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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II AI MEMBRI
DEL SACRO COLLEGIO E A TUTTI I COLLABORATORI
DELLA CURIA ROMANA, DELLA CITTÀ DEL VATICANO
E DEL VICARIATO DI ROMA, RELIGIOSI E LAICI
ALLA VIGILIA DELLA SOLENNITÀ DEI
SS. APOSTOLI PIETRO E PAOLO

28 giugno 1980

 

Signori Cardinali,

e voi tutti qui presenti, miei collaboratori negli organismi della Curia Romana!

Vi saluto tutti molto cordialmente, in questa vigilia della solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, e vi esprimo la mia gioia nel trovarmi con voi. Ringrazio il signor Cardinale Carlo Confalonieri, decano del sacro collegio, che ha interpretato, con la sua sempre grande finezza d’animo, i sentimenti di tutti voi, presentandomi i vostri auguri in questa vigilia della festa del pescatore di Betsaida, di cui sono l’ultimo e umile successore.

 

“Curia Sancti Petri”

1. Ho desiderato tanto che, proprio oggi, ci trovassimo insieme, perché è la nostra festa. È la festa della Curia “Sancti Petri in Ecclesia Romana”. Qui, poco lontano dal luogo, ove Pietro diede l’estrema prova del suo amore a Cristo, seguendolo sulla croce - “tu me sequere” (Gv 21,22) - siamo riuniti, noi tutti che formiamo la curia, in ogni suo ordine e grado.

Ho tenuto tanto a celebrare insieme con voi questa festa, perché dobbiamo sentirci, tutti insieme, parte viva di questa santa Chiesa di Dio che è in Roma, e provare il nobile vanto di farne parte, a motivo della nostra qualifica: il Papa, che vi parla, come successore di Pietro, i Cardinali che formano a titolo speciale il presbiterio della Chiesa romana, come collaboratori diretti del Papa, e tutti gli altri, prelati superiori, officiali, religiosi e religiose, laici, uniti in un solo vincolo di operosità e di affetto, per un servizio di particolare onore e di speciale responsabilità.

È anche mio desiderio, in questo periodo che precede le vacanze, ringraziarvi per l’opera attenta, valida, generosa, che prestate al mio ministero di Papa della Chiesa universale e di Vescovo di Roma. Sono ben consapevole che il mio lavoro apostolico, se ha un raggio di portata tanto vasta per rispondere alle esigenze crescenti poste dall’attuazione del Concilio Vaticano II, può raggiungere questi scopi, con l’aiuto di Dio, proprio perché è inserito in una più ampia e capillare collaborazione di altri posti, di altre persone, di altre cellule vitali. Molte, moltissime di queste rimangono sconosciute, nascoste nell’ombra. Ma per portare avanti una missione così sovrumana ci vogliono tanti lavori nascosti, discreti, silenziosi. Di questo contributo, che ritengo insostituibile, io vi ringrazio.

 

Attività della Chiesa “ad intra”

2. Intendo con voi gettare uno sguardo sui fatti ed elementi, molto importanti, che in quest’anno hanno contrassegnato l’azione della Chiesa “ad intra”, nella propria vita, autonoma e sovrana, che si dispiega nel tempo per la prosecuzione dell’annunzio evangelico. Vogliamo insieme cercare l’identificazione della via che la Chiesa deve seguire, senza timori e con grande fiducia, nell’unica consapevolezza che essa ha di esser diretta dallo Spirito Santo, il quale, secondo la solenne promessa del Signore, agisce nella Chiesa. Ormai in prospettiva della conclusione del secondo millennio, vediamo sempre meglio come il Concilio Vaticano II sia stato un “momento” particolare e privilegiato dell’azione della Chiesa nella nostra epoca, e che il nostro dovere è quello di darvi piena realizzazione. In questa luce, occorre vedere quanto, umilmente ma fermamente, la santa Sede ha cercato di compiere, con la vostra collaborazione, su questa linea maestra dell’attuazione del Concilio in tutti i campi della vita ecclesiale.

3. La solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo favorisce queste riflessioni, carissimi fratelli e amici.

Essi stanno alle fondamenta della Chiesa di Roma.

Dopo la sua risurrezione, Cristo disse tre volte a Pietro: “Pasci”; ma prima gli domandò: “Simone di Giovanni, mi ami?” (Gv 21,16). In questo modo riconfermava la missione che gli aveva affidato già prima nella comunità fraterna dei “dodici”: missione che vari momenti importanti e significativi contribuiscono a preparare. Il Vangelo ce li elenca in un “crescendo” continuo, fino ai culmini delle parole pronunciate da Cristo a Cesarea di Filippo, che riudremo nella messa di domani (cf. Mt 16,13-19), nell’ultima cena (Lc 22,31ss), e al lago di Tiberiade, che ho appena ricordate. Tuttavia, forse il momento più rilevante, considerate le circostanze, è questo: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna” (Gv 6,68). Nelle “parole di vita eterna” la Chiesa trova la sua ultima ragion d’essere. Esse costituiscono la base dell’autentica vita della Chiesa anche nelle dimensioni delle singole tappe della storia.

La Chiesa contemporanea ha una particolare sensibilità “storica”: vuol essere, in tutta l’estensione del termine, “Chiesa nel mondo contemporaneo”. È appunto per questo che la Chiesa deve profondamente “sentire” la forza del Vangelo, contenuta nella piena dimensione del mistero di Cristo: “mistero nascosto da secoli nella mente di Dio” (Ef 3,9), rilevato nel tempo, e, in certo senso sempre maggiormente a misura delle necessità della storia, cioè “dei segni dei tempi”. In ciò consiste la giusta proporzione tra la “verticalità” e l’“orizzontalità”: non vi è “orizzontalità” autenticamente evangelica senza la “verticalità”, e viceversa.

In questo senso il Vaticano II è il “dono” che lo Spirito Santo ha fatto alla Chiesa nella grande svolta dei millennio: come ho amato rilevare nella enciclica “Redemptor Hominis”, ciò “che lo Spirito disse alla Chiesa mediante il Concilio del nostro tempo... non può - nonostante inquietudini momentanee - servire a nient’altro che ad una più matura compattezza di tutto il Popolo di Dio, consapevole della sua missione salvifica... Illuminata e sorretta dallo Spirito Santo, la Chiesa ha una coscienza sempre più approfondita sia riguardo al suo mistero divino, sia riguardo alla sua missione umana”(Giovanni Paolo II, Redemptor Hominis, 3).

 

La collegialità episcopale e la missione “primaziale” di Pietro

4. Il Concilio ha dimostrato che la missione di Pietro è “primaziale” in una forte “cornice” di collegialità. A questa verità del “principio esistenziale” della Chiesa dobbiamo risalire sempre e in vari modi (cf. Lumen Gentium, 20-23), ed essa è quotidianamente vissuta dalla Chiesa stessa, in forma sempre più adeguata alle esigenze del tempo presente, secondo le indicazioni del Concilio.

Anzitutto, il Sinodo dei Vescovi apre grandi possibilità a questa collaborazione collegiale del corpo episcopale di tutto il mondo, intorno al successore di Pietro.

