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DICASTERIUM PRO DOCTRINA FIDEI
UNA
CARO
Elogio della monogamia
Nota dottrinale sul valore del matrimonio come unione esclusiva e appartenenza reciproca
Indice
Presentazione
I. Introduzione
II. La monogamia nella Bibbia
La monogamia nel capitolo 2 della Genesi
Il simbolismo nuziale profetico
La letteratura sapienziale
La simbologia nuziale del Nuovo Testamento
III. Echi della Scrittura nella storia
Alcune riflessioni di teologi cristiani
Primi sviluppi sull’unità e la comunione
matrimoniale nei Padri della Chiesa
Alcuni autori medievali e moderni
Lo sviluppo della visione teologale nei
tempi recenti Interventi magisteriali
Primi interventi
Leone XIII Pio XI
I tempi del Concilio Vaticano II
San Giovanni Paolo II
Benedetto XVI Francesco
Leone XIV
IV. Alcuni sguardi dalla filosofia e
delle culture
Nel pensiero cristiano classico
Comunione di due persone
Una persona interamente riferita a un’altra
Faccia a faccia
Il pensiero di Karol Wojtyła
Più in là
Altri sguardi
V. La parola poetica
VI. Alcune riflessioni da approfondire
Appartenenza reciproca
La trasformazione
La non appartenenza
Reciproco aiuto
Carità coniugale
Una particolare forma di amicizia
In corpo e anima
La multiforme fecondità dell’amore
Un’amicizia aperta a tutti
VII. Conclusione
Presentazione
Questo è un testo per la Chiesa universale, che può tuttavia essere preso
in giusta considerazione in ogni luogo di fronte alle sfide culturali
locali. Il documento, infatti, prende sul serio l’attuale contesto globale
di sviluppo del potere tecnologico, nel quale l’essere umano è
tentato di pensare a sé stesso come ad una creatura senza limiti, che può
ottenere tutto ciò che immagina. In questo modo, viene facilmente offuscato
il valore di un amore esclusivo, riservato a una sola persona, cosa che di
per sé implica la rinuncia libera a molte altre possibilità.
In verità, l’intenzione di questa Nota è fondamentalmente
propositiva: estrarre dalle Sacre Scritture, dalla storia del pensiero
cristiano, dalla filosofia e persino dalla poesia, ragioni e motivazioni che
spingano a scegliere un’unione d’amore unica ed esclusiva, un’appartenenza
reciproca ricca e totalizzante.
Si tratta di uno sforzo che permetterà di arricchire la riflessione e
l’insegnamento sul matrimonio con un aspetto finora non molto sviluppato.
Allo stesso tempo, potrà costituire per i movimenti e gruppi matrimoniali un
materiale vario e utile per lo studio e il dialogo. Ciò rende ragione della
lunghezza della Nota e del numero di autori e di testi che sono stati
citati: ad alcuni, tale scelta potrà sembrare un’informazione eccessiva, ma
noi crediamo che da ognuno degli autori e dei testi citati si possa estrarre
qualche sfumatura o qualche accento diverso che stimoli una serena
riflessione e un prolungato approfondimento.
Prenderemo in considerazione i più importanti interventi del Magistero e
una serie di autori dall’antichità ai tempi recenti: teologi, filosofi,
poeti. Abbiamo trovato una grande ricchezza di riflessioni che valorizzano
l’unione dei coniugi, la reciprocità, il significato totalizzante della
relazione matrimoniale. In questo modo, i diversi testi verranno a comporre
un bellissimo mosaico che di sicuro arricchirà la nostra comprensione della
monogamia.
Se invece si vuole cogliere soltanto una breve sintesi riflessiva per
motivare la scelta di un’unione esclusiva tra una sola donna e un solo uomo,
sarà sufficiente leggere l’ultimo capitolo e la conclusione della presente
Nota, centrati sull’appartenenza reciproca dei coniugi e sulla carità
coniugale. Ad ogni modo, ci permettiamo di suggerire la lettura paziente
della Nota nella sua integralità per poter cogliere appieno tutta
l’ampiezza degli aspetti che entrano in gioco in questa ricca materia.
Víctor Manuel Card. Fernández Prefetto
I. Introduzione
1. [Una caro] “Una sola carne” è il modo in cui la Bibbia esprime
l’unità matrimoniale. Nel linguaggio comune, invece, “noi due” è
un’espressione che compare quando in un matrimonio c’è un forte sentimento
di reciprocità, ovvero la percezione della bellezza di un amore esclusivo,
di un’alleanza tra due che condividono la vita nella sua interezza, con
tutte le sue lotte e le sue speranze. “Noi due” lo dice una persona quando
si riferisce ai desideri, alle sofferenze, alle idee e ai sogni condivisi:
in una parola, quando si riferisce alle storie che solo i coniugi hanno
vissuto. Questa è una manifestazione verbale di qualcosa di più profondo:
una convinzione e una decisione di appartenersi mutuamente, di essere “una
sola carne”, di percorrere insieme il cammino della vita. Come ha detto Papa
Francesco: «Anche gli sposi dovrebbero formare una prima persona
plurale, un “noi”. Stare l’uno davanti all’altro come un “io” e un “tu”, e
stare di fronte al resto del mondo, compresi i figli, come un “noi”»[1].
Questo accade perché, pur essendo due persone diverse, due individualità
che conservano ciascuna una propria e intrasferibile identità, hanno
forgiato con il loro libero consenso un’unione che le pone insieme di fronte
al mondo. È un’unione che si apre generosamente agli altri, ma sempre a
partire da quella realtà unica ed esclusiva del “noi” coniugale.
2.
San Giovanni Paolo II, parlando della monogamia, ha sostenuto che
«merita di essere sempre più approfondita»[2].
Questa sua indicazione sulla necessità di una trattazione più ampia di
questo tema è una delle motivazioni che hanno spinto il
Dicastero per la Dottrina della Fede a predisporre la presente
Nota
dottrinale. Inoltre, all’origine di questo testo ci sono, da una parte,
i vari dialoghi con i Vescovi dell’Africa e di altri continenti sulla
questione della poligamia, nel contesto delle loro visite ad limina[3],
e, dall’altra, la constatazione che diverse forme pubbliche di unione non
monogama – a volte chiamate “poliamore” – stanno crescendo in Occidente,
oltre a quelle più riservate o segrete che sono state comuni nel corso della
storia.
3. Ma queste ragioni sono subordinate alla prima, perché, ben intesa, la
monogamia non è semplicemente l’opposto della poligamia. È molto di più, e
il suo approfondimento permette di concepire il matrimonio in tutta la sua
ricchezza e fecondità. La questione è intimamente legata al fine unitivo
della sessualità, che non si riduce a garantire la procreazione, ma aiuta
l’arricchimento e il rafforzamento dell’unione unica ed esclusiva e del
sentimento di appartenenza reciproca.
4. Come sancisce lo stesso
Codice di Diritto Canonico: «le proprietà essenziali del matrimonio
sono l’unità e l’indissolubilità»[4].
Altrove, lo stesso afferma che il matrimonio è «un vincolo di sua natura
perpetuo ed esclusivo»[5].
È da rilevare l’esistenza di un’abbondante bibliografia sull’indissolubilità
dell’unione coniugale nella letteratura cattolica: questo tema ha avuto
molto più spazio nel Magistero, in particolare nel recente insegnamento di
molti Vescovi di fronte alla legalizzazione del divorzio in vari Paesi.
Sull’unità del matrimonio – il matrimonio inteso, cioè, come unione unica ed
esclusiva tra un solo uomo e una sola donna – si trova, al contrario, uno
sviluppo di riflessione meno ampio rispetto al tema dell’indissolubilità sia
nel Magistero che nei manuali dedicati all’argomento.
5. Per questo motivo, nel presente testo si è scelto di concentrarsi
sulla proprietà dell’unità e sul suo riflesso esistenziale:
la
comunione intima e totalizzante tra i coniugi. Per non attendere,
dunque, da questa Nota qualcosa che essa non intende sviluppare, è
necessario insistere sul fatto che, nelle pagine che seguono, essa non si
occuperà dell’indissolubilità coniugale – un’unione che dura nel tempo fino
a quando la morte non separi i coniugi cristiani – né del fine della
procreazione: entrambi i temi sono abbondantemente trattati nella teologia e
nel Magistero. La Nota si soffermerà solo sulla prima proprietà
essenziale del matrimonio, l’unità, che può essere definita come l’unione
unica ed esclusiva tra una sola donna e un solo uomo o, in altre parole,
come l’appartenenza reciproca dei due, che non può essere condivisa con
altri.
6. Questa proprietà è così essenziale e primaria che il matrimonio è
spesso definito semplicemente come “unione”. Così, la Summa Theologiae
di San Tommaso d’Aquino afferma che «il matrimonio è l’unione (coniunctio) maritale
dell’uomo con la donna, contratta da persone legittime, che implica
un’inscindibile comunionedi vita»[6],
e che «è evidente che nel matrimonio esiste un’unione per la quale uno si
dice marito e l’altra moglie; e tale unione è il matrimonio»[7].
Una definizione simile si trovava già in Giustiniano, che raccoglieva
opinioni preesistenti: «è l’unione (coniunctio) dell’uomo e della
donna che contiene un’inscindibile comunione di vita»[8]. Più
vicino a noi, Dietrich von Hildebrand sostiene che il matrimonio «è l’unione
più profonda ed intima fra persone umane»[9].
7. Già in queste definizioni classiche vediamo che l’unità dei due
coniugi, come dato oggettivo fondante e proprietà essenziale di ogni
matrimonio, è chiamata a una costante espressione e sviluppo come “comunione
di vita”, cioè come amicizia coniugale, aiuto reciproco, condivisione totale
che, con l’aiuto della grazia, rappresenta sempre più un’altra unione che la
trascende e la ingloba: l’unione tra Cristo e la sua sposa amata, la Chiesa,
il Popolo di Dio per il quale Egli ha dato il proprio sangue (cf. Ef
5, 25-32).
8.
San Giovanni Paolo II collega intimamente questi due aspetti. Infatti,
se «in forza del patto d’amore coniugale, l’uomo e la donna “non sono più
due, ma una carne sola” (Mt 19,6; cf. Gen 2,24)», allo stesso
tempo «sono chiamati a crescere continuamente nella loro comunione […]
affinché ogni giorno progrediscano verso una sempre più ricca unione
tra loro a tutti i livelli»[10].
9. In questa Nota, pertanto, verranno approfondite sia l’unità
come proprietà essenziale, realtà oggettiva e costitutiva del matrimonio,
caratteristica prima e fondante di ogni sua manifestazione, sia le
differenti espressioni di quella medesima unità che arricchiscono e
rafforzano l’alleanza coniugale, rendendo così possibile allo stesso tempo
la percezione di questa unità non come un riflesso monolitico dell’unità
divina, ma come espressione dell’unico Dio che è comunione nelle relazioni
trinitarie.
10. Ci si augura, infine, che questa Nota sul valore
della monogamia, destinata anzitutto ai Vescovi, riferita a un tema così
importante, e allo stesso tempo molto bello, possa essere di aiuto alle
coppie già sposate, ai fidanzati e ai giovani che pensano a una futura
unione al fine di cogliere ancora meglio la ricchezza della proposta
cristiana sul matrimonio. È vero che, per molti, un tale messaggio potrà
suonare strano o controcorrente, ma possiamo applicare ad esso le seguenti
parole di Sant’Agostino: «Dammi un cuore che ama, e capirà ciò che dico»[11]. Del resto, una vera e propria passione per la bellezza dell’amore coniugale ha
trovato espressione nella dedizione di tanti credenti, uomini e donne, chierici
e laici, singolarmente o in aggregazioni ecclesiali, che hanno accompagnato
molte coppie nel loro cammino di vita e hanno anche sviluppato una spiritualità
e una pastorale del matrimonio. Per tutti questi luminosi esempi non si può che
esprimere un doveroso ringraziamento.
II. La monogamia nella Bibbia
11. «Non sono più due, ma una sola carne» (Mc 10,8). Questa
dichiarazione di Gesù riguardo al matrimonio traduce la bellezza dell’amore,
un cemento che «dà solidità a questa comunità di vita, e lo slancio che la
trascina verso una pienezza sempre più perfetta»[12].
Istituito “al principio” già al momento della Creazione, il matrimonio
appare come un patto coniugale voluto da Dio, quale «sacramento del Creatore
dell’universo, iscritto quindi proprio nell’essere umano stesso, che è
orientato verso questo cammino, nel quale l’uomo abbandona i genitori e si
unisce alla sua donna per formare una sola carne, perché i due diventino
un’unica esistenza»[13]. Anche
se «è noto che la storia dell’Antico Testamento è teatro della sistematica
defezione dalla monogamia»[14],
viste ad esempio le vicende dei Patriarchi dove si legge, secondo l’usanza
del tempo, di personaggi con più mogli (cf. 2 Sam 3,2-5; 11,2-27;
15,16; 1 Re 11,3), allo stesso tempo molti passi dell’Antico
Testamento celebrano l’amore monogamico e l’unione esclusiva: «Siano pure
sessanta le mogli del re, ottanta le concubine, innumerevoli le ragazze! Ma
unica è la mia colomba, il mio tutto» (Ct 6,8-9a). Ciò è attestato
anche dagli esempi di Isacco (cf. Gen 25,19-28), Giuseppe (cf. Gen
41,50), Rut (cf. Rt 2-4), Ezechiele (cf. Ez 24,15-18) e Tobia
(cf. Tb 8,5-8). D’altra parte, se dal punto di vista fattuale e
normativo la monogamia non ha solide basi nell’Antico Testamento, invece i
suoi fondamenti teologici si sviluppano in profondità, e questa è la via
feconda che verrà percorsa nelle seguenti riflessioni[15].
La monogamia nel
capitolo 2 della Genesi
12. Alla radice del modello monogamico, il capitolo 2 del libro della
Genesi si presenta come un vero e proprio manifesto antropologico posto all’incipit
delle Scritture. Esso descrive il progetto che il Creatore propone come
ideale alla libertà della creatura umana. L’esclamazione divina: «non è bene
che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto (‘ēzer) che gli
corrisponda» (Gen 2,18), mette chiaramente in luce il bisogno nel
quale si trova l’uomo appena uscito dalle mani di Dio, ossia uno stato di
solitudine-isolamento. Malgrado la presenza degli altri esseri viventi,
l’uomo vuole un aiuto che gli corrisponda (cf. Gen 2,20), un alleato
vivo, unico e personale, che egli possa fissare negli occhi, come suggerisce
la parola keneḡdô, tradotta di solito con “simile”
o “corrispondente”, per mettere in evidenza la necessità di un incontro
dialogico di sguardi e di volti. Infatti, «l’espressione originale ebraica
ci rimanda a una relazione diretta, quasi “frontale” – gli occhi negli occhi
– in un dialogo anche tacito, perché nell’amore i silenzi sono spesso più
eloquenti delle parole. È l’incontro con un volto, un “tu” che riflette
l’amore divino ed è “il primo dei beni, un aiuto adatto a lui e una colonna
d’appoggio” (Sir 36,26), come dice un saggio biblico»[16].
L’uomo cerca dunque un volto insostituibile davanti a sé, un “tu”, con il
quale intrecciare un vero rapporto d’amore fatto di donazione e di
reciprocità.
13. Nel suo commento a questo brano della Genesi,
Benedetto XVI afferma: «La prima novità della fede biblica consiste […]
nell’immagine di Dio; la seconda, con essa essenzialmente connessa, la
troviamo nell’immagine dell’uomo. Il racconto biblico della Creazione parla
della solitudine del primo uomo, Adamo, al quale Dio vuole affiancare un
aiuto. Fra tutte le creature, nessuna può essere per l’uomo quell’aiuto di
cui ha bisogno, sebbene a tutte le bestie selvatiche e a tutti gli uccelli
egli abbia dato un nome, integrandoli così nel contesto della sua vita.
Allora, da una costola dell’uomo, Dio plasma la donna. Ora Adamo trova
l’aiuto di cui ha bisogno: “Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso
dalle mie ossa” (Gen 2, 23). […] Nel racconto biblico non si parla di
punizione; l’idea però che l’uomo sia in qualche modo incompleto,
costituzionalmente in cammino per trovare nell’altro la parte integrante per
la sua interezza, l’idea cioè che egli solo nella comunione con l’altro
sesso possa diventare “completo”, è senz’altro presente»[17].
14. La conclusione del racconto biblico: «l’uomo lascerà suo padre e sua
madre e si unirà (dāḇaq) a sua moglie e i due saranno un’unica
carne» (Gen 2,24), esprime bene questo bisogno di una intima
unione, un tale attaccamento fisico e interiore tale, che il Salmista lo
adotta per descrivere l’unione mistica con Dio: «A te si stringe (dāḇaq)
l’anima mia» (Sal 63,8; cf. 1Cor 6,16-17). Come afferma Papa
Francesco, «il verbo “unirsi” nell’originale ebraico indica una stretta
sintonia, un’adesione fisica e interiore, fino al punto che si utilizza per
descrivere l’unione con Dio: “A te si stringe l’anima mia” (Sal 63,8),
canta l’orante. Si evoca così l’unione matrimoniale non solamente nella sua
dimensione sessuale e corporea, ma anche nella sua donazione volontaria
d’amore. Il frutto di questa unione è “diventare un’unica carne”, sia
nell’abbraccio fisico, sia nell’unione dei due cuori e della vita e, forse,
nel figlio che nascerà dai due, il quale porterà in sé, unendole sia
geneticamente sia spiritualmente, le due “carni”»[18].
Con la formula “una caro”, la donazione reciproca e totale della
coppia diventa un rapporto esclusivo e integrale. Pertanto, con il termine
suggestivo di ’iššāh applicato alla donna (cf.
Gen 2,23),
l’autore sacro ha voluto ricordare che queste due persone costituiscono una
coppia, uguali nella loro dignità radicale, ma differenti nella loro
identità individuale. La pienezza dell’unione tra esseri umani
è in
questa uguaglianza fatta di reciprocità necessaria, dialogica e
complementare. In definitiva, secondo il progetto originale del Creatore, al
quale lo stesso Gesù fa riferimento utilizzando l’espressione “in principio”
nel commento sull’indissolubilità nuziale (cf. Mt 19,4), l’uomo e la
donna sono chiamati nel matrimonio a una relazione unica, personale, piena e
duratura, ad un’alleanza esclusiva di vita e d’amore, prioritaria rispetto
allo stesso legame sociale di sangue (cf. Gen 2,24). In questa chiave
di lettura, l’applicazione della metafora nuziale alla relazione di Dio
con Israele, che emerge con tutta la sua forza nei testi profetici, apre
un orizzonte ancora più ricco alla comprensione della vita degli sposi nella
linea di una mutua appartenenza.
Il simbolismo nuziale
profetico
15. Nei Profeti, le categorie dell’amore coniugale imprimono tratti
particolari alla comprensione dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, non più
modulata secondo il canone dei patti tra il re e i principi vassalli.
16. Emerge qui, in modo emblematico, la vicenda personale del profeta
Osea (VIII sec. a. C.), la quale viene assunta a paradigma teologico per
rileggere la storia d’amore tra il Signore e Israele (cfr. Os
2,4-25). Malgrado il tradimento subito dalla moglie Gomer, egli non riesce a
spegnere il suo amore per lei e nutre piuttosto la speranza che ella,
abbandonata e delusa dai suoi amanti, “ritorni” sulla strada di casa al fine
di ricomporre in pienezza la relazione d’amore, essendo quella donna l’unica
della sua vita, perdonandole i tradimenti (cf. Os 2,16-17).
17. Questa trasposizione nuziale simbolica della fedeltà divina
continuerà nella tradizione profetica, con accenti diversi: Ezechiele
racconta come Dio si preoccupa del suo popolo, come un uomo che stende il
suo mantello su una donna (cf. Ez 16,8). Da una parte, tale gesto
indica il patto coniugale nel quale si offre protezione alla consorte;
dall’altra, esso mira a proteggere la donna dallo sguardo degli altri,
evocando quindi l’esclusività del legame.
18. Il profeta Malachia condanna la rottura dei legami matrimoniali tra i
membri d’Israele e il risposarsi con donne pagane: «perché io detesto il
ripudio, dice il Signore, Dio di Israele, e chi copre d’iniquità la propria
veste, dice il Signore degli eserciti» (Mal 2,16). Questo passo ha
avuto anche un’altra interpretazione detta “cultuale” o “tipologica”, come
se si riferisse a un’unica perversione (l’idolatria), ponendo un
parallelismo implicito tra profanare l’alleanza con Dio e ingannare il
coniuge (l’adulterio).
19. In definitiva, l’amore coniugale permette davvero di descrivere una
dialettica di alleanza fra Israele e il Signore, fra l’umanità e Dio. L’idea
di Dio come unico sposo di Israele è collegata anche a quella di Israele come
unica sposa. L’unicità dell’amato traspare anche nel tema dell’elezione che
fa d’Israele l’unico popolo scelto (cf. Am 3,2). L’alleanza assume
dunque un’ulteriore dimensione in quanto designa il legame tra Dio e il suo
popolo, basato su un legame monogamico tanto reale, che l’adorazione di un
altro dio costituisce un adulterio.
20.
San Giovanni Paolo II offre, al riguardo, una bella sintesi: «In molti
testi la monogamia appare l’unica e giusta analogia del monoteismo inteso
nelle categorie dell’Alleanza, cioè della fedeltà e dell’affidamento
all’unico e vero Dio-Jahvè: Sposo di Israele. L’adulterio è l’antitesi di
quella relazione sponsale, è l’antinomia del matrimonio (anche come
istituzione) in quanto il matrimonio monogamico attua in sé l’alleanza
interpersonale dell’uomo e della donna, realizza l’alleanza nata dall’amore
e accolta dalle due rispettive parti appunto come matrimonio (e, come tale,
riconosciuto dalla società). Questo genere di alleanza tra due persone
costituisce il fondamento di quell’unione per cui “l’uomo... si unirà a sua
moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2,24)»[19].
