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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE LEONE XIV
ALLE RETI DEI POPOLI ORIGINARI E DEI TEOLOGI DI TEOLOGIA INDIGENA 
IN OCCASIONE DELL'ANNO GIUBILARE

[14-16 ottobre 2025]

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Cari fratelli e sorelle,

Sono lieto di unirmi all’evento virtuale che, in occasione dell’Anno Santo, avete tenuto ad organizzare dalla Presidenza del CELAM. È certamente una gradita occasione per approfondire il significato del dono che il Signore ci fa attraverso la sua Chiesa. Il Giubileo deve essere per noi anzitutto «un momento di incontro vivo e personale con il Signore Gesù, “porta” di salvezza» (Francesco, Bolla Spes non confundit, n. 1), essendo occasione di riconciliazione, di grata memoria e di speranza condivisa, più che una mera celebrazione esterna. Nel programmare i momenti giubilari, Papa Francesco ha voluto mettere in risalto l’universalità della Chiesa, che si manifesta in tante vocazioni, età e situazioni di vita: famiglie, bambini, adolescenti, giovani, adulti, anziani, ministri ordinati e laici, servitori nella Chiesa e nella società. Questa stessa universalità, che non uniforma, bensì accoglie, dialoga e si arricchisce con la diversità dei popoli, include in modo particolare voi, i popoli originari, la cui storia, spiritualità e speranza costituiscono una voce insostituibile all’interno della comunione ecclesiale.

 In questa ottica, mi sembra importante comprendere che quando varchiamo la Porta Santa, più che compiere un gesto simbolico entrando in un bel tempio, ciò che vogliamo è introdurci, per mezzo della fede, nella fonte stessa dell’amore divino, il costato aperto del Crocifisso (cfr. Gv 20, 27-29). È in questa fede che siamo un popolo di fratelli, uno nell’Uno (cfr. Sant’Agostino, Commento al Salmo 127, 4). È a partire da questa verità che dobbiamo rileggere la nostra storia e la nostra realtà, per affrontare il futuro con la speranza alla quale ci invita l’Anno Santo, nonostante le fatiche e le tribolazioni (cfr. Ibidem, 5.10).

 Questa prospettiva può aiutarci nella nostra riflessione, poiché, in quanto popoli originari, vi rafforzate con la certezza che Uno solo è l’origine e la meta dell’universo (cfr. Rm 11, 36), il Primo in tutto (cfr. Col 1, 18); origine di ogni bontà e, per questo, fonte primaria di tutto ciò che è buono, anche nei nostri popoli. È da questa certezza di fede che sgorga la nostra gioiosa azione di rendimento di grazie nel varcare la Porta Santa del Cuore di Cristo: «Benedetto sia Dio, Egli ci ha scelti in Cristo, prima della creazione del mondo per essere suoi figli» (cfr. Ef 1, 3-5). È questa la meta della nostra speranza, non lo è solo di alcuni ma di tutti, anche di coloro che un tempo erano considerati nemici: «filistei, siri, etiopi», «Egitto e Babilonia» (vv. 3-4), le grandi potenze occupanti, «tutti sono nati in essa» (cfr. Sal 86, 5). Sant’Agostino dirà: «delle quali nomina alcune per intenderle tutte» (Commento al Salmo 86, 6).

 Purtroppo, in quanto uomini, questa non è l’unica accezione di “originario” con cui dobbiamo confrontarci. La lunga storia di evangelizzazione che hanno conosciuto i nostri popoli originari, come hanno indicato tante volte i vescovi dell’America Latina e dei Caraibi, è piena di “luci e ombre”. Sant’Agostino lo applica al caso dei servi del Vangelo dicendo: «S’egli [l’uomo] è buono, è intimamente unito a Dio e opera con Dio stesso; se invece è malvagio, allora è Dio a operare per mezzo di lui il rito visibile del sacramento, mentre è lui stesso a dare la grazia invisibile. Cerchiamo di aver tutti la medesima convinzione e d’eliminare gli scismi tra noi!» (Lettera 105, 12). Il Giubileo, tempo prezioso per il perdono, ci invita pertanto a «perdonare di cuore i nostri fratelli» (cfr. Mt 18, 35), a riconciliarci con la nostra storia e a rendere grazie a Dio per la sua misericordia verso di noi.