Ma non bisogna dimenticare che vi sono nella Chiesa anche altre forme collegiali più antiche del Sinodo, ad esempio l’antichissima forma istituzionalizzata del sacro collegio cardinalizio; questo, nella sua fisionomia composta dai Vescovi di tutta la Chiesa, incardinati a Roma con le loro sedi suburbicarie, titoli e diaconie, circonda e sostiene con la sua saggezza, la sua esperienza e il suo consiglio, l’opera del Papa “nella sollecitudine pastorale per la Chiesa nelle sue dimensioni universali”, come ho detto all’inaugurazione della riunione plenaria avvenuta dal 6 al 9 novembre dello scorso anno (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II,2 [1979] 1048). Se ho voluto indire quell’incontro, che è stato definito storico perché - a parte le riunioni durante i due conclavi del 1978 - da secoli non si era più offerta la possibilità di convocarlo (tanto meno nella vasta misura oggi offerta dalla composizione e dal numero del sacro collegio), ciò è stato appunto e principalmente in vista di un peculiare esercizio della collegialità episcopale.

E poiché ho ricordato quel primo solenne consesso del sacro collegio, mi piace qui ricordare, alla luce dello stesso principio della collegialità episcopale “cum Petro et sub Petro”, il primo concistoro del mio pontificato, celebrato lo scorso anno, il 30 giugno, quando quattordici nuovi Cardinali, chiamati da varie diocesi del mondo e dal servizio della curia romana sono stati aggregati al vostro antico collegio: nuova linfa vitale inserita nel ceppo vetusto della Chiesa romana!

Vi sono poi le conferenze nazionali dei Vescovi, che in vari modi tendono ad esprimere quello “iunctim” che è il punto di contatto tra il carattere “collegiale” dei Vescovi e quello “primaziale” di Pietro nell’esercizio del rispettivo ministero pastorale nella Chiesa.

5. A questo punto mi piace ricordare con speciale gratitudine, in questa cornice di collegialità vissuta nella preghiera intensa e nella lucida disamina dei problemi del momento, la celebrazione, qui in Vaticano, di due sessioni straordinarie di Sinodi particolari: il Sinodo particolare dei Vescovi ucraini, per la nomina del coadiutore, con diritto di successione, del venerato e caro Arcivescovo maggiore e Metropolita di Lviv, il Cardinale Giuseppe Slipyj, Sinodo convocato per il 24 marzo 1980; era stato preceduto dal Sinodo particolare dei Vescovi olandesi, celebrato dal 14 al 31 gennaio, suscitando un vivo e universale interesse nella Chiesa. Per più di due settimane abbiamo lavorato insieme, lasciandoci guidare dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, che riunisce il Popolo di Dio (cf. Lumen Gentium, 4). La decisione di riunire il Sinodo era maturata nei numerosi incontri avuti con i Vescovi di quella nazione: e il senso profondo della decisione si coglie già nel titolo dell’ordine del giorno: “l’esercizio del lavoro pastorale della Chiesa nei Paesi Bassi nelle presenti circostanze, affinché la Chiesa si manifesti sempre più come comunione”. Tale profondo significato è stato pure compreso dai fedeli, come lo dimostrano le osservazioni da essi avanzate, ma soprattutto la preghiera fervorosa con cui hanno accompagnato i lavori dei loro Vescovi insieme col Papa. Ho potuto essere presente, in tutti quei giorni, e partecipare alla maggior parte delle sedute di lavoro. Insieme abbiamo pregato, insieme celebrato l’eucaristia, insieme invocato la Vergine Maria. Voglio qui rendere omaggio alla disponibilità, alla devozione e all’obiettività dei pastori olandesi, che si sono lasciati guidare unicamente dalla realtà e dalle esigenze fondamentali della comunione ecclesiale: comunione locale e universale insieme.

Questa forma di dialogo all’interno della Chiesa stessa serve a rafforzare i vincoli di una comunione, il cui principio organico e costruttore è sempre la carità.

Le conclusioni finali di quel Sinodo rivestono un’importanza fondamentale, e ricca di speranze, anzitutto per la Chiesa nei Paesi Bassi, ma anche per l’intera Chiesa, poiché i problemi ivi esaminati alla luce del Vaticano II riguardano anche altre Chiese locali. Ma in primo luogo è la testimonianza di comunione e di collegialità, data durante tutte le fasi del Sinodo, che ne fanno un evento storico per tutta la Chiesa.

6. Ma come dimenticare, quali momenti privilegiati e unici della collegialità episcopale - nella cornice “primaziale” - vissuta a fianco degli stessi Vescovi nei loro propri paesi, quindi a contatto diretto con i loro problemi e le loro ansie pastorali, i memorabili incontri che ho avuto con i pastori, durante le visite finora compiute nei diversi paesi, partecipando in quelle occasioni alle sessioni delle varie conferenze episcopali nazionali? Porto profondamente impressa nel cuore, con un ricordo che non si cancellerà mai, l’esperienza fatta a Puebla, in Messico, insieme con tutti i Vescovi del continente latino-americano; quella con i confratelli dell’episcopato della Polonia, d’Irlanda, degli Stati Uniti d’America, dello Zaire, del Congo, della Repubblica Centroafricana e del Ciad, del Kenya, del Ghana, dell’Alto Volta, della Costa d’Avorio, della Francia, oltre agli incontri con la Conferenza Episcopale Italiana, qui a Roma.

7. Mi è poi caro ricordare qui le preziosissime e densissime esperienze costituite dalle visite “ad limina” dei vari episcopati del mondo che vengono, come Paolo di Tarso, “videre Petrum” (Gal 1,8) e a dargli un quadro vivo delle loro singole Chiese, delle quali si sente come la vita pulsante nelle sue ricchezze di energia umana e di grazia divina, nelle sue speranze, nelle sue tribolazioni: finora ho avuto la consolazione di incontrare, anche a più riprese, i Vescovi della Colombia, dell’Argentina, del Cile, del Perù, di Papua-Nuova Guinea e isole Salomone, del Messico, del Venezuela, dell’Ecuador, del Nicaragua, del Giappone, della Malesia, Singapore e Brunei, di Indonesia e del Vietnam.

È stato un reciproco donare e donarsi, i Vescovi al Papa, il Papa ai Vescovi: queste visite offrono effettivamente la possibilità di un colloquio personale con ogni singolo pastore delle varie Chiese particolari, e di incontri collegiali, direi riassuntivi e più sintetici, con i vari gruppi dell’episcopato del paese o della regione, presi insieme.