La letteratura sapienziale
21. Nella medesima linea si iscrive tutta la letteratura sapienziale che
elogia l’unione monogamica come la vera espressione dell’amore tra un uomo e
una donna. Il passo del Cantico dei Cantici: «Il mio amato è mio e io
sono sua» (Ct 2,16), rappresenta qui un vero apice. In questo
gioiello poetico, la donna del Cantico esprime il suo amore, usando il
simbolo del sigillo che nell’antico Vicino Oriente designava una persona, la
identificava e si portava o su un bracciale o con una catena sul petto:
«Ponimi come sigillo sul tuo cuore e sul tuo braccio. Forte come la morte è
l’amore» (8,6). L’amata, quindi, dichiara di essere quasi la “carta
d’identità” del suo uomo: l’uno non esiste senza l’altra e viceversa.
Intelligenza, volontà, affetto, azione, personalità intera dell’una si
comunicano nell’altro in modo reciproco ed esclusivo, in piena
simbiosi. Contro questa unità vitale invano si erge la morte.
22. Inoltre, l’affermazione ribadita ben due volte nel Cantico dei
Cantici: «Il mio amato è mio e io sono sua […]. Io sono del mio amato e
il mio amato è mio» (Ct 2,16; 6,3), esprime questa unità di donazione
totale, di reciprocità e di mutua appartenenza, come una riedizione della
dichiarazione d’amore rivolta dall’uomo alla sua donna in Gen 2,23:
«osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne».
23. La tradizione giudaica e quella cristiana (soprattutto nella mistica)
si sono trovate concordi nell’interpretare il Cantico dei Cantici
come un’allegoria dell’alleanza fra Dio e Israele, della relazione fra Dio e
l’anima. In senso simbolico, si può affermare che il libro del Cantico
dei Cantici esalta l’amore di un uomo e di una donna ponendo l’accento
proprio sull’unicità di una relazione esclusiva. Nella vicenda amorosa, i
due innamorati si cercano e si desiderano con una reciprocità in cui non vi
è spazio per un tertium. Ebbene, questo dato antropologico
fondamentale rimanda alla professione di fede d’Israele: «ascolta Israele:
il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore» (Dt 6,4). Si tratta
di una delle proclamazioni più solenni dell’Antico Testamento a proposito di
Dio ed è una proclamazione che usa il linguaggio dell’unicità allorché
professa la verità della fede. In altre parole, il Cantico afferma
che, al cuore pulsante di una delle più profonde esperienze antropologiche,
quale è la relazione amorosa, vi è un’unicità analoga a quella che la fede
proclama a proposito di Dio. Pertanto, la monogamia è profondamente
collegata all’unicità e all’esclusività del Dio d’Israele e va di pari passo
con il monoteismo.
24. A tale riguardo,
Benedetto XVI afferma: «Dio si è servito della via dell’amore per
rivelare il mistero intimo della sua vita trinitaria. Inoltre, il rapporto
stretto che esiste tra l’immagine di Dio Amore e l’amore umano ci permette
di capire che “all’immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio
monogamico. Il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa
l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare
di Dio diventa la misura dell’amore umano”. Questa indicazione resta ancora
in gran parte da esplorare»[20].
25. La duplice formula: «Il mio amato è mio e io sono sua […] Io sono del
mio amato e il mio amato è mio» (Ct 2,16; 6,3), richiama dunque la
formula teologica dell’alleanza tra Dio e l’Israele biblico: “Il Signore è
tuo Dio e tu sei il suo popolo” (cf. Dt 7,6), e permette di accedere
alla categoria teologica dell’alleanza quale impegno reciproco di fedeltà.
La categoria biblica dell’alleanza consente, infine, di delineare la santità
del matrimonio tra marito e moglie nella sua espressione di vera comunità di
vita e di amore attraverso una mutua ed esclusiva donazione. Tutto ciò
diverrà pienamente evidente nei testi del Nuovo Testamento[21].
La simbologia
nuziale del Nuovo Testamento
26. Nel Vangelo Gesù rimanda in modo esplicito “al principio”, cioè alle
origini della prima coppia umana (cf. Gen 1,27; 2,24), per ribadire
che l’amore monogamico, fedele e indissolubile esalta il rapporto di coppia,
pensato dal Creatore in una dimensione di totalità e di esclusività (cf.
Mt 19,3-9).
27. Nelle narrazioni evangeliche di Marco e di Matteo, Gesù si è espresso
in modo inequivocabile sulla monogamia richiamandosi alle origini, alla
volontà del Creatore. Il dibattito con i farisei sulla possibilità del
divorzio gli offre l’opportunità di un pronunciamento autorevole. Egli
ribadisce il principio della monogamia che sta al fondamento del progetto di
Dio sulla famiglia: «dall’inizio della creazione li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà
suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne
sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto» (Mc 10, 6-9; cf.
Mt 19, 4-6). Come base della sua
affermazione, Gesù unisce due elementi esegetici di peso: «li fece maschio e femmina» (Gen
1,27) e «per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua
moglie e [i due] diventeranno una sola carne» (Gen 2,24). Il primo
uomo e la prima donna sono dunque uniti da Dio stesso nella coppia in
un’unica carne. In altre parole, Gesù restituisce validità al progetto
originario di Dio, andando al di là della norma data da Mosè e richiamandone
una più antica, sottolineando allo stesso tempo una presenza divina nella
radice stessa di questa relazione: «Ciò che Dio ha congiunto l’uomo non lo
divida» (Mt 19,6).
28. Inoltre, il Nuovo Testamento, sulla scia della teologia profetica,
introduce a più riprese la simbologia nuziale nelle tematiche cristologiche
ed ecclesiologiche (cf. Ap 19,7-9): Cristo è chiamato dal Battista lo
“sposo” per eccellenza (cf. Gv 3,29), mentre la sposa dell’Agnello è
la nuova Gerusalemme (cf. Ap 21,1ss.), madre feconda, salvata
dall’assalto del drago (cf. Ap 12,3-6).
29. San Paolo sviluppa in modo sistematico il tema dell’amore nuziale
pieno e perfetto tra Cristo e la Chiesa nella Lettera agli Efesini (cf.
Ef 5,21-33), riprendendo tra l’altro il passo della Genesi
sull’essere “una sola carne” da parte della coppia (cf. Gen 2,24).
L’amore monogamico indissolubile tra i due coniugi – sempre nella linea del
tema sviluppato dai profeti per definire l’alleanza tra il Signore e Israele
– si rivela come il simbolo per descrivere il vincolo tra Cristo e la
Chiesa. Il matrimonio cristiano nella sua autenticità e pienezza è, dunque,
segno della nuova alleanza cristiana.
30. Merita attenzione anche la formula del “mistero grande”, quale
traduzione dell’originale greco mysterion. Questo fu reso da San
Girolamo, nella Vulgata, col termine sacramentum, il quale ha
permesso alla tradizione ecclesiale di assumere la formula paolina come
esplicita proclamazione della sacramentalità del matrimonio. Il passo nella
sua integralità esalta in modo intenso la funzione teologica svolta
dall’amore nuziale esclusivo. I due coniugi che si uniscono
indissolubilmente sono un segno che rimanda all’abbraccio col quale Cristo
stringe a sé la Chiesa. Gli sposi cristiani, dunque, testimoniano nel mondo
non solo un legame umano, eros e agape, ma sono anche
l’“immagine” vivente di un vincolo sacro e trascendente, cioè quello che
unisce Cristo con la comunità dei cristiani. Già nella Genesi si definiva
“immagine” del Dio creatore la coppia che ama e genera: «Dio creò l’uomo a
sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Gen
1,27).
31. L’Apostolo, evocando soprattutto il passo della Genesi in cui i due,
l’uomo e la donna, formano una carne sola (cf. Gen 2,24), definisce
l’intimità d’amore tra marito e moglie come un emblema luminoso della
comunione di vita e di carità che intercorre tra Cristo e la Chiesa (cf.
Ef 5,32). Attraverso questa pagina della Lettera agli Efesini, così
fragrante nella sua umanità ma anche così densa nella sua qualità teologica,
Paolo non si limita a proporre un modello di comportamento matrimoniale
cristiano, ma indica nell’unione perfetta e unica tra Cristo e la Chiesa la
sorgente originaria del matrimonio monogamico. Esso non è solo un’immagine
di quella unione, ma la riproduce e incarna attraverso l’amore dei coniugi.
È segno efficace ed espressivo della grazia e dell’amore che sostanzia
l’unione tra Cristo e la Chiesa.
32. Da ultimo, troviamo una bella esortazione nella Lettera agli Ebrei.
Dopo l’appello alla carità (cf. Eb 13,1-3), l’Autore tratta
brevemente del matrimonio, raccomandando la stima verso tale legame e il
rispetto della fedeltà coniugale: «Il matrimonio sia rispettato da tutti e
il letto nuziale sia senza macchia»[22]
(Eb 13,4). L’Autore esorta a tenere in onore l’istituto matrimoniale,
sottolineando il valore dei rapporti coniugali fedeli. Si aggiunge un
solenne avvertimento: Dio giudicherà i fornicatori e gli adùlteri, ossia
coloro che non rispettano la santità e l’unicità del
matrimonio. L’esortazione alla stima del matrimonio e del letto coniugale era
storicamente motivata dal fatto che varie tendenze ascetiche denigravano
tale istituto e lo vedevano come un compromesso con la materia, riprendendo
a modo loro quanto espresso in Col 2,20-23. L’esortazione, invece,
non è rivolta contro i rapporti sessuali, ma contro quanti negavano la
fedeltà dei coniugi e l’unicità del matrimonio.
III. Echi della
Scrittura nella storia
33. La Parola rivelata contenuta nelle Sacre Scritture ha prodotto, nei
lunghi tempi della Chiesa, diversi echi che tenteremo di raccogliere almeno
in parte.
Alcune
riflessioni di teologi cristiani
34. È utile accogliere la ricchezza del pensiero cristiano lungo i
secoli, a partire dai Padri della Chiesa, con la loro particolare
importanza, fino a teologi di diverse scuole e orientamenti.
Primi sviluppi sull’unità e la comunione matrimoniale nei Padri della Chiesa
35. San Giovanni Crisostomo riconosce all’unità matrimoniale un valore
particolare. A differenza di altri Padri, sostiene che «un tempo il
matrimonio aveva due motivi, ora ne ha uno solo». Egli spiega, infatti, che
San Paolo (cf. 1Cor 7, 2.5.9) «ordina di unirsi, non perché diventino
padri di molti figli», ma perché ciò porta i coniugi a «l’abolizione della
dissolutezza e del desiderio sfrenato»[23].
In definitiva, il santo Dottore considera che l’unità del matrimonio, con la
scelta di una sola persona alla quale ci si unisce, porta a liberare le
persone da uno sfogo sessuale sfrenato, senza amore né fedeltà, e orienta
adeguatamente la sessualità.
36. Sant’Agostino, pur sottolineando soprattutto l’importanza della
procreazione, sottolinea innanzitutto il bene dell’unità che si esprime
nella fedeltà: «La fedeltà esige di non aver rapporti sessuali con un altro
o con un’altra»[24]. Agostino
ha saputo anche esprimere la bellezza dell’unità coniugale come un bene in
sé stesso, descritta dinamicamente come un camminare insieme, “fianco a
fianco”: «Il primo naturale legame della società umana è quello fra uomo e
donna. E Dio non produsse neppure ciascuno dei due separatamente,
congiungendoli poi come stranieri, ma creò l’una dall’altro, e il fianco
dell’uomo, da cui la donna è stata estratta e formata, sta ad indicare la
forza della loro congiunzione. Fianco a fianco infatti si uniscono coloro
che camminano insieme e che insieme guardano alla stessa meta»[25].
37. Già prima di Agostino, è ben nota la lode di Tertulliano al
matrimonio inteso come unità nella carne e nello spirito di due che
camminano “in una sola speranza”: «Come sarò capace di esporre la felicità
di quel matrimonio che la Chiesa unisce […]. Quale giogo quello di due
fedeli uniti in una sola speranza, in un’unica osservanza, in un’unica
servitù! Sono tutti e due fratelli e tutti e due servono insieme; non vi è
nessuna divisione quanto allo spirito e quanto alla carne. Anzi sono
veramente due in una sola carne, e dove la carne è unica, unico è lo
spirito»[26].
38. Questo fatto di essere “una sola carne” è interpretato dai Padri in
modo intensamente realistico, al tal punto che, di fronte a contraddizioni
nei fatti della realtà dell’unità coniugale, essi non temono di pronunciare
affermazioni come le seguenti: «divide la sua carne, divide il suo corpo»[27];
«come la malvagità di tagliare la sua carne»[28];
«Dio non ha voluto che il corpo fosse diviso e disgiunto»[29].
39. Ad ogni modo, bisogna ricordare che la Chiesa latina sottolinea
particolarmente gli aspetti giuridici del matrimonio, che hanno portato alla
bella convinzione che gli stessi sposi sono ministri del Sacramento[30].
Con il loro consenso, essi danno origine all’unione matrimoniale unica ed
esclusiva, dato oggettivo prima di qualsiasi esperienza o sentimento, anche
spirituale. I Padri orientali, e le Chiese orientali, enfatizzano
maggiormente gli aspetti teologici, mistici ed ecclesiali di un’unione che,
grazie alla benedizione della Chiesa, si arricchisce nel tempo sotto
l’impulso della grazia, mentre la comunione tra i coniugi è sempre più
integrata nella comunione ecclesiale. Ecco perché in Oriente il rito del
matrimonio, con tutti i suoi segni, la preghiera e i gesti del sacerdote, è
stato maggiormente valorizzato. Già San Giovanni Crisostomo parla
dell’incoronazione degli sposi (stephánōma) compiuta dal sacerdote e
ne spiega il significato mistagogico: «Per questo motivo vengono poste delle
corone sulle loro teste, come simbolo di vittoria, poiché, essendo rimasti
imbattuti, giungono al letto matrimoniale»[31].
40. Al tempo
stesso, in Oriente prevale una visione più positiva dell’aspetto
relazionale, che si esprime anche nell’unione sessuale nel matrimonio, senza
ridurne la finalità alla sola procreazione. Ciò è testimoniato, ad esempio,
quando San Clemente Alessandrino prende fortemente le distanze da coloro che
considerano il matrimonio un peccato, anche quando lo tollerano al fine di
garantire il prolungamento della specie. Egli invece ribadisce: «Se è
peccato il matrimonio secondo la Legge, non so come uno possa dire di
conoscere Dio quando afferma che il comando di Dio è peccato! No, se “santa è
la Legge”, santo è il matrimonio»[32].
Per San Giovanni Crisostomo, inoltre, il matrimonio «non è da ritenersi una
compravendita, ma una comunione di vita»[33],
e sottolinea che la continenza esagerata nel matrimonio poteva mettere a
rischio l’unità matrimoniale.
41. L’unità e la comunione coniugale come riflesso dell’unione tra Cristo
e la Chiesa (cf. Ef 5,28-30) è un tema particolarmente sviluppato dai
Padri orientali, e San Gregorio Nazianzeno ne trae concrete conseguenze
spirituali: «È bello per la donna rispettare Cristo attraverso il marito, ed
è bello per l’uomo non disprezzare la Chiesa attraverso la moglie […]. Ma
che anche il marito abbia cura della moglie: e, infatti, Cristo ha cura
della Chiesa»[34].
Alcuni autori medievali e
moderni
42. Nel pensiero di San Bonaventura sul matrimonio, sostanzialmente
omogeneo a quello di San Tommaso, di cui si dirà più avanti, possiamo
individuare una riflessione, nel quadro di una visione teologale, che
include la necessità della consumazione perché il matrimonio possa
significare pienamente l’unione tra noi e Cristo: «Poiché il consenso, in
quanto consenso sull’agire futuro, non è propriamente consenso, bensì
promessa di esso; e poiché il consenso, invero, prima dell’unione carnale
non produce una unione piena, dato che non sono ancora una sola carne, ne
consegue che attraverso le parole sul futuro si dice che il matrimonio ha
avuto inizio, è ratificato con parole riferite al presente, ma consumato
nell’unione carnale, perché allora sono una sola carne e diventano un solo
corpo; e con ciò viene significata pienamente quell’unione che è tra noi e
Cristo. Allora, infatti, pienamente il corpo di uno è dato al corpo
dell’altro»[35].
43. È utile ricordare anche il pensiero teologico-pastorale di
Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, che presenta l’unione e il mutuo dono degli
sposi in un modo integrale (ivi inclusi i rapporti sessuali), presentandoli
come fini intrinseci essenziali, mentre considera la procreazione
come fine intrinseco ma accidentale. Pertanto, egli sostiene che «si
possono considerare tre fini nel matrimonio: fini intrinseci
essenziali, intrinseci accidentali, e fini accidentali estrinseci. I fini intrinseci essenziali sono due: il dono reciproco con l’obbligo di
soddisfare il debito [cioè i rapporti sessuali], e il vincolo indissolubile.
I fini intrinseci accidentali sono egualmente due: la generazione
della prole, e il rimedio della concupiscenza»[36].
44. Sant’Alfonso si riferisce pure a dei fini estrinseci, come il
piacere, la bellezza e tanti altri, che sono leciti[37].
In questo modo, il santo Dottore della Chiesa tenta di arricchire la visione
sul matrimonio per poter sviluppare un approccio pastorale che aiuti i
coniugi a vivere la loro unione in un modo più ricco e stimolante. È
permesso desiderare il matrimonio anche in base all’attrazione particolare
per qualcuno di questi fini estrinseci, perché, sempre che non si escludano
i fini principali, ciò «non è un disordine»[38].
45. Più vicino ai nostri tempi, il teologo e filosofo personalista
Dietrich von Hildebrand riprende l’enfasi sulla centralità dell’amore nel
matrimonio data dall’insegnamento di Papa
Pio XI,
al fine di approfondire la comprensione delle proprietà e dei significati
del matrimonio stesso[39].
Rispetto all’argomento in questione, egli distingue due forme di unione che
si completano a vicenda e arricchiscono l’approccio iniziale di questo
documento: la prima forma di unione si esprime con il pronome “noi”, la
seconda con la coppia “io-tu”. Nell’“io-tu” i due si trovano faccia a
faccia, si danno l’uno all’altra, in modo tale che «l’altra persona agisce
interamente come un soggetto, mai come un mero oggetto»[40].
Ciò comporta anche il passaggio dalla considerazione dell’altro come un
“lui”, a una che arriva a riconoscerlo come un “tu”. Invece, quando l’unione
è considerata come un “noi”, l’altro è con me, è al mio fianco, camminando
insieme motivati dalle cose comuni che ci uniscono[41].
L’unione coniugale vive di entrambe le esperienze.
46. Nell’unione matrimoniale von Hildebrand evidenzia due atteggiamenti
irrinunciabili. Il primo è la “discretio”, cioè uno spazio di
intimità personale che preserva l’identità e la libertà di ciascuno, ma che
può essere condiviso con una decisione del tutto libera, e in questo caso
conduce a un approfondimento del legame. Il secondo atteggiamento è la
“riverenza” per l’altro, che manifesta, in particolare nell’unione sessuale,
il fatto che si ama una persona, sacra e inviolabile, non un oggetto
qualsiasi. Il dinamismo interno del vincolo matrimoniale – il “noi”, secondo
le categorie di von Hildebrand – spinge i coniugi a manifestare sempre di
più la loro intima comunione personale.
47. Questa visione è condivisa anche da Alice von Hildebrand, nata
Jourdain, moglie di Dietrich. In particolare, ella sostiene che la
realizzazione piena dell’umanità si può raggiungere solo nell’unione
tra uomo e donna, la “divina invenzione”: «non solo Lui [Dio] ha fatto
l’uomo composto di anima e corpo – una realtà spirituale e una materiale –
ma, oltre a ciò, per coronare questa complessità, “maschio e femmina li ha
creati”. Chiaramente, la pienezza della natura umana si trova nell’unione
perfetta tra uomo e donna»[42].
Pertanto, l’amore sponsale tra uomo e donna è ritenuto dalla filosofa e
teologa belga come l’apice della vocazione umana, la suprema espressione
dell’immagine divina quale chiamata al dono di sé nell’amore, dove la
tenerezza dell’affetto tra i due riveste un ruolo fondamentale, voluto dallo
stesso Creatore: «Il cuore è il centro della persona»[43],
avverte la von Hildebrand, di fronte a certe tentazioni di anteporre il fare
dell’attivismo alla ricettività dell’amore, inteso proprio in senso
affettivo. Ella, poi, aggiunge che «dove la tenerezza regna, la
concupiscenza si allontana»[44].
48. Il carattere di donazione totale dell’amore sponsale si può vedere
anche in quella che lei connota come una vera e propria dimensione
“sacrificale” dell’amore – con un richiamo evidente all’amore “fino alla
fine” di Cristo – che consiste nel mettere il bene dell’altro davanti al
proprio, in quella che si può chiamare una “morte” a se stessi, che in
alcune occasioni può portare a rinunciare addirittura alle gioie della vita
familiare per amore di un bene più grande: «Ciò che molti “amanti”
dimenticano, sia che si parli di amici o di marito e moglie, è che il
sacrificio è la linfa di grandi amori. Che il sacrificio sia la santa
vitamina dell’amore si applica anche al matrimonio, che offre ai coniugi
innumerevoli occasioni di morire a se stessi»[45].