In tal modo, riconoscendo sia le luci sia le ferite del nostro passato, comprendiamo che potremo essere popolo soltanto se ci abbandoneremo veramente al potere di Dio, alla sua azione in noi. Egli, che ha inserito in tutte le culture i “semi del Verbo”, li fa fiorire in una forma nuova e sorprendente, potandoli perché rechino frutto (cfr. Gv 15, 2). Così dichiarava il mio Predecessore, san Giovanni Paolo II: «La forza del vangelo è dappertutto trasformatrice e rigeneratrice. Allorché essa penetra una cultura, chi si meraviglierebbe se ne rettifica non pochi elementi? Non ci sarebbe catechesi, se fosse il vangelo a dover alterarsi al contatto delle culture» (Esortazione apostolica post-sinodale Catechesi tradendae, n. 53). Pertanto, nel dialogo e nell’incontro, impariamo dai diversi modi di vedere il mondo, valorizziamo ciò che è proprio e originario di ogni cultura e, insieme, scopriamo la vita abbondante che Cristo offre a tutti i popoli. Questa vita nuova ci viene data proprio perché condividiamo la fragilità della condizione umana segnata dal peccato originale, e perché siamo stati raggiunti dalla grazia di Cristo, che per tutti ha versato il suo sangue fino all’ultima goccia, affinché avessimo “vita in abbondanza” (cfr. Gv 10, 10), guarendo e redimendo quanti aprono il cuore alla grazia che ci è stata donata.

Voi vi riunite ora per approfondire tutte queste cose, perciò non voglio concludere senza citare quel termine che tanto ha amato il mio Predecessore, Papa Francesco: la parresia, quell’audacia evangelica, quell’uscire da sé stessi per annunciare il Vangelo senza paura e con libertà di cuore, che «dice tutta la verità perché è coerente» (Meditazione quotidiana, 18 aprile 2020).

Nel concerto delle nazioni, i popoli originari devono presentare con coraggio e libertà la propria ricchezza umana, culturale e cristiana. La Chiesa ascolta e si arricchisce con le loro voci singolari che hanno un posto insostituibile nel magnifico coro dove tutti proclamiamo: «Signore, Dio eterno, gioiosi ti cantiamo, a te la nostra lode» (cfr. Inno del “Te Deum”). E in questa lode comune, ricordiamo anche la chiamata del Vangelo a evitare la tentazione di porre al centro ciò che non è Dio — il potere, il dominio, la tecnologia e qualsiasi altra realtà creata — affinché il nostro cuore rimanga sempre orientato all’unico Signore, fonte di vita e di speranza.

Per questo, per noi che, per la misericordia di Dio, ci chiamiamo e siamo cristiani, ogni nostro discernimento storico, sociale, psicologico o metodologico trova il suo senso ultimo nel mandato supremo di far conoscere Gesù Cristo, che morì per il perdono dei nostri peccati e risorse affinché fossimo salvati nel suo nome, già su questa terra, e poi lo adorassimo con tutto il nostro essere nella gloria del Cielo.

Nell’affidare i vostri lavori alla Beata Vergine Maria di Guadalupe, Stella dell’Evangelizzazione, che in modo ammirevole ci ha mostrato come Gesù Cristo “fece di due popoli uno solo, abbattendo il muro dell’inimicizia che li separava” (cfr. Ef 2, 14), vi invito a rinnovare l’impegno con il mandato del Signore: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 19-20), diffondendo la gioia che nasce dall’avere incontrato il suo Divino Cuore.

Vaticano, 12 ottobre 2025, Nostra Signora della Concezione Aparecida

LEONE PP. XIV

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L'Osservatore Romano, Edizione Quotidiana, Anno CLXV n. 238, giovedì 16 ottobre 2025, p. 11.