8. Trovo anche assai importante rilevare l’intenso e continuo scambio della corrispondenza epistolare tra la santa Sede e le singole diocesi del mondo, in tutte le loro componenti che presentano alla mente il volto umano del Popolo di Dio, le sue esigenze, i suoi problemi, le sue sofferenze, le sue gioie. È tanto prezioso ciò che questa sede apostolica “riceve” e “sente” per potere a sua volta, in modo adeguato “dare” e “rispondere”. Sono lieto, in questa occasione che ci vede riuniti come i membri di una sola famiglia, dare atto al lodevole e costante sforzo comune che tutti i dicasteri compiono - e di cui ho ogni giorno le conferme consolanti - nel porre in atto la collegialità “sui generis” esistente all’interno della curia romana. Tale collegialità si esplica nel quotidiano dovere, che ha la caratteristica unica e specifica di una collaborazione prestata a servizio esclusivo del vicario di Cristo e successore di Pietro per la respirazione di tutta la Chiesa: e questa cooperazione è unita ad una stretta e responsabile “corresponsabilità” di tutte le sue componenti, cominciando dal Cardinale prefetto e finendo agli uscieri. La costituzione apostolica “Regimini Ecclesiae Universae” ha messo in evidenza la necessità e i vantaggi di una sempre più stretta collaborazione, specialmente in materie di mista competenza (cf. Paolo VI, Regimini Ecclesiae Universae, 13-17), e ciò sta dando i suoi frutti: non posso pertanto omettere una parola di elogio. e di incoraggiamento sia per gli incontri di consultazione e di studio che avvengono nell’ambito dei singoli dicasteri o di vari dicasteri insieme (tra prefetti, segretari, sotto-segretari con i loro collaboratori), sia in modo particolare per le riunioni di tutti i capi dei dicasteri della curia romana, inculcati dalla stessa “Regimini”, (cf. Ivi, 18). e alle quali mi sono sentito in dovere di partecipare sempre, fin dall’inizio del pontificato.

Ringrazio, data l’occasione, gli eminentissimi Cardinali König, Philippe e Bafile, che in questi giorni hanno lasciato il loro alto incarico, e sono loro molto obbligato per l’aiuto tanto prezioso, che hanno dato a me e alla curia romana; e saluto, con i migliori auguri, coloro che subentrano al loro posto.

Nella citata riunione plenaria del sacro collegio, ho rilevato che “la prospettiva dell’ulteriore attuazione del Concilio Vaticano II dipende in buona parte dall’efficace funzionamento delle strutture della curia romana - e dalla loro programmata cooperazione con le analoghe strutture nell’ambito delle Chiese locali e delle conferenze episcopali” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II,2 [1979] 1056). Perciò occorre domandarci continuamente: Quale deve essere la curia? Come deve operare per rispondere sempre meglio alla sua vocazione, ai compiti specifici che ha verso la Chiesa universale, in base al carattere “primaziale” e “collegiale” insieme, che è specifico del ministero del Vescovo e della struttura gerarchica della Chiesa, come pure della sua missione apostolica e pastorale?

Nella misura in cui risponderemo a questi interrogativi, che interpellano la nostra coscienza, potremo dire di aver risposto alla fiducia, che il Signore ha messa in noi chiamandoci a far parte di un organismo tanto complesso e delicato.

 

I viaggi apostolici del Papa

9. Il “magisterium” del Vaticano II contiene una stupenda e ricca visione della Chiesa, che richiede una perseverante “realizzazione”. Molte cose sono ancora da fare, forse ancor più di quello che è stato già compiuto finora. Al centro dell’autorealizzazione della Chiesa sta la coscienza della missione. Partecipiamo alla “missione trinitaria” (cf. Lumen Gentium, 2-4; Ad Gentes, 2-9); è una partecipazione che deve esprimersi nella missionarietà della Chiesa stessa (“Ecclesia in statu missionis”). La missione è la rivelazione “della potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del giudeo prima e poi del greco” (Rm 1,16), nel significato e nella portata attuale dei destinatari, a cui si rivolge.

Il Vaticano II ci ha insegnato come “manifestare” questa potenza di Dio, con piena comprensione e rispetto sia di ogni uomo, sia delle singole nazioni e popoli, culture, lingue, tradizioni ed anche delle differenze religiose e perfino della fede e della non credenza (tanto nella affermazione quanto nella negazione di Dio).

10. In tale contesto prendono il loro pieno significato tutti e singoli i viaggi-pellegrinaggi del Papa, per quanto riguarda sia la specificità di ciascuno di essi, sia la loro globalità. Questi viaggi sono visite compiute alle singole Chiese locali, e servono a dimostrare il posto che queste hanno nella dimensione universale della Chiesa, a sottolineare la peculiare attitudine che hanno nel costituire l’universalità della Chiesa. Come ho affermato altra volta, ogni viaggio del Papa è “un autentico pellegrinaggio al santuario vivente del Popolo di Dio” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II,2 [1979] 765).

In questa ottica, il Papa viaggia, sostenuto, come Pietro, dalla preghiera di tutta la Chiesa (cf. At 12,5), per annunciare il Vangelo, per “confermare i fratelli” nella fede, per consolare la Chiesa, per incontrare l’uomo. Sono viaggi di fede, di preghiera, che hanno sempre, al cuore la meditazione e la proclamazione della parola di Dio, la celebrazione eucaristica, l’invocazione a Maria. Sono altrettante occasioni di catechesi itinerante, di annuncio evangelico nel prolungamento, a tutte le latitudini, del Vangelo e del magistero apostolico dilatato alle odierne sfere planetarie. Sono viaggi di amore, di pace, di fratellanza universale (cf. Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II,2 [1979] 710ss). Messico, Polonia, Irlanda, Stati Uniti, Turchia, Africa, Francia, prossimamente Brasile: in questi incontri di anime, pur nell’immensità delle folle, si riconosce il carisma dell’odierno ministero di Pietro sulle vie del mondo.

Tale, e soltanto tale, è il fine del Papa-pellegrino, sebbene taluni possono attribuirgli altre motivazioni. Lo scopo dei pastori è di “radunare il Popolo di Dio” in diversa portata e dimensione. In tale “raduno” la Chiesa riconosce se stessa, e, al tempo stesso, realizza se stessa. Tra vari metodi di attuazione del Vaticano II, questo sembra essere fondamentale e particolarmente importante. È il metodo apostolico: è quello di Pietro, e, ancor più quello di Paolo. Come non sentirsi commossi nel leggere le peregrinazioni dell’apostolo delle genti, quali ce le propongono con tanta vivezza gli Atti? Come non sentirsi scossi da quell’ardimento, da quella sfida di tutti gli ostacoli, di tutte le difficoltà? I mezzi tecnici, offerti dalla nostra epoca, facilitano oggi questo metodo e in certo senso “costringono” a seguirlo. Già Giovanni XXIII lo presentiva, ma fu Paolo VI a darvi piena realizzazione, e su vasta scala, Giovanni Paolo I l’avrebbe certamente continuato.

11. In quelle assemblee veramente plenarie delle comunità ecclesiali nei vari paesi, si attua il fondamentale capitolo II della “Lumen Gentium”, che tratta di molte “sfere” di appartenenza alla Chiesa quale Popolo di Dio, e del legame che esiste con essa, anche da parte di coloro che non vi appartengono ancora.