In altre parole, ciò significa che l’amore sponsale mostra la sua fecondità,
a un tempo umana e spirituale, quando resta aperto alle esigenze più alte
della carità[46].
Lo
sviluppo della visione teologale nei tempi recenti
49. Hans Urs von Balthasar assegna un’importanza particolare al consenso
matrimoniale che crea quell’unità nuova che trascende i due individui: «Il
convenire delle due persone così spossessate di sé è possibile solo in un
terzo elemento, quello che […] è quel fattore oggettivo che si compone delle
loro due libertà: il loro voto, la loro solenne promessa, in cui ciascuno dà
l’assenso definitivo alla libertà dell’altro e al suo mistero e si consegna
a questo mistero. È realtà che si deve chiamare oggettiva solo perché è più
del giustapporsi delle loro due soggettività […] la loro volontà fattasi una
(d’appartenersi l’un l’altro), che si pone al di sopra di loro e in mezzo a
loro, perché nessuno dei due può rivendicare a sé l’unità che è sorta»[47].
50. Questo patto, dove ognuno dei due trascende sé stesso e si arrende di
fronte alla nuova realtà che si crea, in nessun modo è una negazione di loro
stessi come individui liberi: è, invece, una pienezza di libertà che si
compie nel donarsi in modo totale a un’altra persona: «l’evento del donarsi
in possesso reciproco, il quale si compie solo sotto la volta stesa su di
loro dallo Spirito d’amore che li guida e li ispira, è tutto fuorché
un’alienazione di sé da parte del singolo. Questi non attinge sé stesso se
non in virtù dell’appello dell’altra libertà, che gli dà la capacità di
risolvere, di decidere la propria, e questa risoluzione diviene matura,
‘maggiorenne’, proprio quando egli non continua a riprendersi con
esitazione, ma concentra sé stesso, si raccoglie, per donarsi una volta per
tutte»[48].
51. Questo Autore contempla in un modo particolare e teologicamente
profondo come questa unità matrimoniale riflette l’unione tra Cristo e la
sua Chiesa: «L’unità di misura dell’amore matrimoniale diventa l’amore fra
Cristo e la sua Chiesa […]. L’unità originaria consiste in questo, che la
Chiesa nasce da Cristo come Eva da Adamo: scaturita dal fianco squarciato
del Signore dormiente in croce all’ombra della morte e degli inferi. Per
questo essa è suo corpo, come Eva era carne della carne di Adamo. In questo
sonno mortale della Passione egli “ha formato per sé la Chiesa, come sposa
meravigliosa senza ruga e senza macchia” (Ef 5,24-27). Egli stesso si
lascia come uomo cadere nel sonno della morte, in modo da potere, come Dio,
prelevare misteriosamente dal morto quella fecondità dalla quale egli si
creerà la sua sposa, la Chiesa. Così essa è lui stesso, e tuttavia non è lui
stesso: è suo corpo e sua sposa. “Chi ama sua moglie, ama sé stesso. Nessuno
ha mai odiato la sua propria carne; la si protegge e la si cura. Così fa
anche Cristo con la sua Chiesa, poiché noi siamo membra del suo corpo” (Ef
5,28-30)»[49].
52. Una tale visione cristologica e pneumatologica ha delle conseguenze
concrete sull’esperienza matrimoniale: «Se torniamo a gettare uno sguardo
sulla dedizione reciproca degli sposi, ciò mostra chiaro ancora una volta
che la legge comune del loro amore (in senso cristologico) scaturisce tanto
dall’atteggiamento loro proprio di un volontario darsi in possesso, e quindi
non è una legge imposta dall’esterno, come realmente s’eleva, superando
entrambi, quale terza entità feconda, creativa (in senso pneumatologico) e
li ispira agli atti della loro dedizione»[50].
53. Anche Karl Rahner pensa l’unità matrimoniale come espressione
dell’amore tra Cristo e la Chiesa, ma non come se Cristo e la Chiesa fossero
uguali uno di fronte all’altra, dato che l’amore con cui Cristo ama la
Chiesa ha la sua origine nella «volontà misericordiosa di Dio di
comunicarsi»[51]. Da questa
volontà, come causa, scaturisce il primo effetto che è l’unità
Cristo-Chiesa. Alla fine l’amore, come si esprime nella vita degli sposi,
approda alla sua origine in Dio stesso[52].
È utile soffermarci su due testi di Rahner sufficientemente eloquenti. Il
primo: «Nell’amore realmente personale, vi è implicito qualcosa di
incondizionato che rimanda al di là e al di sopra della causalità
dell’incontro degli amanti: essi, quando amano realmente, crescono
continuamente al di sopra di sé stessi, approdano ad un flusso che non ha
più il suo punto d’arrivo nel finito e nel determinabile. Ciò che giace in
una lontananza infinita, che viene tacitamente evocato in un tale amore,
alla fin fine lo si può chiamare con un solo nome: Dio»[53].
E il secondo testo: «Il matrimonio e il legame tra Dio e l’umanità in Cristo
non solo possono venir confrontati tra loro da noi, ma piuttosto essi
sono oggettivamente in un rapporto reciproco tale che il matrimonio
rappresenta oggettivamente questo amore che Dio ha in Cristo per la Chiesa,
la relazione e il comportamento di Cristo con la Chiesa prefigura la
relazione e il comportamento che vige nel matrimonio, e in questo trova il
suo completamento, cosicché comprende in sé il matrimonio come un momento di
sé»[54].
54. Lo sguardo cristologico-trinitario circa l’unità matrimoniale è stato
poi fortemente e poeticamente sottolineato da diversi autori ortodossi
contemporanei. Ne riportiamo tre esempi:
55. A partire dalla propria visione mistica, il teologo ortodosso
Alexander Schmemann afferma: «In un matrimonio cristiano, infatti, sono tre
le persone sposate; e la lealtà unita dei due verso il terzo, che è Dio,
mantiene i due in un’unità attiva tra loro e con Dio. Tuttavia, è proprio la
presenza di Dio che segna la fine del matrimonio come qualcosa di puramente
“naturale”. È la croce di Cristo che pone fine all’autosufficienza della
natura. Ma “con la croce, la gioia è entrata nel mondo intero”. La sua
presenza è quindi la vera gioia del matrimonio»[55].
56. Un’altra bella testimonianza si trova nelle parole che seguono, del
filosofo e teologo russo Pavel Evdokimov: «L’unità consustanziale del
matrimonio costituisce l’unità di due persone che si collocano in Dio […].
Quindi la struttura trinitaria iniziale è: uomo-donna nello Spirito Santo.
La realizzazione effettiva della loro unità nel matrimonio (dove il marito,
secondo Paolo, è immagine di Cristo e la moglie è immagine della chiesa)
diventa equivalente coniugale dell’unità Cristo-Spirito»[56].
57. Infine, merita di essere citato un passaggio illuminato del teologo
John Meyendorff: «Un cristiano è chiamato – già in questo mondo – a
sperimentare una vita nuova, a diventare cittadino del Regno, e può farlo
nel matrimonio […]. È una singolare unione di due esseri innamorati, due
esseri che possono trascendere la propria umanità ed essere così uniti non
solo “l’uno con l’altro”, ma anche “in Cristo”»[57].
58. Gli autori orientali del nostro tempo insistono pure sull’aspetto
relazionale alla luce della Trinità. Il teologo greco, Ioannis Zizioulas,
afferma che «la persona è alterità nella comunione e comunione
nell’alterità. La Persona è un’identità che emerge attraverso la relazione (schesis,
nella terminologia dei Padri greci); è un “io” che può esistere solo finché
si relaziona ad un “tu” che afferma la sua esistenza e la sua alterità. […]
[L’“io”] non può semplicemente essere senza l’altro. Si tratta di ciò che
distingue la persona dall’individuo»[58].
Nel contesto di questa particolare valutazione orientale della relazione,
che è in ultima analisi un riflesso della comunione trinitaria, un altro
teologo e filosofo greco, Christos Yannaras, mostra come la vita coniugale
debba essere compresa nel quadro più ampio delle relazioni nella comunità
ecclesiale, che permette di intendere la sessualità come una relazione
personale trasfigurata dalla grazia trinitaria: «La relazione e la
conoscenza tra i coniugi diventano eventi ecclesiali, si attuano non solo
per mezzo della natura ma anche per mezzo della Chiesa […] nell’ambito delle
relazioni che tengono insieme la Chiesa come immagine del modello
trinitario»[59]. E
immediatamente spiega che «ciò non significa ‘spiritualizzazione’ del
matrimonio e svalutazione della relazione naturale, ma trasformazione
dinamica dell’impulso naturale in evento di comunione personale, secondo il
modo nel quale la Chiesa attua la comunione, cioè come grazia-dono gratuito
di alterità e libertà personali»[60].
Interventi magisteriali
Primi interventi
59. Fino a
Leone XIII, gli interventi riferiti alla monogamia sono stati
pochi ed essenziali. È da menzionare un intervento breve ma importante di
Innocenzo III nell’anno 1201, nel quale si riferisce ai pagani che «dividono
l’affetto coniugale con più donne nello stesso tempo», e con riferimento
alla Genesi afferma che è contrario alla fede cristiana, «dato che dal
principio una sola costola fu trasformata in una sola donna»[61].
Di seguito, si rifà alla Scrittura (cf. Ef 5,31; Gen 2,24;
Mt 19,5) per sottolineare che si dice che «saranno due in una carne
sola» (duo in carne una) e che l’uomo si unirà “alla moglie”, non
“alle mogli”. Da ultimo, interpreta la proibizione dell’adulterio (cf.
Mt
19,9; Mc 10,11) come riferita al matrimonio monogamico[62].
60. Il Secondo Concilio di Lione sostiene nuovamente che si «tiene per
fermo che non è permesso a un uomo di avere contemporaneamente più mogli, né
a una donna di avere più maschi»[63].
Il Concilio di Trento deriva il senso della monogamia dal fatto che Cristo
Signore insegnò più apertamente che con questo vincolo due sole persone si
vengono strettamente a congiungere, quando disse: “Non sono dunque più due,
ma una sola carne”[64]. Nel
secolo XVIII,
Benedetto XIV, prendendo in considerazione la situazione dei
matrimoni clandestini, ribadisce che «nessuno dei due può, finché l’altro
sarà in vita, passare ad altre nozze»[65].
Leone XIII
61. A proposito del tema della monogamia, nell’insegnamento di
Leone XIII
ritorna l’argomentazione centrale circa il fatto che i coniugi costituiscono
“una sola carne”: «Ciò vediamo dichiarato e solennemente ratificato dal
Vangelo con la divina autorità di Gesù Cristo, il quale proclamò ai Giudei
ed agli Apostoli che il matrimonio, per la sua stessa istituzione, deve
essere solamente tra due, ossia tra un uomo e una donna; che dei due
si forma come una sola carne»[66].
62. Nella sua riflessione, la difesa della monogamia costituisce
ugualmente una difesa della dignità delle donne, che non può essere negata o
disonorata nemmeno per il desiderio della procreazione. L’unità del
matrimonio implica dunque una scelta libera della donna, che ha il diritto
di esigere una reciprocità esclusiva: «Nulla vi era di più miserando della
moglie, abbassata a tanta viltà che quasi veniva considerata soltanto come
uno strumento destinato a soddisfare alla libidine od a procreare figli. Né
arrossì per il fatto che quelle che erano da collocare per mogli fossero
comprate e vendute a somiglianza delle cose corporali, essendo stata data
talvolta facoltà al padre o al marito di condannare la moglie all’estremo
supplizio»[67].
63. Il matrimonio monogamo è l’espressione di una reciproca ed esclusiva
ricerca del bene dell’altro: «È necessario cioè che essi abbiano sempre
l’animo talmente disposto da comprendere l’uno dovere all’altro un amore
grandissimo, una fede costante, un sollecito e continuo aiuto»[68].
Questa realtà di essere “una sola carne” acquisisce con Cristo una nuova e
preziosa motivazione e giunge alla sua pienezza nel Sacramento del
matrimonio: «Si aggiunga che il matrimonio è Sacramento proprio per questo:
che è un segno sacro, che produce la grazia e rende immagine delle mistiche
nozze di Cristo con la Chiesa. La forma poi e la figura di queste vengono
espresse da quello stesso vincolo di perfetta unione con il quale l’uomo e
la donna si congiungono tra loro, e che non è altro se non il matrimonio
medesimo»[69].
Pio XI
64. Papa
Pio XI
offre uno sviluppo maggiore della dottrina sull’unità matrimoniale
nell’Enciclica
Casti connubii. Egli sottolinea il valore della «vicendevole fedeltà
dei coniugi nell’adempimento del contratto matrimoniale; sicché quanto
compete per questo contratto sancito secondo la legge divina al solo
coniuge, né a lui sia negato, né permesso ad una terza persona». E conclude:
«Questa fede pertanto richiede in primo luogo l’unità assoluta del
matrimonio, che il Creatore stesso adombrò nel matrimonio dei primi
genitori, volendo che esso non fosse se non fra un uomo solo e una sola
donna»[70].
65. Il Pontefice arricchisce quindi l’insegnamento sull’unità del
matrimonio, proponendo una inedita riflessione sull’amore coniugale,
«che pervade i doveri tutti della vita coniugale e nel matrimonio cristiano
tiene come il primato della nobiltà»[71].
E ciò che di più nobile può trovarsi in un matrimonio è l’amore coniugale
soprattutto quando raggiunge per grazia il livello soprannaturale della
carità. Come conseguenza, l’unione matrimoniale diventa un cammino di
crescita spirituale: «Non comprende solo il vicendevole aiuto, ma deve
estendersi altresì, anzi mirare soprattutto a questo: che i coniugi si
aiutino fra di loro per una sempre migliore formazione e perfezione
interiore, in modo che nella loro vicendevole unione di vita crescano sempre
più nelle virtù, massimamente nella sincera carità verso Dio e verso il
prossimo […]. Una tale vicendevole formazione interna dei coniugi, con
l’assiduo impegno di perfezionarsi a vicenda, in un certo senso verissimo
[…] si può dire anche primaria causa e motivo del matrimonio»[72].
Questo “allargamento” del senso del matrimonio, che supera il senso stretto,
predominante fino a quel momento, di istituzione ordinata alla procreazione
e alla retta educazione della prole, ha aperto il cammino per un
approfondimento del senso unitivo del matrimonio e della sessualità.
66. Si può anche ricordare come ai suoi tempi Papa
Pio XI
si sente spinto a evidenziare quelle tendenze contrarie alla monogamia che
oggi sono divenute molto più comuni: «Corrompono dunque anzitutto la fedeltà
coloro che stimano doversi essere indulgenti verso le idee e i costumi del
nostro tempo, intorno alla falsa e dannosa amicizia con terze persone, e
sostengono doversi in queste relazioni estranee consentire ai coniugi una
certa maggior licenza di pensare e di operare, e ciò tanto più che (come
vanno dicendo) non pochi hanno una congenita costituzione sessuale, a cui
non possono soddisfare tra gli angusti confini del matrimonio monogamico.
Quindi quella disposizione d’animo, per la quale gli onesti coniugi
condannano e ricusano ogni affetto ed atto libidinoso con terza persona,
essi la stimano un’antiquata debolezza di mente e di cuore o un’abbietta e
vile gelosia; perciò dicono nulle o da annullare le leggi penali dello Stato
intorno all’obbligo della fede coniugale»[73].
I tempi del Concilio Vaticano II
67. Sulla via aperta da
Casti connubi, il Concilio Vaticano II presenta il matrimonio
innanzitutto come un’opera di Dio che consiste in una comunione d’amore e di
vita che i due coniugi condividono, comunione che non è orientata solo alla
procreazione, ma anche al bene integrale di entrambi. Il matrimonio viene
definito come «intima comunione di vita e di amore coniugale»[74].
Nel matrimonio, l’uomo e la donna, che per l’alleanza coniugale «“non sono
più due, ma una sola carne” (Mt 19,6), prestandosi un mutuo aiuto e
servizio con l’intima unione delle persone e delle attività, sperimentano
il senso della propria unità e sempre più pienamente la conseguono.
Questa intima unione, in quanto mutua donazione di due persone, come pure il
bene dei figli, esigono la piena fedeltà dei coniugi e ne reclamano
l’indissolubile unità»[75].
68. Cristo stesso «viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il
sacramento del matrimonio. Inoltre rimane con loro perché, come egli stesso
ha amato la Chiesa e si è dato per essa, così anche i coniugi possano amarsi
l’un l’altro fedelmente, per sempre, con mutua dedizione. L’autentico amore
coniugale è assunto nell’amore divino ed è sostenuto e arricchito dalla
forza redentiva del Cristo e dalla azione salvifica della Chiesa»[76].
In questo modo, è possibile vivere l’amore coniugale: «essendo diretto da
persona a persona con un sentimento che nasce dalla volontà, quell’amore
abbraccia il bene di tutta la persona; perciò ha la possibilità di
arricchire di particolare dignità le espressioni del corpo e della vita
psichica e di nobilitarle come elementi e segni speciali dell’amicizia
coniugale. Il Signore si è degnato di sanare, perfezionare ed elevare questo
amore con uno speciale dono di grazia e carità. Un tale amore, unendo
assieme valori umani e divini, conduce gli sposi al libero e mutuo dono di
sé stessi, che si esprime mediante sentimenti e gesti di tenerezza e pervade
tutta quanta la vita dei coniugi»[77].
Gli atti sessuali nel matrimonio, «compiuti in modo veramente umano,
favoriscono la mutua donazione che essi significano ed arricchiscono
vicendevolmente nella gioia e nella gratitudine gli sposi stessi»[78].
69. Il Concilio si riferisce esplicitamente all’unità matrimoniale per
esprimere che essa, «confermata dal Signore, appare in maniera lampante
anche dalla uguale dignità personale che bisogna riconoscere sia all’uomo
che alla donna nel mutuo e pieno amore»[79].
La difesa dell’unità matrimoniale nel Concilio si basa così su due punti
fermi: da una parte, il Concilio ribadisce che l’unione matrimoniale è
totalizzante, «pervade tutta quanta la vita dei coniugi»[80],e
di conseguenza è possibile solamente tra due persone; dall’altra, sottolinea
che un tale amore corrisponde all’uguale dignità di ognuno dei due coniugi,
i quali, nel caso di un’unione “plurale”, si troverebbero nella situazione
di dover condividere con altri ciò che dev’essere intimo ed esclusivo,
diventando quindi come oggetti, in una relazione che svilisce la propria
dignità personale[81].
70.
San Paolo VI, terminato il Concilio e riprendendo le sue riflessioni sul
matrimonio, esprime una profonda preoccupazione in merito ai temi del
matrimonio e della famiglia. Anche se nell’Humanae
vitae egli desidera sottolineare il significato procreativo del
matrimonio e degli atti sessuali, allo stesso tempo vuole mostrare che quel
significato è inseparabile dall’altro: quello unitivo. Infatti, egli afferma
che «per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce
profondamente gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite»[82].
In questo contesto, riafferma il valore della reciprocità e dell’esclusività
che richiama la comunione d’amore e il perfezionamento vicendevole[83].
C’è una «connessione inscindibile» tra i due significati degli atti
sessuali: «Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e
procreativo, l’atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e
vero amore e l’ordinamento all’altissima vocazione dell’uomo nella
paternità»[84]. Per cui, se
diciamo che il significato unitivo è inscindibile dalla procreazione,
dobbiamo dire allo stesso tempo che la ricerca della procreazione è
inscindibile dal significato unitivo, come ha chiarito successivamente
San Giovanni Paolo II: «la donazione fisica totale sarebbe menzogna, se
non fosse segno e frutto della donazione personale totale»[85].
San Giovanni Paolo II
71.
San Giovanni Paolo II si serve del riferimento di Cristo “al principio”
per introdurre, nella riflessione sul rapporto sponsale, l’ermeneutica
del dono[86]. Nella
Creazione si rivela l’autodonazione di Dio e la Creazione stessa costituisce
il dono fondamentale e originario. L’essere umano è l’unica creatura che può
ricevere il mondo creato come dono e che può, allo stesso tempo, in quanto
immagine di Dio, fare della propria vita un dono. È in questa logica che il
significato sponsale del corpo umano, nella sua mascolinità e femminilità,
rivela che l’essere umano è stato creato per donarsi all’altro e che solo in
questo dono di sé porta a compimento il vero significato del suo
essere e della sua esistenza[87].
72. In questo orizzonte, nella sua esposizione della concezione cristiana
della monogamia,
San Giovanni Paolo II sostiene l’origine semitica e non occidentale dei
suoi fondamenti più profondi, affermando che «appare come l’espressione
della relazione interpersonale, quella in cui ciascuno dei due partner è
riconosciuto dall’altro in uguale valore e nella totalità della sua persona.
Questa concezione monogamica e personalistica della coppia umana è una
rivelazione assolutamente originale, che porta il marchio di Dio, e che
merita di essere sempre più approfondita»[88].
73. Il santo Pontefice deve però riconoscere che «tutta la tradizione
dell’Antica Alleanza indica che alla coscienza delle generazioni
susseguitesi nel popolo eletto, al loro ethos non è giunta mai
l’esigenza effettiva della monogamia […] non si intende invece l’adulterio
come appare dal punto di vita della monogamia stabilita dal Creatore»[89].
Per questa ragione, egli si sforza di leggere l’Antico Testamento non dal
punto di vista normativo, ma dal punto di vista teologico, e lo fa partendo
da due capisaldi. Il primo è la volontà di Cristo di tornare al principio[90],
all’origine della Creazione, quando la coppia originale era monogama, nel
senso dei “due in una sola carne”: «Dio fece l’uomo a sua somiglianza
creandolo maschio e femmina. Ecco che cosa sorprende subito all’inizio.
