelli ha parlato della nostra responsabilità verso l'Africa. Abbiamo visto come a Roma è presente l'Africa, è presente l'India, è presente il cosmo. E questa presenza dei nostri fratelli ci obbliga non solo a pensare a noi, ma a sentire proprio in questo momento storico, in tutte queste circostanze che conosciamo, la presenza degli altri Continenti. Mi sembra che in questo momento abbiamo una particolare responsabilità verso l'Africa, verso l'America Latina e verso l'Asia, dove il Cristianesimo — fatta eccezione per le Filippine — è ancora in grandissima minoranza, anche se cresce in India e si presenta come una forza del futuro. Quindi pensiamo anche proprio a questa responsabilità. L'Africa è un Continente di grandissime potenzialità, di grandissima generosità da parte della gente, con una fede viva che impressiona. Ma dobbiamo confessare che l'Europa ha esportato non solo la fede in Cristo, ma anche tutti i vizi del Vecchio Continente. Ha esportato il senso della corruzione, ha esportato la violenza che adesso sta devastando l'Africa. E dobbiamo riconoscere la nostra responsabilità nel far sì che l'esportazione della fede, che risponde all'attesa intima di ogni uomo, sia più forte dell'esportazione dei vizi dell'Europa. Mi sembra questa una grande responsabilità. Ancora si fa commercio di armi. C'è lo sfruttamento dei tesori di questa terra. Tanto più noi cristiani dobbiamo fare di tutto perché arrivi la fede e con la fede la forza di resistere a questi vizi e di ricostruire un'Africa cristiana, che sarà un'Africa felice, un grande Continente dell'umanesimo nuovo.
Poi è stato detto della necessità, da un parte, di annunciare, di parlare, ma anche di ascoltare. E mi sembra che questo sia importante in un duplice senso. Il sacerdote, il diacono, il catechista, il religioso, la religiosa, devono, da una parte, annunciare, essere testimoni. Ma naturalmente per questo, devono ascoltare, in un duplice senso: da una parte, con l'anima aperta a Cristo, ascoltando interiormente la sua Parola, così che sia assimilata e trasformi e formi il mio essere; e dall'altra ascoltando l'umanità di oggi, il prossimo, l'uomo della mia parrocchia, l'uomo per il quale io porto una certa responsabilità. Naturalmente, ascoltando il mondo di oggi che esiste anche in noi, ascoltiamo tutti i problemi, tutte le difficoltà che si oppongono alla fede. E dobbiamo essere capaci di prendere sul serio questi problemi. San Pietro, primo Vescovo di Roma, nella sua Prima Lettera dice che noi cristiani dobbiamo essere disponibili a dar ragione della nostra fede. Questo presuppone che noi stessi abbiamo capito la ragione della fede, abbiamo realmente «digerito», anche razionalmente, con il cuore, con la saggezza del cuore, questa parola che può realmente essere una risposta per gli altri. Nella Prima Lettera di San Pietro, nel testo greco, con un bel gioco di parole si dice: «apología», risposta del «logos», della ragione della nostra fede. Cioè, il «logos», la ragione della fede, la parola della fede deve divenire risposta della fede. E sappiamo bene che il linguaggio della fede spesso è molto lontano dalla gente di oggi; può avvicinarsi soltanto se diviene in noi il linguaggio del nostro tempo. Noi siamo contemporanei, viviamo in questo tempo, con questi pensieri, con questi affetti. Se è trasformato in noi, può trovare risposta.
Naturalmente riconosco, lo sappiamo tutti, che molti non sono capaci subito di identificarsi, di capire, di assimilare tutto l'insegnamento della Chiesa. Mi sembra importante prima risvegliare questa intenzione di credere con la Chiesa, anche se personalmente qualcuno può non aver ancora assimilato molti dettagli. Occorre avere questa volontà di credere con la Chiesa, avere la fiducia che questa Chiesa — la comunità non solo di duemila anni di pellegrinaggio del popolo di Dio, ma la comunità che abbraccia Cielo e terra, la comunità nella quale sono presenti quindi anche tutti i giusti di tutti i tempi — che questa Chiesa animata dallo Spirito Santo porta in sé realmente la guida dello Spirito e quindi è il vero soggetto della fede. E il singolo individuo si inserisce in questo soggetto, vi aderisce, e quindi, anche se non ancora totalmente penetrato da questo, ha fiducia e partecipa alla fede della Chiesa, vuol credere con la Chiesa. Mi sembra questo il pellegrinaggio permanente della nostra vita: arrivare con il nostro pensiero, con il nostro affetto, con tutta la nostra vita nella comunione della fede. Questo possiamo offrire a tutti, affinché man mano si possano identificare e soprattutto facciano sempre di nuovo questo passo fondamentale di affidarsi alla fede della Chiesa, di inserirsi in questo pellegrinaggio della fede, così da ricevere la luce della fede.
Infine, vorrei ancora una volta ringraziare per il contributo espresso qui riguardo al cristocentrismo, alla necessità che la nostra fede sia sempre nutrita dall'incontro personale con Cristo, da un'amicizia personale con Gesù. Romano Guardini, settant'anni fa, ha detto giustamente che l'essenza del Cristianesimo non è un'idea ma una Persona. Grandi teologi avevano tentato di descrivere le idee essenziali costitutive del Cristianesimo. Ma il Cristianesimo che avevano delineato alla fine appariva una cosa non convincente. Perché il Cristianesimo è in primo luogo un Avvenimento, una Persona. E nella Persona poi troviamo la ricchezza dei contenuti. Questo è importante.
E qui mi sembra che troviamo anche una risposta ad una difficoltà che si sente spesso oggi circa la missionarietà della Chiesa. Da molti ci viene indicata la tentazione di pensare così riguardo agli altri: «Ma perché non li lasciamo in pace? Hanno la loro autenticità, la loro verità. Noi abbiamo la nostra. Dunque, conviviamo pacificamente, lasciando ciascuno com'è, affinché cerchi nel miglior modo la sua autenticità». Ma come può essere trovata la propria autenticità se realmente nella profondità del nostro cuore c'è l'aspettativa di Gesù e la vera autenticità di ognuno si trova proprio nella comunione con Cristo, e non senza Cristo? Altrimenti detto: se noi abbiamo trovato il Signore e se per noi Egli è la luce e la gioia della vita, siamo sicuri che ad un altro che non ha trovato Cristo non manchi una cosa essenziale e non sia un dovere nostro offrirgli questa realtà essenziale? Poi lasciamo alla guida dello Spirito Santo e alla libertà di ognuno quello che succederà. Ma se siamo convinti e abbiamo l'esperienza del fatto che senza Cristo la vita è incompleta, manca una realtà, la realtà fondamentale, dobbiamo anche essere convinti che non facciamo torto a nessuno se gli mostriamo Cristo e gli offriamo la possibilità di trovare così anche la sua vera autenticità, la gioia di aver trovato la vita.
Alla fine, vorrei dire grazie a tutti i componenti del Presbiterio e della Comunità ecclesiale di Roma, ai Parroci, ai Vice Parroci, a tutti i collaboratori nelle diverse mansioni, ai diaconi, ai catechisti, soprattutto ai religiosi e alle religiose, che sono un po' il cuore anche della vita ecclesiale di una Diocesi. Grazie per questa testimonianza che è stata data.
Andiamo avanti tutti insieme animati dall'amore di Cristo. E così andremo bene!
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