In tale visione multipla della realtà della Chiesa nel mondo, le visite hanno condotto alle volte ad una società in maggioranza “cattolica” (come il Messico, l’Irlanda, la Polonia, la Francia e fra poco il Brasile), ma altrettanto spesso anche a Paesi dove i “cattolici” convivono con i fratelli di altre Chiese e confessioni cristiane (come negli Stati Uniti d’America), formando sovente la minoranza; e inoltre a paesi, dove i cattolici convivono con i seguaci di altre religioni, e sono uno dei vari gruppi operanti nelle singole nazioni (come nei paesi africani, finora visitati), o perfino quale modesta minoranza (come in Turchia). Infine, i viaggi si articolano altresì in varie situazioni che si profilano tra credenti e non credenti.

12. Si può dire che, dopo il Concilio Vaticano II (in base al citato capitolo II della “Lumen Gentium”, e ad altri documenti particolari), il Papa-pellegrino si sente dappertutto come “a casa sua”, perfino “tra gli estranei”. E ne ha le prove anche nel rapporto che essi intrattengono nei suoi confronti.


Non posso dimenticare gli incontri col Gran Rabbino e i suoi collaboratori a Istanbul; con la comunità ebraica a Battery Park, a Nuova York; con i capi musulmani a Nairobi, ad Accra, a Ouagadougou; con i capi indù ancora a Nairobi; con i rappresentanti della comunità musulmana, e di quella ebraica a Parigi. È la prosecuzione di un colloquio, che la sede apostolica continua a intrattenere con i rappresentanti delle religioni non cristiane (ricordo le udienze a vari gruppi di buddisti e di shintoisti in Vaticano), grazie anche all’opera intelligente e discreta dell’omonimo segretariato, di cui ancora una volta ricordo il compianto presidente, Cardinale Pignedoli!

13. Ovunque, senza riguardo alla tradizione o all’appartenenza religiosa, il Papa porta con sé la profonda coscienza che Dio vuole che “tutti siano salvati e giungano alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4); la coscienza dell’opera redentrice di Cristo, che si è attuata nel suo sangue versato per tutti gli uomini, senza distinzione in credenti o non-credenti. Il Papa porta dappertutto con sé anche la coscienza della fraternità universale di tutti gli uomini, nel cui nome essi debbono sentirsi uniti intorno ai grandi e difficili problemi dell’intera famiglia umana: pace, libertà, giustizia, fame, cultura e altri problemi, che, con l’aiuto di Dio, ho ampiamente trattato nella sede dell’Onu, a New York, per l’assemblea generale delle Nazioni Unite, il 2 ottobre dello scorso anno; all’organizzazione degli Stati americani, il 6 ottobre; in quella della Fao, a Roma, il 12 novembre, e infine nella sede di Parigi dell’Unesco, il 2 giugno scorso. Il Vangelo è la fondamentale “magna charta” di tale coscienza.

 

I contatti ecumenici

14. Il compito particolare della via che riguarda la missione della Chiesa è l’ecumenismo: la tendenza all’unione dei cristiani. Si tratta di una priorità che si impone alla nostra azione, innanzitutto perché essa corrisponde alla vocazione stessa della Chiesa. L’impegno ecumenico non è assunto per questioni di opportunità e non è dettato da situazioni o condizioni contingenti, ma si fonda sulla volontà di Dio.

Forte di questa convinzione ho fatto visita al patriarca ecumenico, sua santità Dimitrios I, a Instabul. Era necessario che visitassi la prima sede della Chiesa ortodossa, alla quale siamo uniti da una profonda comunione, di cui abbiamo ripreso nuova coscienza in questi anni, durante i quali si è sviluppato il dialogo della carità, sbocciato nel dialogo teologico. Questo ha appena preso l’avvio a Patmos con un dinamismo spirituale che suscita in me gioia e speranza. Bisogna che l’alba del secolo che si avvicina ci trovi uniti nella piena comunione. Il dialogo teologico dovrà superare i disaccordi ancora esistenti, ma, come ho avuto occasione di dire altrove, bisognerà imparare di nuovo a respirare pienamente con due polmoni, quello occidentale e quello orientale.

Recentemente ho ricevuto, qui a Roma, delegazioni dei patriarcati di Mosca e di Bulgaria. Ma ho anche e soprattutto avuto la gioia di avere in questo mese di giugno la visita del catholicos-patriarca di Georgia, Elia II. Non dimentico le antiche Chiese orientali. Il mio incontro ad Istanbul con il patriarca Snork Kaloustian segna la volontà di portare avanti ciò che era stato intrapreso dal mio venerato predecessore e dal catholicos della Chiesa armena. Con la Chiesa copta si sta ultimando un documento, la cui preparazione ha avuto inizio con la visita da me ricevuta lo scorso anno di una importante delegazione di quella Chiesa. Ho anche ricevuto recentemente la visita di un metropolita della Chiesa sira nell’India, e di una delegazione della Chiesa d’Etiopia, di cui spero incontrare il patriarca. Ma soprattutto, nel maggio scorso, il compianto sua santità Mar Ignatius Yacoub III, patriarca della Chiesa sira, scomparso solo in questi giorni, ha guidato un’importante delegazione, per rinnovare la visita fatta alla Chiesa di Roma, nel 1971.

Mi è anche grato auspicare che coloro i quali più direttamente sono incaricati di promuovere l’unità - i responsabili per l’ecumenismo nelle diocesi, le commissioni ecumeniche nelle conferenze episcopali, il segretariato per l’unione dei cristiani nell’ambito della curia romana che qui desidero pubblicamente ringraziare - siano strettamente associati in una fruttuosa collaborazione.

15. Lo sforzo per ristabilire la piena comunione con le Chiese eredi delle diverse tradizioni orientali, non fa però trascurare la preoccupazione di superare le divisioni nate nel XVI secolo in occidente.

In meno di due anni, e in spirito di cristiana amicizia, ho avuto scambi con due Arcivescovi di Canterbury; il dottor Coggan, che ha voluto assistere all’inaugurazione solenne del mio pontificato, e il dottor Runcie, che si è incontrato con me in Africa. In questi incontri ho visto riflessi gli intenti di tanti anglicani per il ristabilimento dell’unità.

Questo intento infonde forza a tanti dialoghi e a tanta collaborazione in atto nel mondo di lingua inglese. È questa un’esperienza che deve condurci a seguire nella preghiera il lavoro svolto dalla commissione mista tra la Chiesa cattolica e la commissione anglicana, i cui risultati, molto importanti. verranno presentati alla fine del prossimo anno.

I metodisti hanno seguito da vicino il Concilio Vaticano II, e hanno trovato nel rinnovamento che esso ha prodotto molte ispirazioni vicine ai loro ideali di santità di vita.

Nel dialogo ufficiale con la federazione luterana mondiale numerose controversie del XVI secolo, non prive ancora oggi di un loro effetto, sono state studiate in uno sforzo teologico comune.

Nel quadro di questi contatti con la cristianità luterana, ha assunto in questi tempi un particolare significato la discussione sulla “confessio augustana”. Di questo fondamentale documento, che data al 1530, ricorre in questi giorni il 450° anniversario. Ne è stato fatto un apposito enunciato, come sapete, mercoledì scorso.

Anche nel dialogo con l’alleanza mondiale delle Chiese riformate si è riflettuto sulle comuni origini e ci si è trovati d’accordo nel riflettere sulla responsabilità cristiana davanti al mondo di oggi.