L’umanità, per somigliare a Dio, deve essere una coppia di due persone che
si muovono l’una verso l’altra»[91].
L’altro punto di riferimento è la riflessione dei profeti sull’amore
esclusivo tra Dio e il suo popolo, per la quale «denunciano sovente
l’abbandono del vero Dio Jahvè da parte del popolo, paragonandolo
all’adulterio […]. L’adulterio è peccato perché costituisce la rottura
dell’alleanza personale dell’uomo e della donna […]. In molti testi la
monogamia appare l’unica e giusta analogia del monoteismo inteso nelle
categorie dell’Alleanza, cioè della fedeltà e dell’affidamento all’unico e
vero Dio-Jahvè: Sposo di Israele. L’adulterio è l’antitesi di quella
relazione sponsale, è l’antinomia del matrimonio»[92].
74. Seguendo questa linea di pensiero,
San Giovanni Paolo II sostiene che questa unione non esprime la volontà
originaria di Dio sulla monogamia se l’altra persona, anche se l’unione è
esclusiva, diventa solamente un oggetto usato per appagare i propri
desideri: «All’unione o “comunione” personale, cui l’uomo e la donna sono
reciprocamente chiamati “dal principio”, non corrisponde, anzi è in
contrasto la eventuale circostanza che una delle due persone esista solo
come soggetto di appagamento del bisogno sessuale, e l’altra divenga
esclusivamente oggetto di tale soddisfazione. Inoltre, non corrisponde a
tale unità di “comunione” – anzi la contrasta – il caso che entrambi, l’uomo
e la donna, esistano vicendevolmente quale oggetto di appagamento del
bisogno sessuale, e ciascuna da parte sua sia soltanto soggetto di
quell’appagamento. Tale “riduzione” di un così ricco contenuto della
reciproca e perenne attrazione delle persone umane […] spegne il significato
personale e “di comunione”, proprio dell’uomo e della donna»[93].
75. Il dono dello «Spirito Santo effuso nella celebrazione sacramentale
offre agli sposi cristiani il dono di una comunione nuova d’amore che è
immagine viva e reale di quella singolarissima unità, che fa della Chiesa
l’indivisibile Corpo mistico del Signore Gesù […] stimolante impulso
affinché ogni giorno progrediscano verso una sempre più ricca unione tra
loro a tutti i livelli – dei corpi dei caratteri, dei cuori, delle
intelligenze, e delle volontà, delle anime»[94].
Benedetto XVI
76.
Benedetto XVI riprende questo insegnamento, quando ricorda, richiamando
anche lui il racconto della Creazione, che «l’eros è come radicato nella
natura stessa dell’uomo; Adamo è in ricerca e “abbandona suo padre e sua
madre” per trovare la donna; solo nel loro insieme rappresentano l’interezza
dell’umanità, diventano “una sola carne”. Non meno importante è il secondo
aspetto: in un orientamento fondato nella creazione, l’eros rimanda l’uomo
al matrimonio, a un legame caratterizzato da unicità e definitività; così, e
solo così, si realizza la sua intima destinazione»[95].
77.
Benedetto XVI inoltre ha insegnato che il matrimonio non fa che
raccogliere e portare a compimento quella forza dirompente che è l’amore, il
quale, nella sua dinamica di esclusività e definitività, non vuole
mortificare la libertà umana, ma, al contrario, apre la vita nientemeno che
a un orizzonte di eternità: «Fa parte degli sviluppi dell’amore verso
livelli più alti, verso le sue intime purificazioni, che esso cerchi ora la
definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso dell’esclusività – “solo
quest’unica persona” – e nel senso del “per sempre”»[96].
Francesco
78. Papa
Francesco ci ha fatto dono di una riflessione originale e radicata
nell’esperienza concreta su diversi aspetti dell’unione esclusiva degli
sposi nel quarto capitolo dell’Esortazione apostolica
Amoris laetitia, dove si può trovare una descrizione dettagliata
dell’amore coniugale nelle sue diverse manifestazioni, avendo come punto di
partenza 1Cor 13, 4-7. Innanzitutto la pazienza, senza la quale
«avremo sempre delle scuse per rispondere con ira, e alla fine diventeremo
persone che non sanno convivere, antisociali incapaci di dominare gli
impulsi»[97]; poi la
benevolenza, il “fare il bene” come «reazione dinamica e creativa nei
confronti degli altri»[98];
quindi l’amabilità, perché chi ha imparato a amare «detesta far soffrire gli
altri»[99] ed «è capace di dire
parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano,
che stimolano»[100]. L’amore
implica anche un certo “distacco di sé stessi”, per donarsi gratuitamente
fino a dare la vita[101]. Di
conseguenza, l’amore è capace di superare la violenza interiore verso i
difetti altrui, che «ci mette sulla difensiva davanti agli altri» e «finisce
per isolarci»[102]. A tutto
ciò si aggiunge il perdono, che «presuppone l’esperienza di essere perdonati
da Dio»[103], la capacità di
rallegrarsi con gli altri, in modo che «chiunque faccia qualcosa di buono
nella vita, sa che lì lo festeggeranno insieme a lui»[104];
e la fiducia, perché l’amore «lascia in libertà, rinuncia a controllare
tutto, a possedere, a dominare»[105].
L’amore infine spera per l’altro, «spera sempre che sia possibile una
maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza, che le potenzialità del
suo essere germoglino un giorno»[106].
79. Papa
Francesco ci aiuta così a “incarnare” quella che è la “carità
coniugale”. Allo stesso tempo, con sano realismo, egli avverte circa il
pericolo di idealizzare l’unione matrimoniale con deduzioni non adeguate,
come se i misteri teologici dovessero trovare una perfetta corrispondenza
nella vita di coppia, e quest’ultima dovesse essere perfetta in ogni
circostanza. In realtà, così si creerebbe un costante senso di colpa nei
coniugi più fragili, che lottano e fanno del proprio meglio per mantenere la
loro unione: «Non è bene confondere piani differenti: non si deve gettare
sopra due persone limitate il tremendo peso di dover riprodurre in maniera
perfetta l’unione che esiste tra Cristo e la sua Chiesa, perché il
matrimonio come segno implica “un processo dinamico, che avanza gradualmente
con la progressiva integrazione dei doni di Dio”»[107].
Invece, bisogna valutare positivamente tutte le fatiche, i momenti dolorosi,
le sfide che hanno sorpreso e destabilizzato i coniugi, i cambiamenti della
persona amata, e anche le sconfitte poi superate, come parte di un cammino
dove lo Spirito Santo opera come vuole, perché così, «dopo aver sofferto e
combattuto uniti, i coniugi possono sperimentare che ne è valsa la pena,
perché hanno ottenuto qualcosa di buono, hanno imparato qualcosa insieme, o
perché possono apprezzare maggiormente quello che hanno. Poche gioie umane
sono tanto profonde e festose come quando due persone che si amano hanno
conquistato insieme qualcosa che è loro costato un grande sforzo condiviso»[108].
Leone XIV
80. Tra i primi interventi di Papa
Leone XIV, in
riferimento al tema di questa Nota, si può prendere in considerazione
quanto egli esprime nel
messaggio per la commemorazione del 10° anniversario
della canonizzazione dei coniugi Louis e Zélie Martin, genitori di Santa
Teresa di Gesù Bambino. In tale occasione, il Santo Padre si riferisce al
«modello di coppia che la Santa Chiesa presenta ai giovani» come a
«un’avventura così bella: un modello di fedeltà e di attenzione all’altro,
un modello di fervore e di perseveranza nella fede, di educazione cristiana
dei figli, di generosità nell’esercizio della carità e della giustizia
sociale; un modello anche di fiducia nella prova»[109].
81. In verità, lo stesso motto di Papa
Leone XIV, «In
illo uno, unum» («in Colui che è Uno, siamo uno»), desunto da un brano
di Sant’Agostino[110],
potrebbe essere applicato alla vita di coppia, suggerendo che «essere una
cosa sola» è possibile e realizzabile pienamente in Dio. In tal senso,
l’unità matrimoniale trova il suo fondamento e la sua completezza nella
relazione con Dio. In occasione del Giubileo delle famiglie, dei nonni e
degli anziani, Papa Leone XIV, rivolgendosi direttamente agli sposi, ha ribadito che «il
matrimonio non è un ideale, ma il canone del vero amore tra l’uomo e la
donna: amore totale, fedele, fecondo […]. Mentre vi trasforma in una carne
sola, questo stesso amore vi rende capaci, a immagine di Dio, di donare la
vita»[111].
*
82. Il
Codice di Diritto Canonico si riferisce al «patto matrimoniale con
cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita,
per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione e educazione
della prole», e ricorda che «tra i battezzati è stato elevato da Cristo
Signore alla dignità di sacramento»[112].
83. Infine, nella sua visione di sintesi, il
Catechismo della Chiesa Cattolica
afferma che: «La poligamia
è contraria a questa pari dignità e all’amore coniugale che è unico ed
esclusivo»[113]. Inoltre,
«l’amore coniugale esige dagli sposi, per sua stessa natura, una fedeltà
inviolabile. È questa la conseguenza del dono di sé stessi che gli sposi si
fanno l’uno all’altro»[114].
Per tale motivo, «l’adulterio è un’ingiustizia. Chi lo commette viene meno
agli impegni assunti. Ferisce quel segno dell’Alleanza che è il vincolo
matrimoniale, lede il diritto dell’altro coniuge e attenta all’istituto del
matrimonio, violando il contratto che lo fonda. Compromette il bene della
generazione umana e dei figli, i quali hanno bisogno dell’unione stabile dei
genitori»[115]. Ciò non
esclude che si possa comprendere «il dramma di chi, desideroso di
convertirsi al Vangelo, si vede obbligato a ripudiare una o più donne con
cui ha condiviso anni di vita coniugale. Tuttavia, la poligamia è in
contrasto con la legge morale. Contraddice radicalmente la comunione
coniugale»[116].
IV.
Alcuni sguardi dalla filosofia e dalle culture
Nel pensiero cristiano
classico
84. In San Tommaso d’Aquino possiamo trovare un pensiero filosofico
cristiano, diventato classico, sui fondamenti della monogamia. Nel Libro
terzo della Summa contra Gentiles, la sua concezione appare
soprattutto sotto il profilo filosofico, con ragionamenti tratti dalla
teologia naturale e dalle sue conoscenze della biologia dell’epoca. La
relazione sponsale è presentata così come un legame di ordine naturale, una
«società dell’uomo (e) della donna»[117]
o una forma di «vincolo sociale (socialis coniunctio)»[118],
insita nella natura umana, che unisce l’uomo e la donna.
85. San Tommaso sostiene che la monogamia deriva essenzialmente
dall’istinto naturale, essendo iscritta nella natura di ogni essere umano;
questo ambito prescinde dunque dalle esigenze della fede. Infatti,
«l’uomo […], desidera per natura di essere certo della sua
prole, la quale certezza sarebbe del tutto eliminata, se più uomini avessero
una sola donna. Dunque deriva dall’istinto naturale che si abbia una sola
donna per un solo uomo»[119].
Tale unione, che consolida l’equilibro reciproco tra l’uomo e la donna, è
retta da «una equità naturale». Non c’è dunque spazio né per qualche forma
di poliandria, né per la poligamia che, tra l’altro, l’Aquinate definisce
come una forma di schiavitù: «È evidente inoltre che il dissolversi della
società suddetta è incompatibile con l’equità […]. Se uno quindi prendendo
una donna nel tempo della giovinezza, quando essa presenta bellezza e
fecondità, potesse lasciarla in seguito quando è invecchiata, farebbe un
torto alla donna contro l’equità naturale […]. D’altra parte se l’uomo
potesse abbandonare la moglie, non si avrebbe tra l’uomo e la donna una
società tra uguali, ma una schiavitù da parte della donna»[120].
86. Inoltre, l’equità nell’amore stabilisce una sostanziale parità tra
gli sposi, cioè una fondamentale uguaglianza tra l’uomo e la donna:
«L’amicizia consiste in una certa uguaglianza. Perciò se alla donna non
fosse concesso di avere più mariti, per non compromettere la certezza della
prole, mentre al marito fosse lecito avere più mogli, l’amicizia tra l’uomo
e la donna non sarebbe liberale ma quasi servile. E l’argomento viene
comprovato dall’esperienza: poiché presso gli uomini che hanno più mogli,
queste sono tenute quasi come schiave. “Un’amicizia intensa non è possibile
verso molte persone”, come spiega il Filosofo. Se la moglie quindi avesse un
unico marito, però il marito avesse più mogli, l’amicizia non sarebbe uguale
da entrambe le parti»[121].
87. La fedeltà matrimoniale ha, quindi, come fondamento quel massimo
grado di amicizia che si stabilisce fra l’uomo e la donna. Questa amicizia
al sommo grado (maxima amicitia), quale amore di benevolenza (amor
benevolentiae), diverso dal solo amore di concupiscenza (amor
concupiscentiae) che è orientato piuttosto al proprio vantaggio, spinge
ad uno scambio intimo e totale tra pari, nel quale ogni partner si dà senza
riserve, cercando il bene dell’altro: «L’amicizia quanto più è grande, tanto
più è ferma e duratura. Ora, tra marito e moglie, c’è un’amicizia
grandissima (maxima amicitia): poiché essi si uniscono non solo per
la copula carnale, che anche tra le bestie stabilisce una certa soave
società, ma per la comunanza di tutta la vita domestica; cosicché per
esprimere questo, l’uomo per la moglie “lascia anche il padre e la madre”,
come è detto nella Genesi (2,24)»[122].
Comunione di due persone
88. Nel secolo XX alcuni filosofi cristiani sottolineano una visione del
matrimonio come unione tra persone o comunione di vita. Nel contesto del
pensiero tomista classico, Antonin-Dalmace Sertillanges presenta il
matrimonio come unione di due persone, che non può mai intendersi
come una specie di fusione o distruzione di se stessi per costituire
un’unità superiore, e neppure quale puro mezzo di procreazione per il bene
della specie: «L’uomo, proprio perché è persona, e cioè un
fine in sé,
l’uomo che vale di per sé indipendentemente dalla specie, cercherà nella sua
unione, insieme col bene della specie, anche il suo bene proprio. Se dunque
l’uomo e la donna fondano una vita cementata dall’amore, questa vita si
svilupperà in due centri come un’elisse in due fuochi […] senza che nessuno
sia sacrificato»[123].
89. Coerente con questo pensiero, Sertillanges mostra che nel matrimonio
persino la ricerca di un bene per sé stesso costituisce un modo di prendere
sul serio l’altra persona, aprendo per essa la possibilità di essere feconda
grazie al suo coniuge: «Certamente è meglio dare che ricevere, dicevamo; ma
anche il ricevere è un dare. O mio cuore, ricevi, perché l’amico trovi in te
la testimonianza di ciò che egli dona. Sii felice, perché l’amico possa
dire: io porto dunque felicità!»[124].
In questo modo, «nell’unione coniugale le due vite si arricchiscono tanto
meglio quanto più la loro associazione è destinata a diventare più stretta e
i loro mutui contributi sono destinati per natura a complementarsi»[125],
perché «questo amore che fa essere due persone unite ciò che ciascuna di
esse, in sé sola, non poteva essere, è l’arricchimento naturale più
decisivo»[126]. In questo
modo, la comunione matrimoniale implica una «duplice preferenza che
s’incrocia a formare il più forte dei nodi, e fa di ciascuno dei due
contemporaneamente il più amante e il più amato, e fa conseguire a ciascuno
quello che gli è dovuto proprio mentre lo procura all’altro; felicità di
essere uno in due»[127].
Una persona
interamente riferita a un’altra
90. A questo punto, è utile collegare tre autori che hanno approfondito
sempre di più una linea di pensiero sull’unità matrimoniale. Il primo è
Søren Kierkegaard. È sua convinzione che la persona realizza sé stessa
quando è capace di uscire da sé, rendendo così possibile l’amore e l’unione:
«L’amore è abbandono, ma l’abbandono è possibile solo grazie al fatto che io
esca da me stesso»[128],
accettando il rischio e l’imprevedibilità. Soltanto così diventa possibile
quella decisione di appartenere pienamente a una sola persona, con tutti i
rischi che possa comportare questa decisione: «ci vuole un passo che sia
decisivo, e dunque a tal fine ci vuole del coraggio, e nondimeno l’amore
matrimoniale precipita in un nulla quando ciò non ha luogo, perché è
unicamente grazie a ciò che si mostra di non amare sé stessi ma l’altro. E
in che modo si dovrebbe mostrare se non grazie al fatto che si è solo per un
altro?»[129]. Di conseguenza,
sostiene il filosofo danese, «si è avveduto dell’affronto, e dunque di
quanto è sgraziato voler amare con un verso dell’anima ma non con tutta,
ridurre il proprio amore a momento, e però prendere tutto quanto l’amore di
un’altra persona»[130].
91. Così troviamo il fondamento della monogamia proprio nell’idea di
persona, che permette allo stesso tempo di capire il senso della propria
esistenza e di amare quella del coniuge. La chiamata interiore ad
abbandonare se stessi di fronte all’altro diventa in questo modo il
fondamento del «non amare che uno solo»[131].
Lo conferma lo stesso Kierkegaard, quando riconosce che, se c’è un vero
amore che ci fa uscire da noi stessi verso l’altro, «gli amanti sono
intimamente convinti che la loro relazione è un tutto in sé perfetto»[132].
Egli riconosce pure che questa realtà significa per i coniugi una chiamata a
«trasformare l’istante del godimento in una piccola eternità»[133].
Questo implica poi l’azione del volere spirituale ma soprattutto il
riferimento a Dio, senza separare il matrimonio – compreso nella sua
componente di godimento e di sessualità – dall’amore di Dio: «gli amanti
riferiscono il loro amore a Dio» che effettivamente «darà ad esso
un’assoluta impronta di eternità»[134].
92. Da queste fonti si nutre pure il personalismo di Emmanuel Mounier,
che parte dal «valore assoluto della persona umana»[135],
la cui piena realizzazione può avvenire solo nel donarsi, in un processo che
trasfigura tutte le tensioni della personalità[136].
Al contrario, «costituita in società chiusa, la famiglia si fa ad immagine
dell’individuo che le propose il mondo borghese»[137],
e in questo modo costituisce solo la somma di due particolarismi, non
un’unione. Se si capisce la sua vera natura, «gli individui devono
sacrificare ad essa il loro particolarismo […]. Essa è un’avventura da
correre, un impegno da fecondare»[138].
Ma è a condizione di tendervi con ogni loro sforzo. Questa unione
totalizzante è tra due e non ammette rivali.
93. Anch’egli sostenitore del personalismo, Jean Lacroix si ispira più
direttamente a Kierkegaard ed esprime idee simili sotto la figura del riconoscimento reciproco delle due persone (s’avouer l’un à l’autre),
che le apre alla comunione con tutti: «Nel momento in cui si riconoscono
reciprocamente, gli sposi si riconoscono al contempo dinanzi a una realtà
superiore che li trascende […]. La famiglia, infatti, può essere senza
dubbio il luogo, la fonte e l’archetipo di ogni socialità […]. Sarà dunque
l’analisi stessa del riconoscimento a consentirci di discernere ciò che vi è
di autentico e ciò che vi è di illusorio nella concezione della famiglia
intesa come cellula primaria del sociale»[139].
Il riconoscimento dell’altro è «l’atto umano che assume pienamente il
carattere d’intimità e il carattere di socialità», e in questo modo risponde
al desiderio trascendentale dell’amore nel suo senso più ricco[140].
Ma si tratta di riconoscere l’altro «in quanto altro»[141].
In questo modo, la tendenza a lottare contro l’altro «si trasforma in
riconoscimento reciproco»[142].
In questo orizzonte, si capisce che il fondamento del matrimonio «che è
essenzialmente amore, non può essere altro che il riconoscimento integrale –
riconoscimento del corpo, riconoscimento dell’anima, riconoscimento totale
di questo spirito incarnato che è l’uomo concreto»[143].
Perciò, la monogamia emerge chiaramente dall’affermazione che il matrimonio
tra un uomo e una donna è un’«unità superiore» a qualsiasi altra in questa
terra: «l’essere familiare è la più grande realizzazione dell’unità umana»[144].
Faccia a faccia
94. Il filosofo francese Emmanuel Lévinas, con la sua riflessione sul
volto dell’altro, si propone di scoprire la relazione personale sempre come
un “faccia a faccia”. Grazie al volto, che impone sempre il proprio
riconoscimento, l’interiorità personale diventa comunicabile e richiede la
scoperta sempre nuova dell’altro[145].
Il desiderio sessuale, quando si muove all’interno di questa dinamica del
volto dell’altro, può tenere adeguatamente insieme sensibilità e
trascendenza, affermazione di sé e riconoscimento dell’alterità. In questo
faccia a faccia, la carezza agisce come espressione dell’amore che cerca
l’unione ammirando, rispettando e preservando l’alterità: «non è
un’intenzionalità di svelamento ma di ricerca: cammino nell’invisibile»[146].
Il pensiero di Lévinas può essere una via feconda per approfondire il
significato del matrimonio come unione esclusiva: un faccia a faccia che è
possibile solo tra due, e che quando si realizza pienamente rivendica per sé
l’appartenenza reciproca esclusiva, incomunicabile e non trasferibile al di
fuori di quel “noi due”.
95. La poligamia, l’adulterio o il poliamore si fondano sull’illusione
che l’intensità del rapporto possa trovarsi nella successione dei volti.