Con le Chiese pentecostali viene portato avanti un dialogo che cancella molti malintesi.

Parallelamente ai contatti e ai dialoghi “bilaterali” con le diverse Chiese, si è contemporaneamente sviluppata una collaborazione col consiglio ecumenico delle Chiese e con i suoi vari dipartimenti.

Ho chiesto che tale collaborazione vada crescendo, poiché sono convinto - malgrado le difficoltà- dell’importanza di questo dialogo multilaterale e dei risultati benefici che esso può avere. Ho avuto a questo proposito utili conversazioni col segretario generale di quell’organismo, il pastore Philip Potter, all’inizio dello scorso anno.

In ognuno dei miei viaggi mi sono adoperato per incontrare i miei fratelli delle altre Chiese e comunità ecclesiali. Ciò è avvenuto soprattutto in Irlanda, negli Stati Uniti d’America, in vari paesi dell’Africa, e a Parigi. Questi incontri hanno permesso, con l’aiuto dell’esperienza, di compiere progressivamente scambi fraterni e reso possibile un ascolto reciproco e una reciproca comprensione. E spero che essi crescano e si sviluppino in questa direzione durante i viaggi futuri.
16. Ma poiché soltanto Dio ci concede di progredire nella realizzazione del supremo desiderio del Cristo, “ut unum sint” (Gv 17,21ss), si comprende l’importanza capitale della preghiera, come ha sottolineato il Concilio Vaticano II (cf. Unitatis Redintegratio, 8). Ancora una volta e con insistenza, invito i fedeli cattolici, e soprattutto i chiamati alla vita contemplativa, ad elevare senza sosta la loro supplica per l’unità vera e completa di tutti i discepoli di Cristo. La settimana di preghiera per l’unità dei cristiani deve essere ogni anno il tempo forte, il fulcro di questa supplica. In questo modo i principi cattolici dell’ecumenismo, stabiliti dal Concilio Vaticano II, potranno essere pienamente realizzati, in questo modo potremo seguire gli impulsi presenti e futuri dello Spirito Santo, con discernimento, in totale docilità e generosità (cf. Unitatis Redintegratio, 24).

17. Tuttavia, come ho sottolineato nella mia recente lettera all’episcopato tedesco, secondo il ricordato decreto conciliare “Unitatis Redintegratio”, l’unione dei cristiani non può essere cercata in un “compromesso” tra le diverse posizioni teologiche, ma soltanto in un comune incontro nella più ampia e matura pienezza della verità cristiana. È desiderio nostro e loro. È un dovere di mutua lealtà. Il Concilio Vaticano II ha affermato: “Niente è più alieno dall’ecumenismo, quanto quel falso irenismo, dal quale viene a soffrire la purezza della dottrina cattolica e viene oscurato il suo senso genuino e preciso” (Ivi, 11).

L’autentico dialogo ecumenico esige perciò da parte dei teologi una particolare maturità e certezza nella verità professata dalla Chiesa, esige una loro particolare fedeltà all’insegnamento del magistero. Soltanto mediante un tale dialogo “d’ecumenismo, questa grande eredità del Concilio, può diventare una realtà sempre più matura, cioè soltanto sulla via di un grande impegno della Chiesa, ispirato dalla certezza della fede e da una fiducia nella forza di Cristo, nelle quali, fin dal principio, si sono distinti i pionieri di questa opera” (Giovanni Paolo II, Epistula reverendissimis Germaniae Occidentalis Episcopis, die 22 maii 1980: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, III,1 [1980] 1436). In tale sforzo ci basiamo unicamente sulla dottrina del Concilio e vogliamo avverare le parole programmatiche del suo decreto sull’ecumenismo: “Unitatis Redintegratio”, il “ristabilimento dell’unità”.

 

Fedeltà allo Spirito Santo

18. In tutto il processo dell’“autorealizzazione” della Chiesa, secondo la visione che essa, benignamente assistita dallo Spirito Santo, ha tracciato a se stessa durante il Concilio, occorre mantenere pienamente la fedeltà allo Spirito Santo: il che vuol dire fedeltà della Chiesa anche a se stessa, alla propria identità.

Questa fedeltà è condizione e al tempo stesso verifica dell’affidamento a Cristo, della fiducia in Cristo, che ha promesso: “Io sono con voi” (Mt 28,20); e in questa fiducia è “innervata”, per così dire, la radice stessa della vita e dello sviluppo della Chiesa. Come ho detto nell’Angelus della prima domenica di quaresima, “la Chiesa, nella presente epoca, non ha nessun’altra necessità così grande, all’infuori di questa fede - inflessibile e intoccabile - nella potenza di Cristo, che desidera operare nei cuori umani come redentore e sposo della Chiesa e svela il mistero di quell’amore che è eterno e dura per i secoli”.

La vera strada della Chiesa è la fedeltà a Cristo. Perciò la Chiesa deve perdurare nella “sua verità” e custodirne il “deposito” nello spirito dell’amore e per l’amore in cui Dio si rivela più pienamente, perché “Dio è amore!”(1Gv 4,8). Non si può, onestamente, far coesistere questa fedeltà imboccando altre vie che si allontanano progressivamente da Cristo e dalla Chiesa, mettendo in discussione punti fissi della dottrina e della disciplina, che, come tali, sono stati affidati alla Chiesa e al suo mandato, nella garanzia di fedeltà assicurata dallo Spirito Santo. La fedeltà a Cristo è fedeltà alla guida indefettibile dello Spirito: “Ubi enim Ecclesia, ibi et Spiritus Dei, et ubi Spiritus Dei illic Ecclesia et omnis gratia: Spiritus autem veritas”: sono le celebri parole di sant’Ireneo (S. Ireneo, Adv. Her., II, 24, 1). E Cipriano: “Unus Deus est, et Christus unus, et una ecclesia eius, et fides una, et plebs una in solidam corporis unitatem concordiae glutino copulata: scindi unitas non potest” (S. Cipriano De Unitate Eccl., 23).

Pertanto è mandato del collegio episcopale, stretto intorno all’umile successore di Pietro, garantire, proteggere, difendere questa verità, questa unità. Sappiamo che, nell’esercizio di questo mandato, la Chiesa docente è assistita dallo Spirito col carisma specifico dell’infallibilità. Questa infallibilità è un dono dall’alto. Il nostro dovere è quello di rimanere fedeli a tale dono, che non ci viene dalle nostre povere forze o capacità, ma unicamente dal Signore. Ed è quello di rispettare e di non deludere il “sensus fidelium”, cioè quella particolare “sensibilità” con cui il Popolo di Dio avverte e rispetta la ricchezza della rivelazione affidata da Dio alla Chiesa e ne esige l’assoluta garanzia.

Dal principio della collegialità e dalla missione pastorale e magisteriale dei Vescovi si deduce la loro comune corresponsabilità nel salvaguardare la purezza della dottrina della Chiesa. Sono chiamati a collaborare strettamente con i competenti dicasteri della sede romana, centro della comunità ecclesiale, per metterla sempre meglio in grado di compiere la sua missione, cioè di adunare e unificare nella stessa fede comune le singole Chiese locali e tutti i fedeli. Di tale realtà, talora gravosa, han dato prova recentemente i Cardinali e Vescovi tedeschi.