Come illustra il mito di Don Giovanni, il numero dissolve il nome: disperde
l’unità dello slancio amoroso. Se Lévinas ha mostrato che il volto
dell’altro convoca a una responsabilità infinita, unica e irriducibile,
moltiplicare i volti in una pretesa unione totale significa frammentare il
senso dell’amore matrimoniale.
Il pensiero di Karol Wojtyła
96. Dietro le note catechesi sull’amore offerte da
San Giovanni Paolo II come Pontefice, possiamo trovare la riflessione
filosofica svolta dal giovane Vescovo Karol Wojtyła. Si tratta di una
riflessione che aiuta a capire in profondità il senso dell’unione unica ed
esclusiva del matrimonio.
97. Il giovane pensatore polacco prende molto sul serio il tema oggetto
della presente Nota. Egli spiega che il matrimonio possiede «una
struttura interpersonale: è un’unione e una comunità di due persone»[147].
Questo è il «suo carattere essenziale», «la ragion d’essere interiore e
essenziale del matrimonio» che è «soprattutto di costituire un’unione di due
persone». Questo è il suo «valore integrale» che rimane anche al di là della
procreazione[148].
98. A fondamento di tutto il suo pensiero, si trova quello che lui stesso
chiama il “principio personalista”, che esige di «trattare la persona in
modo corrispondente al suo essere» e non «nella situazione di un oggetto di
godimento, a servizio di un’altra persona»[149]
come succede nella poligamia. L’essere persona implica necessariamente che
«non può mai essere per un’altra oggetto di godimento utilitaristico, ma
soltanto oggetto (più esattamente co-soggetto) d’amore»[150],
perché «non può essere trattata come oggetto di uso, quindi come un mezzo»[151].
99. Il pensiero di Wojtyła consente di capire perché solo la monogamia
garantisce che la sessualità si sviluppi in un quadro di riconoscimento
dell’altro come soggetto con cui si condivide integralmente la vita,
soggetto che è un fine in sé stesso e mai un mezzo per i propri bisogni.
L’unione sessuale, che coinvolge l’intera persona, può trattare l’altro
proprio come persona, cioè come co-soggetto d’amore e non oggetto di uso,
unicamente se si sviluppa nel quadro di un’appartenenza unica ed esclusiva.
In questo caso, coloro che donano sé stessi pienamente e completamente
all’altro possono essere soltanto due. In ogni altro caso, sarebbe un
dono parziale di sé, perché tale dono deve lasciare spazio ad altri, e di
conseguenza tutti sarebbero trattati come mezzi e non come persone. Per
queste ragioni, egli conclude che «la stretta monogamia è una manifestazione
dell’ordine personalistico»[152].
100. Nella stessa opera, Karol Wojtyła allarga la riflessione sulla
monogamia con uno sviluppo originale sulla finalità unitiva della
sessualità, che diventa un’espressione e una maturazione di quel dato
oggettivo che è l’unità matrimoniale come proprietà essenziale del
matrimonio. Per questa ragione, egli nega con forza la tesi rigorista – che
egli considera propria di visioni “manichee” o “ultra spiritualiste” –
secondo la quale «il Creatore si serve dell’uomo e della donna, così come
dei loro rapporti sessuali, per assicurare l’esistenza della specie homo.
Così utilizza le persone come mezzi»[153].
Solo in questo contesto, per quella mentalità, il piacere sessuale
diventerebbe tollerabile. Wojtyła sostiene invece che «non è affatto
incompatibile con la dignità oggettiva delle persone il fatto che il loro
amore coniugale comporti un “godimento” sessuale […]. Esiste una gioia
conforme alla natura della tendenza sessuale e nello stesso tempo alla
dignità delle persone; nel vasto campo dell’amore tra l’uomo e la donna,
essa sgorga dall’azione comune, dalla comprensione reciproca, dall’armonioso
compimento dei fini scelti insieme. Questa gioia, questo frui, può
provenire tanto dal piacere multiforme creato dalla differenza dei sessi
quanto dalla voluttà sessuale che offrono i rapporti coniugali […] a
condizione che il loro amore si sviluppi normalmente a partire dell’impulso
sessuale»[154].
101. Nel suo sforzo di evitare l’estremo rigorista, che in definitiva
esclude la finalità unitiva della sessualità nel matrimonio, Wojtyła spiega
che l’altro può essere veramente amato come persona e allo stesso tempo
essere pienamente desiderato. Queste due cose «differiscono tra loro, ma non
al punto da escludersi» perché «una persona può desiderare un’altra come un
bene per sé stessa, ma può nello stesso tempo desiderare del bene per essa,
indipendentemente del fatto che sia un bene anche per sé»[155].
Riconoscendo l’integralità della persona e dei suoi bisogni, si dovrà pure
ammettere che l’amore reciproco richiede tante altre espressioni, non solo
la sessualità: se «ciò che le due persone apportano nell’amore è unicamente,
o soprattutto, la concupiscenza alla ricerca del godimento e del piacere,
allora la reciprocità verrà privata di quelle caratteristiche»[156]
che offrono stabilità al matrimonio (l’amore virtù, la fiducia, i doni
disinteressati, ecc.).
Più in là
102. Il matrimonio di Jacques e Raïssa Maritain appare come un caso
speciale di comunione intellettuale, culturale e spirituale, che non può
essere presentato come l’unico modello, in quanto le forme di unione
coniugale sono certamente tanto diverse quanto le persone. Il loro caso
speciale ha però molto da dire. Data la meravigliosa esperienza di
condividere con Raïssa una ricerca interiore della verità e soprattutto di
Dio, Jacques relativizza – senza escluderla – l’importanza del desiderio,
della passione e della sessualità: «La verità è questa, secondo me:
anzitutto l’amore come desiderio o passione, e l’amore romantico – o quanto
meno un elemento di esso – dovrebbero, per quanto possibile, essere presenti
nel matrimonio come un primo incentivo, come punto d’avvio […]. In secondo
luogo, il matrimonio, lungi dall’avere come suo scopo precipuo quello di
portare al compimento perfetto l’amore romantico, ha da compiere nei cuori
umani ben altra opera: un’infinitamente più profonda e più misteriosa
operazione di alchimia»[157].
Egli è affascinato da «un’amore veramente disinteressato, che non esclude il
sesso, si capisce, ma che diviene sempre più indipendente dal sesso»[158].
Non si riferisce, in un senso gnostico o giansenista, a un amore spirituale
completamente scollegato dalla corporeità o dalle realtà terrene, perché una
tale interpretazione sarebbe contraria al suo pensiero antropologico, ma
precisamente all’ideale di «una completa ed irrevocabile donazione dell’uno
all’altro, per amore dell’altro. Così è che il matrimonio può essere
un’autentica comunità d’amore tra uomo e donna: qualcosa di costruito non
sulla sabbia, ma sulla roccia»[159].
Questo ideale del pieno dono di sé al coniuge implica «l’ardua disciplina
dell’autosacrificio ed a forza di rinunce e purificazioni [...]. Ciascuno,
in altre parole, può allora rendersi realmente dedito al bene ed alla
salvazione dell’altro»[160].
In questo contesto, egli sottolinea il costante bisogno del perdono:
«preparato e pronto, proprio come un Angelo custode deve essere, a molto
perdonare all’altro: infatti la legge evangelica del reciproco perdono bene
esprime, mi pare, un’esigenza fondamentale»[161].
103. Lo sguardo filosofico di Maritain si
mostra in questo testo completamente trasfigurato da una visione
soprannaturale, dove la potenza dell’amore teologale spinge completamente la
persona che ama al di fuori di se stessa, alla ricerca del bene dell’altro,
fino alla pienezza di questo bene dell’amato che consiste nella sua
salvezza, cioè nella sua unione totale con Dio. Questa visione profondamente
spirituale di Maritain sembra escludere una trattazione filosofica completa
dell’amore matrimoniale che possiamo trovare in altri autori, ma ha il
grande pregio di guidare la nostra riflessione sull’amore monogamico in
un’ascesa rivolta ai valori più alti, dove un tale amore matura in un senso
oblativo, che nel matrimonio prende la forma di un’unione radicale.
Quest’unione ammirevole si manifesta nella preoccupazione sincera e costante
per il bene dell’altro come movimento soprannaturale, e nella ricerca tenera
e generosa della realizzazione piena e totale della persona amata nell’amore
salvifico di Dio.
104. Ad ogni modo, in un testo posteriore
si avverte una maggiore precisione filosofica. Si tratta delle annotazioni
che Maritain sviluppa a partire dal Diario della moglie, pubblicato
dopo la morte di quest’ultima. Sono annotazioni completate dallo stesso
Maritain e pubblicate a parte[162].
Già nelle prime pagine ritorna il tema di quell’amore molto speciale che
arriva a livelli altissimi di generosità e disinteresse. Il filosofo
francese lo chiama «l’amore folle»[163],
perché è un amore «considerato nella sua forma estrema e completamente
assoluta»[164],
caratterizzato «nel potere che esso ha di alienare l’anima da se stessa»[165].
Ma la novità è che, in questo commento al Diario di Raïssa, egli
compie un passo decisivo: integra positivamente la sessualità pure nel
contesto di quell’amore perfettissimo. Partendo dalla natura umana fatta di
spirito e corpo e dalla caratteristica totalizzante dell’amore matrimoniale,
egli giunge ad affermare: «una persona umana può darsi ad un’altra o
estasiarsi in un’altra al punto di fare di questa il suo Tutto, solo se essa
le dà, o è disposta a darle, il suo corpo pur dandole la sua anima»[166].
In questo amore supremo tra due esseri umani, l’unità matrimoniale trova la
sua più preziosa espressione terrena.
Altri sguardi
105. Appare utile qui avere presente anche uno sguardo rivolto
all’Oriente non cristiano. Ci soffermiamo, a modo di esempio, sulle
tradizioni dell’India. In tale regione, nonostante la monogamia sia stata
abitualmente la norma e considerata un ideale nella vita matrimoniale, nel
corso dei secoli la poligamia ha continuato a essere presente. In ogni caso,
uno dei testi più antichi tratto dalle scritture indù, il Manusmṛti,
afferma quanto segue: «Che la fedeltà reciproca continui fino alla morte,
questo può essere considerato come il riassunto della legge suprema per
marito e moglie. Che l’uomo e la donna, uniti nel matrimonio, si sforzano
costantemente, che (essi non siano) disuniti (e) non violino la loro
reciproca fedeltà»[167].
Un testo importante che viene spesso citato per difendere la monogamia è
quello dello Srimad Bhagavatam o Bhagavata Purana, in cui si
legge: «Il Signore Rāmachandra fece voto di accettare una sola moglie e di
non avere alcun legame con altre donne. Era un re santo, e tutto nel suo
carattere era buono, non contaminato da qualità come la collera»[168].
Quando Ravana rapisce sua moglie Sita, il Signore Rāmachandra, che avrebbe
potuto prendere qualsiasi altra donna come moglie, non ne prende nessuna.
Inoltre, l’enfasi posta sulla castità della moglie nel Thirukkural
(una raccolta classica di aforismi in lingua tamil) indica l’importanza
della totale fedeltà: «Se la donna potesse conservare la castità, quale
tesoro più prezioso potrebbe contenere il mondo? […] Colei che veglia
incessantemente per proteggere sé stessa, si prende cura del suo marito e
del buon nome della propria famiglia, date a lei un nome di donna»[169].
106. In collegamento con la riflessione filosofica e culturale sin qui
svolta, è opportuno fare attenzione anche al tema dell’educazione. La nostra
epoca, infatti, conosce diverse derive a proposito dell’amore:
moltiplicazione dei divorzi, fragilità delle unioni, banalizzazione
dell’adulterio, promozione del poliamore. A fronte di tutto ciò, si deve
pure riconoscere che i grandi racconti collettivi (romanzi, film, canzoni)
continuano a esaltare il mito del “grande amore” unico ed esclusivo. Il
paradosso è evidente: le pratiche sociali minano ciò che l’immaginario
celebra. Ciò rivela che il desiderio di un amore monogamico resta inscritto
nel profondo dell’essere umano, anche quando i comportamenti sembrano
smentirlo.
107. Come preservare, allora, la possibilità di un amore fedele e
monogamico? La risposta si trova nell’educazione. Non basta denunciare i
fallimenti; partendo dai valori che l’immaginario popolare ancora conserva,
occorre preparare le generazioni ad accogliere l’esperienza amorosa come
mistero antropologico. L’universo dei social network, dove il pudore
svanisce e proliferano le violenze simboliche e sessuali, mostra l’urgenza
di una nuova pedagogia. L’amore non può ridursi a pulsione: esso convoca
sempre la responsabilità e la capacità di speranza di tutta la persona. Il
fidanzamento, inteso nel suo senso tradizionale, incarna questo tempo di
prova e di maturazione, in cui l’altro viene accolto come promessa
d’infinito. Così, l’educazione alla monogamia non costituisce una
costrizione morale, ma un’iniziazione alla grandezza di un amore che
trascende l’immediatezza. Essa orienta l’energia erotica verso una saggezza
della durata e verso un’apertura al divino. La monogamia non è arcaismo, ma
profezia: essa rivela che l’amore umano, vissuto nella sua pienezza,
anticipa in qualche modo il mistero stesso di Dio.
V. La parola poetica
108. A proposito di parola poetica, Papa
Francesco afferma che «la parola letteraria è come una spina nel cuore
che muove alla contemplazione e ti mette in cammino. La poesia è aperta, ti
butta da un’altra parte»[170].
E aggiunge: «L’artista è l’uomo che con i suoi occhi guarda e insieme sogna,
vede più in profondità, profetizza, annuncia un modo diverso di vedere e
capire le cose che sono sotto i nostri occhi. Infatti, la poesia non parla
della realtà a partire da princìpi astratti, ma mettendosi in ascolto della
realtà stessa»[171].
Date queste premesse, non è possibile prescindere dal fare riferimento alla
parola poetica per meglio cogliere quel mistero d’amore di due che si
uniscono e si appartengono reciprocamente.
109. È utile notare come molti poeti abbiano cercato di esprimere la
bellezza di questo connubio unico ed esclusivo. Riconoscere ora la forza
della loro poesia non implica certamente sostenere che la loro vita sia
stata perfetta o che siano stati sempre fedeli nell’amore. In ogni caso,
appare evidente che, quando hanno trovato l’amore e hanno deciso di
appartenere esclusivamente a un’altra persona, o quando hanno percepito il
valore di un’unione esclusiva, questi poeti hanno avuto bisogno di
esprimerlo mediante la loro arte, quasi a indicare che si tratta di qualcosa
che va oltre la soddisfazione sessuale, il compimento di un bisogno
personale o un’avventura superficiale. Si possono considerare alcuni esempi:
Abbiamo girato e girato, fino a quando non siamo tornati a casa,
noi due[172].
Nessun’altra, amore, dormirà con i miei sogni. Tu andrai, andremo insieme attraverso le acque del tempo…[173].
110. In questi versi si percepisce che, in un cammino di rispetto e di
libertà, il tempo consacra la scelta reciproca, rafforza il legame,
approfondisce la soddisfazione di appartenere l’uno all’altro, impreziosisce
quel “noi” che arriva ad avvertirsi come indistruttibile. Nel contesto di
questa unione, ciascuno dei due sa che, così come ha dato qualcosa di sé
all’altro, allo stesso modo ha ricevuto tanto dall’amato:
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue[174].
Ti do me stessa, le mie notti insonni, i lunghi sorsi di cielo e stelle – bevuti sulle montagne, la brezza dei mari percorsi verso albe remote. […]
E tu accogli la mia meraviglia di creatura, il mio tremito di stelo vivo nel cerchio degli orizzonti, piegato al vento limpido – della bellezza: e tu lascia ch’io guardi questi occhi che Dio ti ha dati, così densi di cielo – profondi come secoli di luce inabissati al di là delle vette –[175]
111. La relazione è vista come insostituibile, in modo tale che, quando
il poeta vuole ritrovare le sue radici, concepisce se stesso come riferito
all’altra persona, con una forza che travalica il tempo:
Io chiuderò gli occhi e solo voglio cinque cose, cinque radici preferite. Una è l’amore senza fine… La quinta cosa sono i tuoi occhi Matilde mia, benamata, Non voglio dormire senza i tuoi occhi, non voglio essere senza che tu mi guardi[176].
112. Nei grandi poeti non si trova generalmente un romanticismo ingenuo,
ma un realismo che riconosce i rischi dell’assuefazione statica, accetta le
sfide che stimolano la crescita, e non perde di vista allo stesso tempo la
necessità di un’apertura al di fuori della cerchia ristretta dei due:
Noi due tenendoci per mano Ci crediamo dovunque a casa nostra [...] Accanto a saggi e a folli Tra i fanciulli e gli adulti[177].
113. Ciò è radicato nel fatto che l’autenticità di questa unione esclude
qualsiasi forma di fusione chiusa in se stessa. L’appartenenza reciproca non
è solo frutto di un bisogno personale, ma di una decisione di appartenenza
all’altro che permette di superare la solitudine e l’abbandono: una
decisione che è allo stesso tempo intimamente segnata da un grande rispetto
per l’altro e per il suo mistero personale. L’amore, che vede nell’altro un
valore unico, percepisce a suo modo che la persona umana è “intrasferibile”,
che non può essere di sua proprietà, e richiede per sé un simile
atteggiamento:
I tuoi occhi m’interrogano tristi. Vorrebbero sondare tutti i miei pensieri mentre la luna scandaglia il mare [...] Ma è il mio cuore, il mio amore. Le sue gioie e le sue ansie sono immense e infiniti i suoi desideri e le sue ricchezze. Questo cuore ti è vicino come la tua stessa vita, ma non puoi conoscerlo del tutto[178].
114. In questi pochi esempi citati, emerge chiaramente come la parola
poetica prenda sul serio il valore dell’unione esclusiva di due persone che
hanno liberamente deciso di stare insieme e di appartenersi, in modo
esclusivo, l’uno all’altro. Si può sintetizzare quanto detto sul carattere
totalizzante dell’amore con le parole di un’altra grande poetessa, Emily
Dickinson: «Che l’Amore è tutto / è tutto ciò che sappiamo dell’Amore»[179].
VI. Alcune
riflessioni da approfondire
115. Grazie al cammino compiuto sin qui, è ora possibile raccogliere un
bagaglio consistente di considerazioni che possono aiutare a percepire
l’unione matrimoniale, unica ed esclusiva, in modo armonico e multiforme. Si
tratta di considerazioni di per sé utili per un valido approfondimento del
significato della monogamia; sembra tuttavia opportuno, in quest’ultima
parte della Nota, concentrare l’attenzione su alcuni importanti punti
specifici a proposito del tema in esame. Come si è visto, l’unità-unione
matrimoniale potrebbe essere espressa sotto diverse figure filosofiche,
teologiche o poetiche, ma tra tante possibili due appaiono decisive:
l’appartenenza reciproca e la carità coniugale. Entrambe sono emerse con
frequenza in diversi testi citati nella presente Nota.
Appartenenza reciproca
116. Un modo di esprimere quest’unione esclusiva tra due persone si
riassume nell’espressione “appartenenza reciproca”. Già nel V secolo, San
Leone Magno si riferisce all’appartenenza reciproca degli sposi quando parla
della situazione dei soldati che, dati per morti, tornano dalla guerra e
scoprono di essere stati “sostituiti” da altri. Allora il Papa ordina che
«ognuno riceva ciò che gli appartiene»[180].
Questo spunto ci porta ora a riflettere su questa appartenenza reciproca in
un modo più ricco e profondo.
117. È San Tommaso d’Aquino ad affermare che, per instaurare un’amicizia,
«non basta neppure la benevolenza, ma si richiede l’amore scambievole»[181].
L’appartenenza reciproca è fondata sul consenso libero dei due. Infatti, nel
rito latino del matrimonio, il consenso si esprime dicendo: «Io accolgo te
come mia sposa», «Io accolgo te come mio sposo»[182].
Al riguardo, seguendo il dettato del
Concilio Vaticano II, si deve dire che il consenso è un «atto umano col
quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono»[183].
Questo atto «che lega gli sposi tra loro»[184]
è un donarsi e riceversi: è il dinamismo che dà origine all’appartenenza
reciproca, chiamata ad approfondirsi, a maturare, a diventare sempre più
solida. In termini tecnici, il mutuo donarsi è la materia;
l’accoglienza reciproca è la forma.
118.
San Paolo VI non a caso collega la «reciproca donazione
personale» nel matrimonio all’unità del vincolo, caratterizzandola come
«loro propria ed esclusiva».[185]
E, sempre a proposito di reciprocità, Karol Wojtyła sostiene che essa «ci
obbliga a considerare l’amore dell’uomo e della donna non soltanto come
l’amore dell’uno per l’altro quanto piuttosto come qualcosa che
esiste tra loro […]. L’amore non è soltanto nella donna né
soltanto nell’uomo, – perché allora si avrebbero in definitiva due
amori –, bensì è unico, è quella cosa che li lega […]. Il suo essere,
nella sua pienezza, è inter-personale e non individuale […]. È la
reciprocità che, nell’amore, decide della nascita di questo “noi”. Essa
prova che l’amore è maturato, è diventato qualcosa tra le persone, ha creato
una comunità»[186].
Questa reciprocità è riflesso della vita trinitaria: «due persone che un
amore perfetto riunisce in unità. Questo movimento e questo amore le rendono
somiglianti a Dio, che è lo stesso amore, l’unità assoluta delle tre
Persone»[187]. L’unità
del rapporto degli sposi è profondamente radicato nella comunione
trinitaria.
119. Papa
Francesco amava parlare del matrimonio in termini di appartenenza
liberamente scelta, perché «senza senso di appartenenza non si può
sostenere una dedizione agli altri, ognuno finisce per cercare unicamente la
propria convenienza»[188].