19. Effettivamente i Vescovi, come pastori e maestri, sono promotori di un autentico dialogo con tutti i fedeli, in modo particolare con i teologi che hanno l’incarico di insegnare in nome della Chiesa, per una missione speciale. Come ho scritto nella mia recente lettera all’episcopato tedesco, si devono “tenere nel dovuto conto anche la particolare responsabilità dei teologi. Non si deve altrettanto dimenticare né il diritto né il dovere del magistero di decidere che cosa è conforme o no alla dottrina della Chiesa sulla fede e sulla morale. La verifica, l’approvazione o il rifiuto di una dottrina, appartiene alla missione profetica della Chiesa”.

Come ha sottolineato il mio predecessore Paolo VI nel primo quinquennio di attività della commissione teologica internazionale, è necessario “affermare che tutti i teologi, come per norma inerente al loro ufficio, partecipano, sia pure in gradi diversi di autorità, all’ufficio proprio dei pastori in questo campo: cioè quello di far fruttificare la fede e allontanare con vigilanza gli errori che ne minacciano il gregge” (Insegnamenti di Paolo VI, XI [1973] 990). È dunque un dovere complementare, basato sul principio di sussidiarietà, che ai teologi viene affidato dalla Chiesa con grande speranza: essi, mediante gli strumenti della ricerca teologica condotta nella fede vivente nel Dio vivente, devono indicare al Popolo di Dio la strada maestra della Chiesa, la fedeltà alla parola incarnata, che continua nel mondo la propria missione. Purtroppo, dopo il Concilio Vaticano II, si è fatta avanti una nuova ecclesiologia, fortemente appoggiata da alcuni mezzi di comunicazione sociale, che ha preteso di indicare alla Chiesa vie che non sono quelle del Concilio ecumenico Vaticano II. I teologi hanno il dovere di dare una conferma autorevole e autorizzata all’insegnamento della Chiesa, un indirizzo da seguire per comprendere sempre più a fondo la vera dottrina della Chiesa. Certo, nel far questo, hanno diritto alla libera analisi e ricerca, ma sempre in conformità con la natura stessa della “scienza di Dio”. Ogni “teologia” è un parlare di Dio: anzi, secondo la linea maestra dei grandi padri della Chiesa, specie orientali, essa è anche, e non può non essere una “teoria”, una “teopsia”: un vedere Dio, un immergersi in lui nella contemplazione e nell’adorazione. Una teologia che non preghi è destinata a isterilirsi, anzi, ciò che è più dannoso, a isterilire il cuore dei fedeli e dei futuri sacerdoti, gettandovi l’ombra del dubbio, dell’incertezza, della superficialità. Tutto ciò deve far riflettere sulla grave responsabilità che i teologi hanno nella Chiesa, e ai compiti a cui devono attenersi per fare onore al loro nome.

20. A questo punto non posso non rievocare i meriti che, in tale campo, si è acquisita la commissione teologica internazionale fin dal 1968. Né posso dimenticare il ruolo e l’attività della pontificia commissione biblica. Sono tutti organismi che si lasciano guidare dalla luce che promana dalla sapienza cristiana e ad essa guidano, per unificare “in un’unica sintesi vitale”, le attività umane insieme con i valori religiosi, “sotto la cui direzione tutte le cose sono tra loro coordinate per la gloria di Dio e per l’integrale sviluppo dell’uomo” (cf. Giovanni Paolo II, Sapientia Christiana: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II [1979] 1218).

 

Chiesa e cultura

21. Particolare significato acquista, in questa luce di ricerca e di contemplazione della celeste sapienza, il ruolo che sono chiamate a svolgere le università e le facoltà teologiche nella preparazione del clero di domani e della gioventù colta, che desidera approfondire la conoscenza delle scienze sacre per l’insegnamento della religione nelle scuole e per adempiere meglio le funzioni di catechisti. Ricordo con particolare letizia le visite da me compiute a questi centri di irradiazione della dottrina cattolica, sia qui a Roma, alle pontificie università San Tommaso d’Aquino (17 novembre 1979), Gregoriana (15 dicembre 1979) e Lateranense (16 febbraio 1980), sia, durante i viaggi apostolici, alla facoltà teologica di Cracovia (8 giugno 1979), all’università cattolica di Washington (7 ottobre 1979), all’Institut Catholique de l’Afrique occidentale, ad Abidjan (11 maggio 1980), e all’Institut Catholique di Parigi (1 giugno 1980).

22. Sempre nell’intendimento che muove la Chiesa sulla via della realizzazione del Concilio, è necessaria una menzione dello sforzo che si sta compiendo nel curare i rapporti tra la Chiesa e la cultura e la scienza. È un campo antico come il cristianesimo, che ha sempre cercato i contatti con le grandi tappe dello spirito umano, dal “Didaskaleion” di Alessandria, alla salvaguardia e alla custodia dei capolavori classici greci e latini a cura degli “scriptoria” uniti ai conventi e alle cattedre vescovili, alle fondazioni delle “universitates studiorum” nel medioevo.


Il Concilio, nella costituzione pastorale “Gaudium et Spes”, (cf. Gaudium et Spes, 53-62), ha dato un nuovo impulso alla “promozione del progresso della cultura”, compito che è da ritenere fondamentale in questo momento, in cui la diffusione dei mass-media fa entrare rapidamente nella opinione pubblica, e poi nella mentalità corrente, non solo le teorie scientifiche, ma anche le ideologie che interpellano, in un continuo giudizio critico, l’intelligenza dell’uomo contemporaneo e anche la fede del credente. È una sfida che dobbiamo raccogliere. Un positivo rapporto tra il mondo della scienza e della cultura non può non risolversi in una risposta ai problemi vitali dell’uomo e della fede. Ho spiegato nella riunione plenaria dei Cardinali l’importanza che attribuisco a questo compito primario; e do atto, pubblicamente, all’impegno e al giovanile entusiasmo con cui il Cardinale Garrone, rinunciando al precedente incarico, si è dedicato ai rapporti con la cultura e la scienza. E mi piace rievocare, oltre agli incontri che ho avuto ed ho con vari rappresentanti della cultura, la solenne tornata con cui la pontificia accademia delle scienze ha commemorato il primo centenario della nascita di Albert Einstein, il 1O novembre.

Continuiamo su questa strada per cercare, secondo lo spirito della “Gaudium et Spes”, “una espressione adeguata del rapporto della Chiesa col vasto campo dell’antropologia contemporanea e delle scienze umanistiche” (Gaudium et Spes), sempre nella visione sublimante del Verbo, della sapienza, “la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9), discesa nel mondo e fattosi carne (cf. Gv 1,14) perché l’uomo trovasse la pienezza della verità, la sintesi degli elementi creati, operata nella superiore coerenza tra ragione e fede, tra la nobiltà ingenita dell’intelletto e il trascendente completamento che gli dà la verità divina. Ringrazio di cuore quanti prestano la loro opera, silenziosa e fattiva, perché si sviluppino sempre più i rapporti tra la religione e la scienza.