Nelle nozze, ognuno dei due «esprime la ferma decisione di appartenersi
l’un l’altro. Sposarsi è un modo di esprimere che realmente si è abbandonato
il nido materno per tessere altri legami forti e assumere una nuova
responsabilità di fronte ad un’altra persona. Questo vale molto di più di
una mera associazione spontanea per la mutua gratificazione»[189].
L’appartenenza reciproca ed esclusiva diventa una forte motivazione per la
stabilità dell’unione: «Nel matrimonio si vive anche il senso di
appartenere completamente a una sola persona. Gli sposi assumono la
sfida e l’anelito di invecchiare e consumarsi insieme e così riflettono la
fedeltà di Dio […]. È un’appartenenza del cuore, là dove solo Dio
vede (cf. Mt 5,28). Ogni mattina quando ci si alza, si rinnova
davanti a Dio questa decisione di fedeltà, accada quel che accada durante la
giornata. E ciascuno, quando va a dormire, aspetta di alzarsi per continuare
questa avventura»[190].
La trasformazione
120. Con il passare del tempo, anche quando l’attrazione fisica e la
possibilità di avere rapporti sessuali si indeboliscono, l’appartenenza
reciproca non è destinata alla dissoluzione. L’opzione per l’unione dei due
si modifica, si trasforma. Naturalmente, non mancheranno varie espressioni
intime di affetto, che comunque sono considerate anche esclusive, in quanto
espressioni dell’unica unione matrimoniale, che non potrebbe essere offerta
ad altre persone senza sperimentarne un’inadeguatezza. Proprio perché
l’esperienza di appartenenza reciproca ed esclusiva si è approfondita e
rafforzata nel tempo, ci sono espressioni che sono riservate solo a quella
persona con la quale si è scelto di condividere il proprio cuore in modo
unico.
121. Per Papa
Francesco, questo è precisamente uno dei vantaggi di intendere l’unione
matrimoniale come appartenenza reciproca: «La relazione intima e la
reciproca appartenenza devono conservarsi per quattro, cinque o sei decenni,
e questo comporta la necessità di ritornare a scegliersi a più riprese.
Forse il coniuge non è più attratto da un desiderio sessuale intenso che lo
muova verso l’altra persona, però sente il piacere di appartenerle e che
essa gli appartenga, di sapere che non è solo, di avere un “complice”
che conosce tutto della sua vita e che condivide tutto. È il compagno nel
cammino della vita»[191].
Così «benché molti sentimenti confusi si aggirino nel cuore, si mantiene
viva ogni giorno la decisione di amare, di appartenersi, di
condividere la vita intera e di continuare ad amarsi e perdonarsi […]. Nel
corso di tale cammino, l’amore celebra ogni passo e ogni nuova tappa […]. Il
vincolo trova nuove modalità ed esige la decisione di riprendere sempre
nuovamente a stabilirlo. Non solo però per conservarlo, ma per farlo
crescere»[192].
Ad ogni modo, bisogna riconoscere che l’appartenenza reciproca è un modo di
intendere l’unione coniugale che ha la sua grande ricchezza e insieme dei
limiti che è indispensabile chiarire.
La non appartenenza
122. Una caratteristica della persona è che è un fine in sé stessa.
L’essere umano «è la sola creatura sulla terra che Dio abbia voluto per sé
stessa»[193].
Si può così dire che l’uomo è un fine in sé, e quindi non può essere
ridotto a essere meramente lo scopo di altri. La persona non può essere
trattata in un modo che non corrisponda a questa dignità, che può essere
chiamata “infinita”[194],
sia per l’amore illimitato che Dio nutre per essa, sia perché è una dignità
assolutamente inalienabile. Ogni «individuo umano ha la dignità di persona;
non è soltanto qualche cosa, ma qualcuno»[195].
Di conseguenza, la persona «non può essere trattata come oggetto di uso,
quindi come un mezzo»[196].
123. Quando non c’è questa convinzione, propria del vero amore che si
arresta di fronte alla dimensione sacra dell’altro, si sviluppano facilmente
le malattie di un possesso indebito dell’altro: manipolazioni, gelosie,
vessazioni, infedeltà. D’altra parte, la mutua appartenenza propria
dell’amore reciproco esclusivo implica una cura delicata, un santo timore di
profanare la libertà dell’altro, che ha la stessa dignità e pertanto gli
stessi diritti. Chi ama sa che l’altro non può essere un mezzo per risolvere
le proprie insoddisfazioni, sa che il proprio vuoto deve essere colmato in
altri modi, mai attraverso il dominio dell’altro. Questo è ciò che non
accade in tante forme di desiderio malsano che sfociano in varie
manifestazioni di violenza esplicita o sottile, di oppressione, di pressione
psicologica, di controllo e infine di asfissia. Questa mancanza di rispetto
e riverenza di fronte alla dignità dell’altro si trova pure in quelle
pretese di complementarità dove uno dei due viene obbligato a sviluppare
soltanto alcune delle sue possibilità, mentre l’altro trova ampi spazi di
espansione personale. Per evitare tutto ciò, si deve riconoscere che non c’è
un modello unico di reciprocità matrimoniale. In un rapporto sano e generoso
«vi sono ruoli e compiti flessibili, che si adattano alle circostanze
concrete di ogni famiglia»[197].
Di conseguenza, «in casa le decisioni non si prendono unilateralmente, e i
due condividono la responsabilità per la famiglia, ma ogni casa è unica e
ogni sintesi matrimoniale è differente»[198].
124. Quando, invece di una sana appartenenza reciproca – anche se ciò
richiede sempre pazienza e generosità – si fanno presenti nel coniuge segni
di irritazione e persino alcune mancanze di rispetto, bisogna reagire in
tempo prima che appaiano forme di manipolazione o di violenza. In questi
casi, la persona deve far valere la sua dignità, porre i limiti necessari e
iniziare un cammino di dialogo sincero, in modo tale da esprimere un chiaro
messaggio: “Tu non mi possiedi, tu non mi domini”. E questo non solo per
difendere se stessi, ma anche per la dignità dell’altro, perché «nella
logica del dominio, anche chi domina finisce per negare la propria dignità»[199].
125. Il sano e bello “noi due” non può che essere la reciprocità di due
libertà che non vengono mai violate, ma si scelgono a vicenda, lasciando
sempre al sicuro un limite che non si può superare, che non si può valicare
con la scusa di qualche bisogno, di un’ansia personale o di uno stato
psicologico. Come evidenzia Papa
Francesco, i coniugi «sono chiamati ad un’unione sempre più intensa, ma
il rischio sta nel pretendere di cancellare le differenze e
quell’inevitabile distanza che vi è tra i due. Perché ciascuno possiede una
dignità propria e irripetibile»[200].
Rispettare pienamente questo principio «richiede una spogliazione interiore»[201].
126. Prendendo veramente sul serio quanto detto sin qui, la parola
“appartenenza” può essere applicata al matrimonio solo in modo analogo.
Infatti, una forma di appartenenza diversa da quella di un amore che sente
l’altro come sacro nella sua libertà, non trasferibile nel suo nucleo
personale, e autonomo, sarebbe solo un modo egocentrico di assoggettare il
coniuge ai propri fini o per i propri progetti. La persona non si disperde
nella relazione, non si fonde con la persona amata, rimane sempre un nucleo
non cedibile. Questo non deve essere inteso come un limite o una povertà
dell’amore reciproco; al contrario, permette di mantenere intatto quel
livello di rispetto e di meraviglia che fanno parte di ogni amore sano, che
non intende mai assorbire l’altro.
127. Ciò è confermato dal fatto che esiste una dimensione della persona
che, essendo la più profonda, trascende tutte le altre – compresa quella
corporea – e dove solo Dio può entrare senza violarla. C’è un nucleo
dell’essere umano in cui solo l’amore infinito di Dio può regnare.
Solo Lui ha l’amore onnipotente e creatore che rende possibile l’esistenza
stessa della libertà. Quindi, se la tocca, può solo rafforzarla,
promuoverla, esaltarla nella sua stessa natura, senza alcuna possibilità di
mutilarla, dominarla, indebolirla o sovrapporsi ad essa. Infatti, «Dio solo
penetra [illabitur] nell’anima»[202]:solo
Dio può entrare nel profondo del cuore umano, poiché solo Lui può farlo
senza perturbare la libertà e l’identità della persona[203].
Dio, attraverso la grazia, si fa pienamente vicino, con un immedesimarsi nel
più profondo dell’essere umano che solo Lui può raggiungere[204].
Pertanto, «nessuno può pretendere di possedere l’intimità più personale
e segreta della persona amata»[205].
128. Man mano che il loro amore matura, la coppia potrà comprendere e
accettare pacificamente che la preziosa appartenenza reciproca che
caratterizza il matrimonio non è un possesso, ma lascia aperte molte
possibilità. Ad esempio, che uno dei due chieda un momento di riflessione, o
qualche spazio abituale di solitudine o di autonomia, o che rifiuti
l’intrusione dell’altro in qualche ambito della sua intimità, o che conservi
qualche segreto personale custodito nel sancta sanctorum della
propria coscienza senza essere pedinato o osservato.
129. Quando l’amore matura, quel “noi due” possiede tutta la forza
dell’unione liberamente scelta da entrambi, tutta la gioia di una memoria
comune, tutta la soddisfazione del cammino e dei sogni condivisi, tutta la
sicurezza che deriva dal sentire che non si è e non si sarà soli. Ma quella
bellezza è esaltata da una magnifica libertà che nessun vero amore sarebbe
in grado di ferire.
130. Pertanto, il matrimonio esclude anche un controllo che possa dare
sicurezza, certezza assoluta, assenza di ogni sorpresa. In un amore maturo,
se l’altro ha bisogno di uno spazio per riscoprire il mondo, c’è posto solo
per la fiducia, non per la pretesa di tranquillità assoluta, priva di ogni
paura segreta, incapace di affrontare nuove sfide. In questo senso, il
matrimonio non ci libera completamente dalla solitudine, perché il coniuge
non può raggiungere uno spazio che può essere solo di Dio, né colmare un
proprio vuoto che nessun essere umano è in grado di riempire. Il fatto che
il suo affetto non sia perfetto non significa che sia falso, che sia
totalmente egoista, che non sia autentico, ma semplicemente che è terreno,
limitato, che non ci si può aspettare che soddisfi ogni proprio bisogno.
Reciproco aiuto
131. Certamente, questa capacità di accettare il rischio della libertà
non implica che un coniuge molto sensibile alla difesa dei propri spazi di
autonomia coltivi un’indifferenza verso le paure dell’altro, un’eccessiva
fiducia in sé stesso, una pretesa di piena indipendenza che il limitato
cuore umano del proprio partner, soprattutto se lo ama, non potrà accettare
senza una grande sofferenza. Non può sentirsi salvato nella propria autonoma
autosufficienza, perché un’alleanza d’amore implica anche il riconoscimento
che l’altro ha bisogno di lui.
132. Insieme alla salvaguardia di una sana libertà, la Parola di Dio,
mentre approva la richiesta di spazi di autonomia e di solitudine per un
certo periodo, esige anche: «non rifiutatevi l’un l’altro» (1Cor
7,5). Quando la distanza diventa troppo frequente, il “noi due” si espone
alla sua possibile eclissi, all’indebolimento del desiderio dell’altro. In
ogni caso, se l’attrazione reciproca si affievolisce, è sempre possibile
trovare uno spazio di dialogo sincero per sanare ciò che provoca il
reciproco allontanamento. In definitiva, è sempre possibile cercare vie
alternative che consolidino e arricchiscano il “noi” in un modo inedito. Si
tratta di un equilibrio sano ma difficile, che ogni coppia raggiunge a
modo suo, attraverso il dialogo sincero e l’offerta reciproca.
133. L’appartenenza reciproca diventa aiuto vicendevole, aiuto che non
solo cerca la felicità del coniuge e un alleviamento delle sue pene, ma è
anche un aiutarsi a vicenda a maturare come persone, sino a giungere al fine
ultimo della vita di entrambi di fronte a Dio, nel banchetto del cielo.
San Paolo VI ricorda che «per mezzo della reciproca donazione personale,
loro propria ed esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro
persone, con la quale si perfezionano a vicenda»[206].
La preghiera come coppia è certamente un mezzo prezioso per crescere
nell’amore e per santificarsi insieme, preghiera che «ha come contenuto
originale la stessa vita di famiglia»[207].
In questo cammino di santificazione, dice Sertillanges, non deve escludersi
la sessualità vissuta come santa espressione di un pieno dono di sé
all’altro, come si donano mutuamente Cristo e la sua Chiesa: «L’atto così
compiuto non solo dunque è lecito come effetto di un’istituzione naturale e
legale; non solo è virtuoso, come utile e diretto a fini utili; è santo
della santità del sacramento di cui è l’uso, della santità dell’unione
sacra di tutta l’umanità col suo Redentore»[208].
134. Un discorso sulla monogamia implica il riconoscimento del fatto che
l’unicità del coniuge riflette, nell’ordine “orizzontale” delle relazioni
umane, l’unicità del rapporto della persona umana con l’Infinito divino.
Pensare alla monogamia significa interrogare il rapporto dell’amore umano
con il suo compimento ultimo. Ogni relazione d’amore chiama silenziosamente
la presenza di un Terzo infinito, che è Dio stesso[209].
Senza questo Terzo, l’amore facilmente si chiude nella propria finitudine e
crolla. L’esclusività coniugale appare allora non come una limitazione, ma
come la condizione di possibilità di un amore soprannaturale che, oltre la
carne, si apre all’eterno. Infatti, insegna san Tommaso d’Aquino che lo
stesso «Spirito Santo procede invisibilmente all’anima per il dono
dell’amore»[210],
per cui, di conseguenza, nell’esperienza dell’autentico amore ci colleghiamo
con quell’Amore infinito che è lo Spirito Santo. Proprio l’esperienza di un
amore così prossimo, come quello del matrimonio, fa sorgere potente nel
cuore umano anche il desiderio di un amore non solo per sempre, ma senza
fine. Allora l’amore dei coniugi diventa epifania della destinazione
trascendente ed eterna della persona umana. Perché solo un amore che sia in
grado di trascendere l’amore umano, un Amore eterno ed infinito, può
rispondere a quel desiderio di amore “per sempre” e “senza fine” che suscita
l’amore coniugale. Ed ecco perché l’esperienza di quella particolare e acuta
prossimità, offerta dal legame coniugale, è ultimamente destinata a
dischiudere al cuore di ogni uomo e ogni donna il desiderio di quella
ineguagliabile prossimità che solo Dio può offrire in modo pieno e
definitivo. E Dio stesso, facendosi uomo, inizia a rispondere a tale
desiderio, anche conferendo alla prossimità che nasce dal legame
matrimoniale il sigillo dell’unicità, che è precisamente segno e caparra
della comunione di Dio con ciascuno di noi in un’alleanza d’amore senza
fine. Di conseguenza, come non pensare al matrimonio come un cammino di
aiuto vicendevole per santificarsi insieme, per raggiungere le cime
dell’unione con Dio?
135. L’aiuto reciproco per la santificazione, nel quale i due si
sostengono «a vicenda nella grazia»[211],
si realizza soprattutto nell’esercizio della carità coniugale, perché solo
la carità esercitata concretamente verso l’altro ci permette di crescere
nella vita di grazia, e senza la carità qualsiasi sforzo per la
santificazione «a nulla mi servirebbe» (1Cor 13,3). Per questa
ragione, le ultime pagine di questo documento vengono dedicate a quella
potenza unitiva che è la carità coniugale.
Carità coniugale
136. Si è già argomentato circa il carattere reciproco dell’unione
coniugale, che può essere considerata come una forma di amicizia intima e
totalizzante. Al riguardo, è utile ricordare che proprio San Tommaso
specifica che l’amicizia è «fondata su qualche comunanza»[212].
Più che alcune affinità ideologiche o estetiche, che possono essere molto
importanti, si tratta della comunione che crea l’amore, che con la sua forza
unitiva rende gli sposi simili tra loro, accresce le cose che si
condividono, crea un tesoro di vita tra i due. Quindi, prima di tutto,
bisogna dire che, per parlare di amicizia, ci deve essere l’amore.
Una particolare forma di
amicizia
137. Non si può comprendere bene il matrimonio senza parlare dell’amore,
che per i cristiani è sempre chiamato a raggiungere le vette della carità,
l’amore soprannaturale che «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto
sopporta» (1Cor 13,7). Infatti, la «grazia propria del sacramento del
Matrimonio è destinata a perfezionare l’amore dei coniugi»[213].
Questo amore soprannaturale è un dono divino, che viene chiesto nella
preghiera e nutrito nella vita sacramentale, e invita i coniugi a fare
memoria del fatto che è Dio l’autore principale dell’unità del matrimonio, e
che senza il suo aiuto la loro unione non potrà mai raggiungere la sua
pienezza. Quando nel rito latino del matrimonio si riportano le parole del
Signore: «l’uomo non osi separare ciò che Dio unisce»[214]
(cf. Mt 19,6; Mc 10,9), si nota che l’unità coniugale non è
costituita solo dal consenso umano, ma è opera dello Spirito Santo. Lo
stesso si deve dire della crescita nella comunione degli sposi, animati
dalla grazia e dalla carità. Tale comunione si sviluppa come risposta a una
«vocazione di Dio e attuata come risposta filiale al suo appello»[215].
Ma la crescita della carità non avviene senza la cooperazione umana: in
questo caso, la collaborazione degli sposi che cercano ogni giorno una
comunione sempre più intensa, ricca e generosa.
138. La carità – compresa la carità coniugale – è un’unione affettiva,
intendendo qui per “affettivo” qualcosa di più dei sentimenti e dei
desideri: «implica un legame affettivo di chi ama con la cosa amata: in
quanto chi ama considera la persona amata come un’unica cosa con se stesso»[216].
Si esprime nell’azione della volontà[217]
che vuole, sceglie qualcuno, decide di entrare in intima comunione con lui,
si unisce a quella persona liberamente, con tutti gli effetti più o meno
intensi che ciò può implicare nella sensibilità sotto forma di desiderio, di
emozioni, di attrazione sessuale, di sensualità. Anche quando questi effetti
sulla sensibilità o sul corpo si indeboliscono o si trasformano nelle varie
fasi della vita, l’unione affettiva rimane, a volte con grande intensità,
nella volontà. È la volontà che vuole rimanere in unione con l’altro essere
umano, apprezzandolo come di «grande valore»[218]
e costituendo con lui «un’unica cosa con se stesso»[219].
139. Solo così è possibile sostenere la fedeltà nei momenti avversi o
nella tentazione, perché la carità ci tiene aggrappati a un valore più alto
del soddisfacimento dei bisogni personali. Non si possono trascurare, a
questo riguardo, le tante testimonianze di coppie in cui i coniugi si sono
sostenuti a vicenda nelle varie difficoltà della vita, a volte nel corso di
prove durate anni, testimoniando così la rilevanza profetica della
monogamia. Ciò viene espresso bene nella formula del consenso del rito
latino del matrimonio: «prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel
dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni
della mia vita»[220]. Proprio
la carità coniugale, con la sua forza unitiva, rende possibile che detta
promessa si compia veramente. Questa unione affettiva, fedele e totale, si
configura nel matrimonio come un’amicizia, perché alla fine la carità è una
forma di amicizia[221].
E Papa
Francesco, citando San Tommaso d’Aquino, sostiene pertanto che «dopo
l’amore che ci unisce a Dio, l’amore coniugale è la “più grande amicizia”»[222].
140. Nell’Antico Testamento vi è un’affermazione perentoria, riferita
alla necessità di amare: «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv
19,18). Si tratta di un’affermazione che giunge al termine di un brano in
cui vengono richiamati in continuazione gli obblighi del pio israelita verso
coloro che sono il suo “prossimo”. È questa un’affermazione assai nota,
poiché Gesù la riprende e rilancia (cf. Mt 22,39; Mc 12,31;
Lc 10,29-37). Egli stabilisce così un legame del tutto speciale fra la
realtà dell’amore, fenomeno così universale, e la categoria di “prossimo”.
In questo modo, l’amore stesso, quando è autentico, non solo si rivolge a
coloro che ci sono vicini, ma è altresì in grado di generare una
“prossimità”. Ne risulta così che il “prossimo” è colui con cui si realizza
una particolare condivisione di vita. In tal senso, proprio l’amore
coniugale rivela ed incarna una speciale “prossimità”, che fa risuonare in
modo particolarmente convincente quanto è contenuto nel comandamento.
L’amore degli sposi, infatti, realizza e richiama una vicinanza unica e
singolare fra due cuori che si amano, generando una speciale affinità che si
nutre di una tale condivisione di sé, dei beni e della vita intera, che la
profondità dell’amore coniugale è in grado di realizzare con imparagonabile
intensità. Man mano che l’amore matura e cresce, nel matrimonio il cuore
della persona amata percepisce che nessun altro cuore è in grado di farla
sentire “a casa”, come quello della persona da lei amata.
In corpo e anima
141. Questa amicizia coniugale, carica di conoscenza reciproca, di
apprezzamento dell’altro, di complicità, di intimità, di comprensione e
pazienza, di ricerca del bene dell’altro, di gesti sensibili, nella misura
in cui supera la sessualità, allo stesso tempo la abbraccia e le dà il suo
significato più bello, più profondo, più unitivo e più fecondo. A tale
proposito, Papa
Francesco ricorda che «Dio stesso ha creato la sessualità, che è un
regalo meraviglioso»[223].
Allo stesso tempo, «l’unione sessuale, vissuta in modo umano e santificata
dal sacramento, è a sua volta per gli sposi via di crescita nella vita della
grazia»[224].