 

Autorealizzazione della Chiesa nelle sue principali componenti

23. Occorre poi che la Chiesa - il cui dovere è servire Dio e gli uomini in Cristo - si raccolga continuamente sulla via della propria autorealizzazione, sulle diverse sfere e strutture del suo organismo apostolico. È tutta un’articolazione pulsante di vita, che dà e riceve apporti dalle singole sue componenti, e che pertanto il Papa, che ha il dovere di “confermare i fratelli”, deve seguire e incoraggiare con ogni energia. Ma, nel far questo, egli sa bene di essere debitore a tante persone, specialmente ai competenti dicasteri della curia, ai quali va, pertanto, viva e doverosa riconoscenza.

24. Anzitutto i seminari, che hanno la delicatissima responsabilità di accogliere, vagliare, fortificare le vocazioni, problema-chiave nella Chiesa di oggi. In questa luce vorrei ricordare le visite compiute, qui a Roma, al collegio polacco, al collegio inglese, a quello messicano, a quello irlandese, all’almo collegio Capranica, al collegio olandese, al seminario romano maggiore e minore, al collegio americano del nord, oltre alla udienza concessa al seminario regionale pugliese di Molfetta; fuori Roma, nei pellegrinaggi finora compiuti, ho visitato il seminario di Guadalajara, in Messico, quello di San Carlo a Filadelfia, quello di Quigley South, a Chicago, quello di Kumasi in Ghana, e di Issy-les- Moulineaux, a Parigi; e inoltre in ogni nazione vi è stato un caldo e cordiale incontro con i giovani seminaristi, speranza fondamentale della Chiesa di domani.

Altrettanta importanza ha nella vita ecclesiale odierna la presenza dei religiosi e delle religiose, testimonianza viva del regno di Dio, dell’annuncio pasquale della risurrezione, dello spirito delle beatitudini evangeliche. Per questo mi sono incontrato con i responsabili centrali della compagnia di Gesù, con l’unione internazionale delle superiore generali, col consiglio dell’unione dei superiori generali, col capitolo generale della società san Paolo, con l’assemblea plenaria della sacra congregazione per i religiosi e gli istituti secolari.

25. Vi è poi la gioventù, che si apre al Vangelo, ai valori spirituali, con tutta la carica del suo entusiasmo, con la sua sete di autenticità e di verità, col suo affrontarsi con i problemi cruciali della propria vita spirituale e morale. È sempre una gioia per il Papa incontrarsi con i giovani. Ed è una gioia ricambiata. Quanto entusiasmo ho sempre trovato in mezzo a loro! Ricordo le serate a Castel Gandolfo con i gruppi che si sono via via succeduti. Ricordo le sante messe e le udienze, a Roma, con gli studenti medi e universitari di varie nazioni. E, durante tutti i miei viaggi apostolici, è stata una festa per tutti il colloquio diretto, a faccia a faccia, gli occhi negli occhi, con le folle di giovani che mi hanno circondato, festosi e pensosi: ritorno col pensiero agli universitari del Messico, a Guadalupe; a quelli della Polonia, a Cracovia; alla messa di Galway, in Irlanda; all’incontro al Madison Square, di New York; penso ai giovani di Norcia, a quelli di Torino, agli studenti dello Zaire, della Costa d’Avorio, ai giovani operai dell’Azione Cattolica a Parigi, quindi all’incontro al Parc des Princes.
26. Un posto particolare nelle attenzioni della Chiesa e del Papa è tenuto dalla famiglia, che il Vaticano II ha definito la prima e vitale cellula della società (Apostolicam Actuositatem, 11), incontro di generazioni (Gaudium et Spes, 52), Chiesa domestica (Lumen Gentium, 11), tirocinio di apostolato (Apostolicam Actuositatem, 11. 30), primo seminario e vivaio di vocazioni (Optatam Totius, 2; Ad Gentes, 19. 41). Come non puntare oggi tutte le attenzioni, che corrispondono a quelle che ha Dio Padre, in Cristo, verso l’umanità, su questo ganglio centrale della vita moderna, minacciato da tanti pericoli e diventato tanto vulnerabile per l’inoculazione di germi letali - legalizzati talora dagli interventi delle leggi civili - quali il permissivismo, il libero amore, l’istituto del divorzio, la liberalizzazione dei farmaci contraccettivi, l’introduzione dell’aborto? Vi è da tremare davanti a statistiche veramente tragiche, che svelano abissi tenebrosi nell’odierno comportamento morale. La famiglia è la più direttamente minacciata. Ecco perciò il tema, di importanza capitale, proposto al Sinodo dei Vescovi, nel prossimo autunno, dedicato appunto alla famiglia, e di cui stanno fervendo i preparativi. In questa prospettiva, ho dedicato, ormai dall’estate dello scorso anno, la catechesi delle udienze generali del mercoledì, per offrire al Popolo di Dio una riflessione globale - dal punto di vista biblico e teologico - sulla realtà dell’amore, della donazione e del completamento reciproco attraverso i sessi, secondo il piano primigenio di Dio e secondo l’insegnamento di Cristo, che riporta al “principio”.

27. Almeno un cenno, poi mi piace dedicare alle parrocchie, espressione visibile dell’unità della Chiesa e della sua vita di preghiera liturgica e di carità, nei legami che si intrecciano in esse, attraverso tutte le categorie sociali nel vincolo dell’unico amore di Cristo. Come Vescovo di Roma, ho una diretta responsabilità pastorale nei confronti delle singole parrocchie romane: per questo ho cominciato a visitarle a una a una, fin dall’inizio del mio servizio pontificale, e mancherebbe il tempo di enumerare tutte quelle che mi hanno accolto. Il Cardinale vicario ne tiene nota! Grazie a lui e ai suoi collaboratori per la stupenda realtà che è costituita da questi incontri del Vescovo di Roma con le sue parrocchie!

28. La vita cristiana si dipana quotidianamente nell’esercizio delle singole professioni e del lavoro umano: di qui la cura di raggiungere e d’incontrare, a Roma, nel Lazio, e nei viaggi in Italia e nei vari continenti, la realtà degli uomini impegnati nell’edificazione della città terrena, affinché sappiano procedere con l’aiuto di Dio, nella coerenza dei principi morali e deontologici, nella fratellanza e nel rispetto dell’uomo: imprenditori e dirigenti, lavoratori dell’industria nei suoi vari rami, artigiani, contadini, pescatori, uomini della politica internazionale e nazionale, giornalisti, artisti e attori, sportivi, ecc... A tutti, quando si è offerta l’occasione, non è mancata la parola del Papa per far sentire che la Chiesa li attende a braccia aperte, e conta tanto su di loro per la costruzione di un mondo “a misura d’uomo”. E perché Dio sia amato.