Per questo, collocare la sessualità nel quadro proprio di un amore che
unisce i coniugi in un’unica amicizia, che cerca il bene dell’altro, non
implica una svalutazione del piacere sessuale. Orientandolo alla donazione
di sé stessi, esso non solo viene impreziosito, ma può anche essere
potenziato. San Tommaso d’Aquino spiega tutto questo molto bene quando
ricorda che «la natura ha legato il piacere alle funzioni necessarie per la
vita dell’uomo» e che colui che lo rifiutasse, «al punto di trascurare ciò
che è necessario per la conservazione della natura, commetterebbe peccato,
violando così l’ordine naturale. Ed è questo appunto che rientra nel vizio
dell'insensibilità»[225].
All’interno di questa logica, San Tommaso sostiene che, prima del peccato
originale, il piacere sensibile era maggiore, poiché la natura era più pura,
più integra, e di conseguenza il corpo era più sensibile. Ciò è l’opposto
dell’ansiosa dissolutezza che alla fine danneggia il piacere privandolo
delle possibilità di un’esperienza autenticamente umana[226].
Alle capacità specificamente umane che permettono allo spirito umano di
permeare la sensibilità, di orientarla e di portarla a compiutezza, «non
spetta di rendere minore il piacere dei sensi», ma piuttosto di renderlo
possibile in tutta la sua pienezza e ricchezza, impedendo «alla facoltà del
concupiscibile di aderire di modo sfrenato al piacere»[227].
Vivere la sessualità come azione di tutto l’essere umano, nella sua
corporeità e interiorità, grazie anche al potere trasfigurante della carità,
significa che essa non è vissuta passivamente, come un semplice lasciarsi
trasportare dagli impulsi, ma come l’azione della persona che sceglie di
unirsi pienamente all’altro.
142. Vissuta in questo modo, la sessualità non è più lo sfogo di un
bisogno immediato, ma è una scelta personale che esprime la totalità della
propria persona e assume l’altro come una totalità personale. Questa verità,
invece di compromettere l’intensità del piacere, può aumentarlo, renderlo
più intenso, più ricco e più appagante. Il solo fatto di essere trattato
come una persona, e di trattare l’altro allo stesso modo, può liberare il
cuore da traumi, paure, angosce, ansie, sentimenti di solitudine, abbandono,
incapacità di amare, che certamente feriscono il piacere. Al tempo stesso,
lo sviluppo dell’amore come virtù umana e teologale aiuta a liberare il
meglio di ogni persona nella propria identità unica, e così a renderla
capace di una gioia più grande e più umana, fino a rendere grazie a Dio che
ha creato tutto «perché possiamo goderne» (1Tm 6,17). Tutto ciò non
toglie all’unione sessuale quella «abbondanza di piacere che è nell’atto
venereo ordinato secondo ragione» e che «non contraddice il mezzo della
virtù»[228].
Invece, se ci si ripiega su se stessi e sui propri bisogni immediati, e si
usa l’altro come solo mezzo per il loro sfogo, il piacere lascia più
insoddisfatti e il sentimento di vuoto e solitudine diventa più amaro.
143. Parlando della carità coniugale, Karol Wojtyła invita a superare
ogni dialettica inutile, spiegando che «l’amore-virtù si riferisce all’amore
effettivo così come all’amore di concupiscenza»[229].
Papa
Benedetto XVI, in
Deus caritas est, ribadisce che amore oblativo (amor
benevolentiae) e amore possessivo (amor concupiscentiae) non si
possono staccare tra loro, perché «in fondo l’“amore” è un’unica realtà,
seppur con diverse dimensioni; di volta in volta, l’una o l’altra dimensione
può emergere maggiormente. Dove però le due dimensioni si distaccano
completamente l’una dall’altra, si profila una caricatura o in ogni caso una
forma riduttiva dell’amore»[230].
Quando parliamo dell’amore di concupiscenza non dobbiamo intendere solo il
desiderio sessuale, ma anche qualsiasi modo di cercare l’altro come “un bene
per me”, per superare la solitudine, per ricevere aiuto nelle difficoltà,
per avere uno spazio di totale fiducia, ecc. Questa forma di amore, che non
è esclusa nel matrimonio, è un modo per esprimere che io non sono il
salvatore dell’altro, un onnipotente e inesauribile datore di bene, ma che
sono un essere bisognoso, che anch’io ho bisogno dell’altro, che anch’io
sono incompleto e fragile, e che quindi l’altro è importante per me e gli do
la possibilità di diventare fecondo facendomi del bene. Fare altrimenti
sarebbe una sorta di autosufficienza che può essere facilmente trasformata
in un egocentrismo mascherato, perché Satana «si maschera da angelo di luce»
(2Cor 11,14).
Benedetto XVI spiega così che «l’uomo non può neanche vivere
esclusivamente nell’amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto
donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso
riceverlo in dono»[231].
144. In questo senso, non possiamo ignorare che negli ultimi decenni, nel
contesto dell’individualismo consumista postmoderno, sono apparsi problemi
diversi originati da una ricerca eccessiva e senza controllo del sesso,
oppure dalla semplice negazione del fine procreativo della sessualità. Come
peculiarità degli ultimi decenni, si può segnalare l’esplicita negazione del
fine unitivo della sessualità e del matrimonio stesso. Ciò accade
specialmente per via della sensazione di ansia, di essere sempre impegnati,
di voler disporre di più tempo libero per sé stessi, di essere sempre presi
dall’ossessione di viaggiare e conoscere altre realtà. Di conseguenza,
scompare il desiderio dello scambio affettivo, degli stessi rapporti
sessuali, ma anche di dialogo e cooperazione, cose che sono viste come
“stressanti”.
La multiforme fecondità
dell’amore
145. Una visione integrale della carità coniugale non nega la sua
fecondità, la possibilità di generare una nuova vita, perché «questa
totalità, richiesta dall’amore coniugale, corrisponde anche alle esigenze di
una fecondità responsabile»[232].
L’unione sessuale, come modalità di espressione della carità coniugale, deve
naturalmente rimanere aperta alla comunicazione della vita[233],
anche se ciò non significa che questo debba essere uno scopo esplicito di
ogni atto sessuale. In effetti, possono verificarsi tre situazioni
legittime:
a) Che una coppia non possa avere figli. Karol Wojtyła spiega ciò
magnificamente, quando ricorda che il matrimonio possiede «una struttura
interpersonale, è un’unione e una comunità di due persone […]. Per molte
ragioni, il matrimonio può non diventare famiglia, ma la mancanza di
questa non lo priva del suo carattere essenziale. Infatti, la ragion
d’essere interiore e essenziale del matrimonio non è soltanto di
trasformarsi in famiglia, ma soprattutto di costituire un’unione di due
persone, unione duratura e fondata sull’amore […]. Un matrimonio in cui
non vi siano figli, senza colpa degli sposi, conserva il valore
integrale dell’istituzione […] non perde nulla della propria importanza»[234].
b) Che una coppia non cerchi un determinato atto sessuale
consapevolmente come un mezzo di procreazione. Lo dice anche Wojtyła,
sostenendo che un atto coniugale, il quale «essendo in sé stesso un
atto d’amore che unisce due persone, può non venir necessariamente
considerato da esse come un mezzo cosciente e voluto di procreazione»[235].
c) Che una coppia rispetti i tempi naturali di infertilità. Seguendo
questa linea di riflessione, come afferma
San Paolo VI, «la Chiesa insegna essere allora lecito tener conto
dei ritmi naturali immanenti alle funzioni generative per l’uso del
matrimonio nei soli periodi infecondi»[236].
Ciò può servire non solo a «regolare la natalità», ma anche a scegliere
i momenti più opportuni per accogliere una nuova vita. Nel frattempo, la
coppia può sfruttare tali periodi «a manifestazione di affetto e a
salvaguardia della mutua fedeltà. Così facendo essi danno prova di amore
veramente e integralmente onesto»[237].
146. Tutto ciò mostra l’importante novità che Papa
Pio XI offre quando afferma che l’amore coniugale «pervade i doveri
tutti della vita coniugale e nel matrimonio cristiano tiene come il primato
della nobiltà»[238].
In questo modo, egli aiuta a superare la discussione sul rapporto tra i fini
o i significati del matrimonio (procreativo e unitivo) e l’ordine che esiste
tra di essi, ponendo la carità coniugale al di sopra di questa dialettica
dei fini e dei beni come questione centrale della vita coniugale, che a sua
volta le conferisce una multiforme fecondità. Gli sposi, anche nei momenti
più difficili, possono dire: “Siamo amici, ci amiamo, ci valorizziamo,
abbiamo deciso di condividere tutta la nostra vita, ci apparteniamo, e
abbiamo scelto liberamente questa unione che Dio stesso ha benedetto e
consolidato. Se in un momento non ci sono figli, rimaniamo uniti e siamo
fecondi in altri modi, se in un momento non c’è sesso, continuiamo a vivere
questa amicizia unica, esclusiva e totalizzante che è anche il nostro
miglior cammino di maturazione e santificazione”.
147. Lo stesso Sant’Agostino, che così fortemente sottolinea il fine
della procreazione, insegna che il matrimonio in sé stesso è un bene anche
se non ci sono figli, «perché stringe una società naturale tra i due sessi.
Altrimenti non continuerebbe a chiamarsi matrimonio anche nei vecchi, specie
quando avessero perduto i figli o non li avessero avuti affatto»[239].
Una simile posizione, espressa con altre parole, viene sostenuta da San
Giovanni Crisostomo: «Che dire dunque: se non ci sarà alcun bambino, allora
[gli sposi] non saranno più due? È evidente: il loro congiungersi (míxis)
infatti compie proprio questo, riversa e mescola insieme i corpi di
entrambi. E come chi ha versato del profumo nell’olio rende il tutto una
cosa sola, così anche qui»[240].
Nella sua sostanza, ciò è affermato anche dal Concilio Vaticano II: «Anche
se la prole, spesso tanto vivamente desiderata, non c’è, il matrimonio
perdura come consuetudine e comunione di tutta la vita e conserva il suo
valore»[241].
148. Un autore illustra bene che, al di là degli “obiettivi” che i
coniugi possono porsi, che non costituiscono l’essenza del matrimonio,
«l’unione-unità che comporta il matrimonio si spiega e si giustifica per sé
stessa, con priorità alla sua tensione teleologica, perché è un’unione-unità
che possiede in sé stessa la sua propria e completa ragione di bene, dalla
quale derivano, senz’altro, determinate opere proprie, ma come conseguenze,
mai come cause»[242].
Di questa unione-unità, che appartiene all’essenza del matrimonio, la carità
coniugale è la principale e più perfetta espressione morale e spirituale che
dona al matrimonio diverse forme di fecondità.
Un’amicizia aperta a tutti
149. Da quanto si è detto consegue che un’unione esclusiva generata e
sostenuta dal vero amore, anche se ancora immaturo e fragile, non può essere
chiusa in se stessa; essa non è il prolungamento dell’individualismo nella
vita di coppia, ma è aperta ad altre relazioni, è disposta al dono di sé
della coppia, ai progetti condivisi dai due per fare qualcosa di bello per
la comunità e per il mondo.
150. Se il matrimonio è già di per sé un quadro di relazione che matura
entrambi i coniugi, ciò è ancora più vero quando esso è generosamente aperto
agli altri, superando così «l’originaria tragica chiusura in sé medesimo
dell’uomo»[243]
che porta a pensare che isolandosi la persona è più libera e più felice.
Perché «la creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle
relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la
propria identità personale. Non è isolandosi che l’uomo realizza sé stesso,
ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio»[244].
151. Come insegna Papa
Francesco nel suo appello alla fratellanza universale nella sua
Enciclica
Fratelli tutti, la carità è chiamata a una crescita intensiva ma
anche estensiva, che «tende ad abbracciare tutti»[245].
La carità, dunque, ci spinge ad allargare il “noi” coniugale: «Non posso
ridurre la mia vita alla relazione con un piccolo gruppo e nemmeno alla mia
famiglia, perché è impossibile capire me stesso senza un tessuto più ampio
di relazioni […]. Il legame di coppia e di amicizia è orientato ad aprire
il cuore attorno a sé, a renderci capaci di uscire da noi stessi fino ad
accogliere tutti. I gruppi chiusi e le coppie autoreferenziali, che si
costituiscono come un “noi” contrapposto al mondo intero, di solito sono
forme idealizzate di egoismo e di mera autoprotezione»[246].
152. Il rischio della “endogamia”, cioè di un “noi” chiuso, contraddice
la natura stessa della carità e può ferirla mortalmente. Quattro fattori
possono prevenire questa “endogamia” che snatura e impoverisce il senso
dell’unione coniugale:
a) Gli spazi che ciascuno dei coniugi vive nel lavoro, nelle
iniziative personali, nei momenti di apprendimento e di sviluppo al di
fuori della vita matrimoniale. Se uno dei due non ha un impiego, diventa
necessario creare questi spazi a vantaggio del bene del matrimonio,
arricchendo il dialogo e la relazione in generale.
b) Il significato procreativo del matrimonio, che manifesta la
fecondità dell’amore che non è chiuso alla comunicazione della vita. In
coloro che non sono in grado di avere figli, l’adozione o altre forme di
sostegno stabile per i figli di altre coppie possono essere un modo di
realizzare questa fecondità.
c) Il tempo che si condivide con gli altri amici sposati, nel corso
del quale, pur imparando dalle esperienze degli altri e ricevendo da
loro sostegno, c’è una costante disponibilità a dare una mano nei
momenti difficili, aiutando allo stesso tempo la coppia a prendere
coscienza di sé come unione grazie all’amicizia con altre coppie.
d) Il senso sociale della coppia, che, fedele alla dimensione sociale
della vita cristiana, cerca le vie per rendere un servizio alla società
e alla Chiesa, impegnandosi insieme nella ricerca del bene comune:
«Anche la famiglia con molti figli è chiamata a lasciare la sua impronta
nella società dove è inserita, per sviluppare altre forme di fecondità
che sono come il prolungamento dell’amore che la sostiene […]. Non
rimane ad aspettare, ma esce da sé nella ricerca solidale»[247].
«L’amore sociale, riflesso della Trinità, è in realtà ciò che unifica il
senso spirituale della famiglia e la sua missione all’esterno di sé
stessa»[248].
153. Una particolare prova dell’apertura dell’amicizia della coppia verso
gli altri e della fecondità della loro carità si manifesta nella loro
attenzione verso i poveri. Infatti, ricorda Papa
Leone XIV, «il
cristiano non può considerare i poveri solo come un problema sociale: essi
sono una “questione familiare”. Sono “dei nostri”»[249].
Inoltre, «l’amore a coloro che sono poveri – in qualunque forma si manifesti
tale povertà – è la garanzia evangelica di una Chiesa fedele al cuore di
Dio»[250].
Questo fatto si riflette in una delle opzioni per la benedizione finale nel
rito latino del matrimonio, che si conclude con la preghiera: «Siate nel
mondo testimoni dell’amore di Dio perché i poveri e i sofferenti, che
avranno sperimentato la vostra carità, vi accolgano grati un giorno nella
casa del Padre»[251].
VII. Conclusione
154. In definitiva, sebbene ciascuna unione sponsale sia una realtà
unica, incarnata nei limiti umani, ogni matrimonio autentico è un’unità
composta da due singoli, che richiede una relazione così intima e
totalizzante da non poter essere condivisa con altri. Allo stesso tempo,
poiché è un’unione tra due persone che hanno esattamente la stessa dignità e
gli stessi diritti, essa esige quell’esclusività che impedisce all’altro di
essere relativizzato nel suo valore unico e di essere usato solo come mezzo
tra gli altri per soddisfare dei bisogni. Questa è la verità della monogamia
che la Chiesa legge nella Scrittura, quando afferma che da due diventano
“una sola carne”. È la prima caratteristica essenziale e inalienabile di
quell’amicizia così peculiare che è il matrimonio, e che richiede come
manifestazione esistenziale una relazione totalizzante – spirituale e
corporea – che matura e cresce sempre più verso un’unione che rifletta la
bellezza della comunione trinitaria e dell’unione tra Cristo e il suo amato
Popolo. Ciò si verifica a un punto tale che possiamo riconoscere
«nell’intima unione coniugale, per cui due persone diventano un cuore,
un’anima, una carne, il primo senso originario del matrimonio»[252].
155. Il cammino seguito lungo questa Nota permette ora di
evidenziare uno sviluppo del pensiero cristiano sul matrimonio,
dall’antichità ai giorni nostri, dove è evidente che delle sue due proprietà
essenziali – unità e indissolubilità – l’unità è la proprietà
fondante.
Da un lato, perché l’indissolubilità deriva come caratteristica di un’unione
unica ed esclusiva. Dall’altro, perché l’unità-unione, accettata e vissuta
con tutte le sue conseguenze, rende possibili la permanenza e la fedeltà che
l’indissolubilità esige. Infatti, diversi documenti magisteriali hanno
descritto l’unione matrimoniale semplicemente come «indissolubile
unità»[253].
156. Quest’unione esige la crescita costante dell’amore: «l’amore
matrimoniale non si custodisce prima di tutto parlando dell’indissolubilità
come di un obbligo, o ripetendo una dottrina, ma fortificandolo grazie ad
una crescita costante sotto l’impulso della grazia. L’amore che non cresce
inizia a correre rischi, e possiamo crescere soltanto corrispondendo alla
grazia divina mediante più atti di amore, con atti di affetto più frequenti,
più intensi, più generosi, più teneri, più allegri»[254].
L’unità matrimoniale non è solo una realtà che deve essere sempre meglio
compresa nel suo senso più bello, ma anche una realtà dinamica, chiamata a
uno sviluppo continuo. Come afferma il Concilio Vaticano II, il marito e la
moglie «sperimentano il senso della propria unità e sempre più pienamente
la conseguono»[255].
Perché «il meglio è quello che non è stato ancora raggiunto, il vino
maturato col tempo»[256].
Il Sommo Pontefice Leone XIV, nell’Udienza concessa al sottoscritto
Prefetto insieme al Segretario per la Sezione Dottrinale del Dicastero per la
Dottrina della Fede, il giorno 21 novembre 2025, Memoria Liturgica della
Presentazione della Beata Vergine Maria, ha approvato la presente Nota,
deliberata nella Sessione Ordinaria di questo Dicastero in data 19 novembre
2025, e ne ha ordinato la pubblicazione.
Dato a Roma, presso la sede del Dicastero per la Dottrina della Fede, il 25
novembre 2025.
Víctor Manuel Card. Fernández
Prefetto
Mons. Armando Matteo
Segretario
per la Sezione Dottrinale
Ex Audientia Die 21 novembris 2025
LEO PP XIV
[1] Francesco,
Udienza generale (23 ottobre 2024): L’Osservatore
Romano (23 ottobre 2024), 2..
[2]
Giovanni Paolo II,
Omelia nella Messa per le famiglie a Kinshasa (3 maggio 1980), n.
2: AAS 72 (1980), 425.
[3] La «Symposium of
Episcopal Conferences of Africa and Madagascar» (SECAM) ha assunto
l’impegno di redigere un report per il Sinodo dei Vescovi sulle sfide
della poligamia. Nell’attesa di tale documento, sembra opportuno
rilevare che, secondo un’opinione comune, il matrimonio monogamo in
Africa sarebbe da ritenere un dato eccezionale, data la diffusione della
pratica della poligamia in tali regioni. Invece, studi approfonditi
sulle culture africane mostrano che le diverse tradizioni attribuiscono
un’importanza speciale al primo matrimonio tra un uomo e una donna e,
soprattutto, al ruolo che la prima sposa è chiamata a svolgere nei
confronti delle altre spose. Infatti, le ricerche indicano piuttosto che
la poligamia sia una pratica tollerata a causa delle necessità della
vita (assenza di prole, levirato, manodopera per la sopravvivenza,
ecc.). Molte tradizioni promuovono infatti il modello monogamico come
l’ideale del matrimonio che corrisponde ai disegni divini. La prima
moglie, regolarmente sposata secondo i costumi tradizionali, è spesso
presentata come quella data da Dio all’uomo, sebbene quest’ultimo possa
accogliere altre donne. Nel caso della poligamia, alla prima moglie è
riconosciuto un posto speciale nel compiere i riti sacri legati ai
funerali o nell’occuparsi dell’educazione dei figli nati da altre donne
nella famiglia. È interessante rilevare che, negli ultimi decenni, in
alcuni Stati, il legislatore civile ha stabilito la monogamia quale
regime matrimoniale ordinario (cf. Société Africaine de Culture, Les
religions africaines comme source de valeurs de civilisation. Colloque de Cotonou, 16-22 août 1970, Présence Africaine, Paris 1972; Isidore de Souza, «Mariage et famille», in
Revue de l’Institut Catholique de l’Afrique de l’Ouest 5-6 [1993], 164; Id.,
«Notion et réalité de la famille en Afrique et dans la Bible», in Savanes
Forêts 30 [1984], 145-146).
[4] Can. 1056
CIC
(corsivo aggiunto). Cf. can. 776, § 3
CCEO.
[5] Can. 1134
CIC
(corsivo aggiunto). Cf.
Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1638.
[6] Il Supplemento della
Summa Theologiae (Suppl., q. 44, a. 3) afferma la definizione del
matrimonio data da Pietro Lombardo in Id., Sent. IV, d. 27, c. 2 (164): «Sunt igitur nuptiae vel matrimonium viri mulierisque
coniunctio maritalis, inter legitimas personas, individuam vitae consuetudinem
retinens».
[7] Tommaso d’Aquino,
Summa Theologiae, Suppl., q. 44, a. 1, resp. (corsivo
aggiunto).