29. Amare Dio! La vita liturgica è il luogo privilegiato ove si effettua questo scambio tra Dio e l’uomo: e l’altare dell’eucaristia, ove Cristo Gesù, sacerdote vero ed eterno, si offre vittima al Padre per l’umanità, è il punto d’incontro tra cielo e terra. Il Concilio Vaticano II ha dato un magnifico impulso al rinnovamento liturgico, che era stato preparato da tutto un movimento fiorito già fin dalle innovazioni introdotte da san Pio X, in tutto il mondo: la costituzione “Sacrosantum Concilium” è stato il primo documento solennemente approvato dai padri conciliari, da cui è partita quell’opera costante di riforma, portata avanti con animo umile e coraggioso dal grande pontefice Paolo VI. È noto, tuttavia, che - a fianco di quella pericolosa ecclesiologia, a cui ho accennato prima - si sono sviluppati movimenti e mentalità, sia di regresso sia di sperimentazione arbitraria che hanno portato talora a un grave turbamento dei fedeli, dei sacerdoti, della Chiesa intera. E le contraddizioni più patenti sono venute alla luce proprio attorno all’eucaristia, proprio all’altare, ove la “regula fidei” deve invece ispirare il massimo rispetto per colui che, nella messa, rinnova il suo sacrificio in forma sacramentale, e lo lascia alla sua Chiesa come memoriale perpetuo del suo amore immolato. Di qui han preso origine le lettere, che ho indirizzato ai Vescovi e, per loro, ai sacerdoti, il Giovedì Santo della Pasqua dello scorso anno e di questo “Dominicae Cenae”. Sono seguite le norme liturgiche del competente sacro dicastero circa il culto del mistero eucaristico.

Chiedo a tutta la Chiesa di vivere in quello spirito di rispetto e di amore, che vogliono inculcare questi documenti.

 

Maria ci conduce a Cristo e alla santità

30. L’affidamento totale a Cristo, che è come la condizione e la conseguenza del suo donarsi alla Chiesa, con tutte le forze della redenzione che gli sono proprie, è fondamentale e vitale per la Chiesa stessa, per la sua autentica autorealizzazione, per il suo progresso: voglio dire per il suo vero progresso, e non per una problematica “progressività” che distrugge senza lasciar dietro di sé nulla di valido.

Pertanto, nasce di qui la necessità di un continuo rinnovamento, in una particolare unione con Maria, Madre di Cristo e Madre della Chiesa. “A lei - vi dicevo prima di Natale - ho affidato gli inizi del mio pontificato, e a lei ho portato nel corso dell’anno l’espressione della mia pietà filiale, che ho imparato dai miei genitori. Maria è stata la stella del mio cammino, nei suoi santuari più celebri o più silenziosi” (Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II,2 [1979] 1497). Alla lista di quei luoghi, tanto cari al mio cuore, si sono aggiunti in questi sei mesi altri nomi soavi: la Consolata e la “Gran Madre” a Torino; Nostra Signora dello Zaire, a Kinshasa; Nostra Signora del Rosario, a Kisangani; Notre-Dame di Parigi; e in Costa d’Avorio ho posto la prima pietra della Chiesa di “Notre Dame d’Afrique”.

È un appello che, col gesto simbolico, con la parola, con la preghiera dell’Angelus, o del Regina Coeli, rivolgo alla Chiesa e al mondo in numerose circostanze, approfittando della ricchezza della tradizione, della pietà mariana delle singole Chiese locali, delle varie nazioni, fiorita in mille forme gentili e commoventi in onore della Vergine santa. Anche qui,l’ispirazione dottrinale fondamentale viene dal Concilio, dalla costituzione dogmatica “Lumen Gentium”, che nel capitolo VIII, ha dato la sintesi globale, sobria nella sua straordinaria ricchezza, della teologia mariana, e ha invitato tutti i credenti a mettersi con impegno maggiore sulla via regale della vera pietà mariana, che conduce a Cristo.

L’età post-conciliare, pure in mezzo a qualche ombra, ha portato ad un ricco approfondimento di questa dottrina, mediante il contributo dei teologi, e soprattutto ad opera di questa sede apostolica: non saranno mai dimenticati gli insegnamenti del mio predecessore Paolo VI, che nelle sue stupende esortazioni apostoliche “Signum Magnum” e “Marialis Cultus”, ha lasciato un monumento della sua devozione e del suo amore a Maria, e una sintesi completa dei motivi biblici, teologici, liturgici che devono guidare il Popolo di Dio nell’incremento continuo del culto dovuto a colei che è Madre di Dio, madre nostra, Madre della Chiesa.

Anche nell’ambito ecumenico, specie nei rapporti con le Chiese sorelle d’oriente, questa ispirazione al rinnovamento ci viene dalla fiducia nell’intercessione di Maria, che tutti ci considera suoi figli, e nella quale possiamo già trovare un forte impulso ad un’unità che, nel culto mariano, già troviamo realizzata.

31. Inoltre, Maria è presente nella Chiesa, a stimolare la santità dei suoi figli migliori, a indirizzarli su vie eroiche di donazione evangelica e missionaria, a favore dei poveri, dei piccoli, dei semplici, dei sofferenti, di coloro che attendono il messaggio di Cristo. Maria è ispiratrice della santità nella Chiesa; e ne troviamo commovente conferma anche in quei nuovi beati, che il Signore mi ha dato l’incomparabile conforto di proporre alla devozione e all’ammirazione dei fedeli di tutto il mondo: Francesco Coll, Giacomo Laval, Enrico de Ossò y Cervellò, Giuseppe de Anchieta, Maria dell’Incarnazione (Guyart), Pietro De Betancur, Francesco de Montmorency-Laval, Caterina Tekakwitha.

 

Conclusione: l’eredità della fede di Pietro e Paolo

32. Venerabili e cari fratelli! Ho considerato mio dovere esprimere confidenzialmente tutto questo alla vigilia del giorno, che è la festa della Chiesa romana. E quanto vi ho detto, sintetizzando nei limiti del possibile l’attività pontificale di tutto un anno, si pone, direi, nella stessa linea di continuità con la professione di Pietro in Cesarea di Filippo (cf. Mt 16,16), che già ho rinnovato il 22 ottobre 1978, all’inizio del mio servizio pontificale.

In questa festa, in modo speciale, bisogna risalire alle proprie radici per guardare come da esse si sviluppa e cresce quell’albero che nacque dal “più piccolo di tutti i semi” (Mt 12,32) sul suolo fertilizzato dal preziosissimo sangue del redentore - e qui, a Roma, anche dal sangue dei suoi santi apostoli Pietro e Paolo. Sentiamo l’orgoglio santo di appartenere a questo luogo: “Ista quam felix Ecclesia, cui totam doctrinam apostoli cum sanguine suo profuderunt, ubi Petrus passioni dominicae adaequatur, ubi Paulus Ioannis exitu coronatur” (Tertulliano, De praescript. haer., 36): davvero i due grandi apostoli ci hanno lasciato in eredità “l’intera dottrina insieme col loro sangue”. Una così preziosa eredità noi desideriamo portare nei nostri cuori, e nel nostro ministero, con umiltà ed amore, di fronte alle “grandi opere di Dio”, che essi ci hanno tramandato nel patrimonio che perennemente ci dà vita.



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