[8] Giustiniano,
Institutiones, I, 9, 1: Justinian’s Institutes, P. Krueger
(ed.), Cornell University Press, Ithaca (NY) 1987, 4.
[9] D. von Hildebrand,
L’enciclica Humanae vitae: segno di contraddizione, Paoline, Roma,
1968, 43.
[10]
Giovanni Paolo II,
Esort. ap.
Familiaris consortio
(22 novembre 1981), n. 19: AAS 74 (1982) 101-102 (corsivo
aggiunto).
[11] Agostino, In
Ioannis Evangelium, tract. XXVI, 4 («Da amantem, et sentit quod dico»): PL 35, 1608.
[12]
Paolo VI,
Discours aux Foyers des Équipes Notre-Dame (4 maggio 1970), n. 6:
AAS 62 (1970) 430.
[13]
Benedetto XVI,
Incontro con i giovani della diocesi di
Roma in preparazione alla XXI Giornata mondiale della gioventù (6
aprile 2006), n. 2: AAS 98 (2006), 351. Cf.
Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio
(22 novembre 1981), n. 68: AAS 74 (1982), 163-165.
[14]
Giovanni Paolo II,
Udienza generale (13 agosto 1980), n. 2:
Insegnamenti III, 2 (1980), 397.
[15] Cf.
Pontificia Commissione Biblica,
Che cos’è l’uomo? (Sal 8,5). Un itinerario di antropologia biblica
(30 settembre 2019), n. 173: Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 2019, 148-149.
[16]
Francesco, Esort. ap. Amoris
laetitia (19 marzo 2016), n. 12: AAS 108 (2016), 315-316.
[17]
Benedetto XVI, Lett. enc.
Deus caritas est (25 dicembre 2005), n. 11: AAS 98 (2006), 226-227.
[18]
Francesco, Esort. ap. Amoris
laetitia (19 marzo 2016), n. 13: AAS 108 (2016), 316.
[19]
Giovanni Paolo II,
Udienza generale (27 agosto 1980), n. 4: Insegnamenti III,
2 (1980), 454.
[20]
Benedetto XVI,
Discorso in occasione del XXV anniversario della
fondazione del Pontificio Istituto «Giovanni Paolo II» per
studi su matrimonio e famiglia (11 maggio 2006): Insegnamenti
II, 1 (2006), 579. Cf. Id., Lett. enc.
Deus caritas est (25 dicembre 2005), n. 11: AAS
98 (2006), 226-227.
[21] Cf.
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 48:
AAS 58 (1966), 1067;
Francesco, Esort. ap.
Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 67: AAS 108
(2016), 338.
[22] In greco: «Τίμιος
ὁ γάμος ἐν πᾶσιν καὶ ἡ κοίτη ἀμίαντος» (Eb 13,4).
[23] Giovanni Crisostomo,
De virginitate, 19: PG 48, 547.
[24] Agostino, De Genesi ad litteram, IX, cap. 7, n. 12:
PL 34, 397.
[25] Id., De bono coniugali, 1, 1:
PL 40, 373.
[26] Tertulliano, Ad
uxorem, II, 8, 6-7: CCSL 1, 393, come citato nel
Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1642 (cf. PL 1, 1302A-B).
Si osserva a margine che Tertulliano ha trattato il tema della monogamia
in un’opera specifica: De monogamia (PL 2, 929-954). Inoltre, un
altro Padre che ha affrontato direttamente l’argomento è Girolamo. Cf.
Epistula 123, ad Geruchiam de monogamia (PL 22, 1046-1059).
[27] Ambrogio, Expositio Evangelii secundum Lucam, VIII, 7: PL 15, 1767.
[28] Giovanni Crisostomo,
Commentarium in Matthaeum, hom. 62, 2: PG 58, 597.
[29] Lattanzio,
Divinae institutiones, VI, 23: PL 6, 720.
[30] Cf.
Pio XII, Lett.
enc.
Mystici Corporis Christi (29 giugno 1943), «Matrimonio
enim, quo coniuges sibi invicem sunt ministri gratiae, externo
Christianae consortionis providetur ordinateque incremento»: AAS
35 (1943), 202.
[31] Giovanni Crisostomo,
Homiliae in Epistolam I ad Timotheum., hom. 9, cap. II: PG 62,
546. La
Commissione Teologica Internazionale ha cercato di accogliere lo
sguardo dell’Oriente cristiano spiegando che bisogna evitare che il
valore del consenso dei coniugi «faccia del sacramento una pura e sola
emanazione del loro amore. Il sacramento come tale appartiene totalmente
al mistero della chiesa in cui sono introdotti, in modo privilegiato,
dal loro amore coniugale» (Commissione Teologica Internazionale,
La
dottrina cattolica sul sacramento del matrimonio [1977], B. Le
“sedici tesi cristologiche” di Gustave Marthelet, S.I., approvate “in
forma generica” dalla Commissione Teologica Internazionale, tesi 10).
[32] Clemente di Alessandria,
Stromata III, 12: PG 8, 1185B, che cita Rm 7,12.
[33] Giovanni Crisostomo,
Quales ducendae sint uxores, 3: PG 51, 230 (corsivo aggiunto).
[34] Gregorio Nazianzeno,
Oratione 37, 7: PG 36, 291.
[35] Bonaventura, Breviloquium, VI, 13, 3, tr. a cura di M. Aprea, in
Opuscoli
teologici/2. Breviloquio, Opere di San Bonaventura 5/2, Città
Nuova, Roma 1996, 293-295.
[36] A.M. de’ Liguori,
Theologia moralis (Editio nova Leonardi Gaudé), Typis Polyglottis
Vaticanis, Roma 1912, lib. VI, tract. VI, cap. II, dub. I, n. 882.
[37] Cf. Ibid.,
n. 882: «Invece, i fini accidentali estrinseci possono essere molti,
come il conseguimento della pace, la ricerca del piacere, ecc.».
[38] Ibid., n.
883.
[39] Cf. D. von Hildebrand,
Il matrimonio, tr. a cura di B. Magnino, Morcelliana, Brescia
1959.
[40] Id., Metaphysik der Gemeinschaft. Untersuchungen über Wesen und Wert der
Gemeinschaft, Kirche und Gesellschaft 1, Haas & Grabherr, Augsburg 1930, 40.
[41] Ibid., 45.
[42] A. von Hildebrand,
Man and Woman: A Divine Invention, Sapientia
Press, Ave Maria (FL) 2010, xiii.
[43] Ibid., 58.
[44] Ibid., 10.
[45] Ibid.,
135-136.
[46] Cf.
Francesco, Esort. ap.
Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 181:
AAS 108 (2016),
383.
[47] H.U. von Balthasar,
«Pneuma e istituzione», in Spirito e istituzione. Saggi teologici IV,
Jaca Book, Milano 2019, 232.
[48] Ibid.,
236-237.
[49] H.U. von Balthasar,
Gli stati di vita del Cristiano, Jaca Book, Milano 20173,
202-203.
[50] Id., «Pneuma e
istituzione», op. cit., 234.
[51] K. Rahner, Schriften zur Theologie, Band VIII, Benzinger,
Einsiedeln–Zürich–Köln 1967, 539.
[52] Cf. Id., Sul
matrimonio, tr. a cura di G. Ruggieri, Meditazioni teologiche 6,
Queriniana, Brescia 1966, 10.
[53] Ibid.
[54] Id., Chiesa e
sacramenti, tr. a cura di A. Bellini, Morcelliana, Brescia 19693,
106.
[55] A. Schmemann, For the Life of the World. Sacraments and Orthodoxy,
St. Vladimir’s Seminary Press, Crestwood (NY) 19982, 90-91.
[56] P.N. Evdokimov, Il matrimonio, sacramento dell’amore, tr. a cura di L. Marino,
Spiritualità orientale, Magnano 2008, 165. (Ed. italiana di Id., Le mariage, sacrement de l’amour, Editions du Livre
Français, Lyon 1944.)
[57] J. Meyendorff,
Marriage, An Orthodox Perspective, St. Vladimir’s
Seminary Press, Crestwood (NY) 20003, 16.
[58] I. Zizioulas, Comunione e alterità, tr. a cura di M. Campatelli – G. Cesareo,
Lipi, Roma 2016, 11.
[59] C. Yannaras, La
libertà dell’ethos, tr. a cura di B. Petrà, Sequela oggi, Qiqajon,
Magnano (BI) 2015, 164ss.
[60] Ibid.
[61] Innocenzo III, Lett.
Gaudemus in Domino (1201): DH 778.
[62] Cf. Ibid.: DH 779.
[63] Concilio di Lione II,
Sessione IV (6 luglio 1274), Professione di fede dell’Imperatore
Michele VIII Paleologo: DH 860.
[64] Cf. Concilio di Trento, Sessione XXIV (11 novembre 1563),
Dottrina sul Sacramento del Matrimonio: DH 1798.
[65]
Benedetto XIV,
Dichiarazione Matrimonia quae in locis (4 novembre 1741), n. 2:
DH 2517.
[66]
Leone XIII, Lett. enc.
Arcanum divinae Sapientiae (10 febbraio 1880):ASS
12
(1879), 386-387 (corsivo aggiunto).
[67]
Ibid., 387.
[68] Ibid., 389.
[69]
Ibid., 394.
[70]
Pio XI, Lett. enc.
Casti connubii (31 dicembre 1930):
AAS 22 (1930), 546.
[71]
Ibid., AAS
22 (1930), 547-548 (corsivo aggiunto); cf. Agostino, De bono
coniugali 24, 32: PL 40, 394D.
[72]
Pio XI,
Lett. enc.
Casti connubii (31 dicembre 1930):
AAS 22 (1930), 548
(corsivo aggiunto).
[73]
Ibid.: AAS
22 (1930), 566.
[74]
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 48:
AAS 58 (1966), 1067.
[75]
Ibid., n.
48: AAS 58 (1966), 1068 (corsivo aggiunto).
[76]
Ibid.
[77]
Ibid., n. 49:
AAS 58 (1966), 1070.
[78]
Ibid.
[79]
Ibid.
[80] Ibid.
[81] Questa stessa argomentazione è stata ripresa da
San Giovanni Paolo II quando
spiegava che la poligamia «è contraria alla pari dignità personale dell’uomo e
della donna, che nel matrimonio si donano con un amore totale e perciò stesso
unico ed esclusivo» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio
[22 novembre 1980], n. 19: AAS 74 [1982], 102; cf.
Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. Gaudium et spes
[7 dicembre 1965], n. 47: AAS 58
[1966], 1067).
[82]
Paolo VI,
Lett. enc.
Humanae vitae
(25 luglio 1968), n. 12: AAS 60 (1968),
488-489 (corsivo aggiunto).
[83] Cf.
ibid., n. 8:
AAS 60 (1968), 485-486.
[84]
Ibid., n. 12:
AAS 60 (1968), 489.
[85]
Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio
(22 novembre 1981), n. 11: AAS 74 (1982), 92.
[86] Cf. Id.,
Udienza
generale (2 gennaio 1980): Insegnamenti III, 1 (1980), 11-15; Id.,
Udienza generale
(9 gennaio 1980): Insegnamenti III, 1
(1980), 88-92; Id.,
Udienza generale
(16 gennaio 1980): Insegnamenti III, 1 (1980), 148-152.
[87] Cf.
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes
(7 dicembre 1965), n. 24: AAS 58 (1966), 1045.
[88]
Giovanni Paolo II,
Omelia nella Messa per le famiglie a Kinshasa (3 maggio 1980), n.
2: AAS 72 (1980), 425.
[89]
Giovanni Paolo II,
Udienza generale (13 agosto 1980), nn. 3-4:
Insegnamenti
III, 2 (1980), 398-399.
[90] Cf. Id.,
Udienza generale (20 agosto 1980):
Insegnamenti III, 2
(1980), 415-419.
[91] Id.,
Omelia nella Messa per le famiglie a Kinshasa (3 maggio 1980), n. 2:
AAS
72 (1980), 425.
[92] Id.,
Udienza
generale (27 agosto 1980), nn. 1, 4: Insegnamenti III, 2
(1980), 451, 453-454.
[93] Id.,
Udienza
generale (24 settembre 1980), n. 5: Insegnamenti III, 2
(1980), 719-720.
[94] Id., Esort. ap. Familiaris consortio
(22 novembre 1981), n. 19: AAS 74 (1982), 102.
[95]
Benedetto XVI, Lett. enc.
Deus caritas est (25 dicembre 2005), n. 11:
AAS 98
(2006), 227.
[96]
Ibid., n. 6:
AAS 98 (2006), 222.
[97]
Francesco, Esort. ap. Amoris
laetitia (19 marzo 2016), n. 92: AAS 108
(2016), 348.
[98]
Ibid., n. 93:
AAS 108 (2016), 348.
[99]
Ibid., n. 99:
AAS 108 (2016), 350.
[100]
Ibid., n. 100:
AAS 108 (2016), 351.
[101] Cf.
Ibid., nn. 101-102:
AAS 108 (2016), 351-352.
[102]
Ibid., n. 103:
AAS 108 (2016), 352.
[103]
Ibid., n. 108:
AAS 108 (2016), 354.
[104]
Ibid., n. 110:
AAS 108 (2016), 354.
[105]
Ibid., n. 115:
AAS 108 (2016), 356.
[106]
Ibid., n. 116:
AAS 108 (2016), 356.
[107]
Ibid., n.
122: AAS 108 (2016), 359, che cita
Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22
novembre 1981), 9: AAS 74 (1982), 90.
[108]
Francesco, Esort. ap. Amoris
laetitia (19 marzo 2016), n. 130: AAS 108 (2016), 362.
[109] Cf.
Leone XIV,
Messaggio in occasione del 10° anniversario della canonizzazione dei
genitori di Santa Teresa di Gesù Bambino (18 ottobre 2025):
L’osservatore Romano (18 ottobre 2025), 5.
[110] Cf. Agostino, Enarrationes in Psalmos
127, 3: PL 37, 1679: «non ille unus et
nos multi, sed et nos multi in illo uno unum».
[111]
Leone XIV,
Omelia per la Messa del Giubileo delle famiglie, dei nonni e degli
anziani (1° giugno 2025): L’Osservatore Romano (2 giugno
2025), 2; che cita
Paolo VI,
Lett. Enc.
Humanae vitae
(25 luglio 1968), n. 9: AAS 60 (1968),
486-487.
[112] Can. 1055, § 1
CIC
(corsivo aggiunto). Cf. can. 776, § 1-2
CCEO.
[113]
Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1645.
[114]
Ibid., n. 1646.
[115]
Ibid., n. 2381.
[116]
Ibid., n. 2387.
[117] Tommaso d’Aquino,
Summa contra Gentiles, III, cap. 123, n. 4.
[118] Cf. Id.,
Summa Theologiae, I, q. 92, a. 3, resp.; cf. Id., Summa contra Gentiles, III, cap.
123, n. 4.
[119] Id., Summa contra Gentiles, III, cap. 124, n. 1.
[120] Ibid., cap. 123, nn. 3-4.
[121] Ibid., cap. 124, nn. 3-5; che cita Aristotele,
Etica Nicomachea, VIII, c. 5,
n. 5; ibid., VIII, c. 6, n. 2.
[122] Tommaso d’Aquino,
Summa contra Gentiles, III, cap. 123, n. 6 (corsivo aggiunto).
[123] A.-D. Sertillanges,
L’amore cristiano, IPL, Milano 1947, 87.
[124] Ibid.,
79.
[125] Ibid.,
91.
[126] Ibid.,
92.
[127] Ibid.,
94.
[128] S. Kierkegaard,
«Validità estetica del matrimonio», in Enten-Eller. Un frammento di
vita, IV, tr. a cura di A. Cortese, Piccola Biblioteca Adelphi 120,
Adelphi, Milano 19814, 154. (N.B. da Enten-Eller,
II, nel testo originale danese.)
[129] Ibid.,
153-154.
[130] S. Kierkegaard,
«L’equilibrio fra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della
personalità», Enten-Eller. Un frammento di vita, V, tr. a cura di
A. Cortese, Piccola Biblioteca Adelphi 232, Adelphi, Milano 1989, 207.
(N.B. da Enten-Eller, II, nel testo originale danese.)
[131] S. Kierkegaard,
«Validità estetica del matrimonio», op. cit., 92.
[132] Ibid.,
39.
[133] Ibid.,
40.
[134] Ibid.,
86.
[135] E. Mounier, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, tr. a cura di A. Lamacchia,
Ecumenica, Cassano (BA) 1975, 66.
[136] Cf. ibid., 82.
[137] Ibid., 130.
[138] Ibid., 131.
[139] J. Lacroix,
Force et faiblesses de la famille, Éditions du Seuil,
Paris 1948, 56.
[140] Ibid., 54.
[141] Ibid., 58.
[142] Ibid., 58.
[143] Ibid., 61-62.
[144] Ibid., 55.
[145] Cf. E. Lévinas,
Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, tr. a cura di A. Dell’Asta,
Di fronte e attraverso 92, Jaca Book, Milano 2006, 191-253.
[146] Ibid.,
265.
[147] K. Wojtyła,
Amore e responsabilità, tr. a cura di A. Milanoli, Marietti,
Genova–Milano 1980, 161.
[148] Cf. Ibid.
[149] Ibid., 155.
[150] Ibid.
[151] Ibid., 29.
[152] Ibid., 159.
[153] Ibid., 43.
[154] Ibid., 44.
[155] Ibid., 62.
[156] Ibid., 63.
[157] J. Maritain, Riflessioni sull’America, tr. a cura di A. Barbieri, Opere di
Jacques Maritain 1, Morcelliana, Brescia 20223, 109.
[158] Ibid.
[159] Ibid.,
110.
[160] Ibid.
[161] Ibid.
[162] Cf. J. Maritain,
Amore e amicizia, Morcelliana, Brescia 1964, 19878.
[163] Ibid., passim.
[164] Ibid.,
14.
[165] Ibid.,
15.
[166] Ibid., 18
(corsivo aggiunto).
[167] Manusmṛti
9, 101-102.
[168] Srimad
Bhagavatam IX, 10.54.
[169] Thirukkural,
54 e 56.
[170]
Francesco, «Lettera ai poeti», in Id.,
Viva la poesia!, A. Spadaro
(ed.), Libreria Editrice Vaticana, Roma 2025, 178.
[171] Ibid., 178-179.
[172] W. Whitman, «We Two—How Long We Were Fool’d», in Id.,
Leaves of Grass, New York
1867, 114: «We have circled and circled till we have arrived home again—we
two have».
[173] P. Neruda, «Soneto LXXXI», in Id.,
Veinte poemas de amor y una canción. Cien sonetos de amor, Colección Biblioteca Premios Nobel 2, Altaya, Barcelona 1995, 203: «Ninguna
más, amor, dormirá con mis sueños. / Irás, iremos juntos por las aguas del
tiempo […]».
[174] E. Montale, «Ho
sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale», in Satura
(1962–1970), Mondadori, Milano 1971, 37.
[175] A. Pozzi,
«Bellezza», in Parole. Diario di poesia, Mondadori, Milano 1964,
191-192.
[176] P. Neruda, «Pido silencio», in
Extravagario (1958), in Obras completas, II:
De “Odas elementales” a “Memorial de Isla Negra”, 1954–1964, Opera Mundi,
H. Loyola (ed.), Galaxia Gutenberg–Círculo de Lectores, Barcelona 1999, 626-628:
«Yo voy a cerrar los ojos y solo quiero cinco cosas, cinco raíces preferidas. Una
es el amor sin fin… La quinta cosa son tus ojos, Matilde mía, bienamada, no
quiero dormir sin tus ojos, no quiero ser sin que me mires».
[177] P. Éluard, «Nous deux», in
Derniers poèmes d’amour, Seghers, Paris 1963, 1965: «Nous deux nous tenant par la main / Nous nous croyons partout chez
nous […] / Auprès des sages et des fous / Parmi les enfants et les grands».
[178] R. Tagore,
«Cuore (Il Giardiniere, 28)», tr. a cura di R. Russo, in
Parole d’amore, TS Edizioni, Milano 2021.
[179] E. Dickinson, «That Love is all there is» (1765), in
The Complete Poems of Emily Dickinson, T.H. Johnson (ed.), Little,
Brown and Company, Boston – Toronto 1960, 714: «That Love is all there is, /
Is all we know of Love».
[180] Leone I, Lett.
Regressus ad nos (21 marzo 458), c. 1: DH 311.
[181] Tommaso d’Aquino,
Summa Theologiae, II-II, q. 23, a. 1, resp. (corsivo
aggiunto).
[182] Rituale
romano. Rito del Matrimonio, n. 71: Libreria Editrice Vaticana, Roma
2008, 44-45.
[183]
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 48:
AAS 58 (1966) 1067. Cf. can. 1057 § 2 CIC; can. 817 § 1
CCEO.
[184]
Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1627.
[185]
Paolo VI,
Lett. enc.
Humanae vitae
(25 luglio 1968), n. 8: AAS 60 (1968),
485-486 (corsivo aggiunto).
[186] K. Wojtyła,
Amore e responsabilità, tr. a cura di A. Milanoli, Marietti,
Genova–Milano 1980, 61-62.
[187]
Giovanni Paolo II,
Omelia nella Messa per le famiglie a Kinshasa (3 maggio 1980),
n. 2: AAS 72 (1980), 425.
[188]
Francesco, Esort. ap. Amoris
laetitia (19 marzo 2016), n. 100: AAS 108 (2016), 351
(corsivo aggiunto).
[189]
Ibid., n. 131:
AAS 108 (2016), 362 (corsivo aggiunto).
[190]
Ibid., n. 319:
AAS 108 (2016), 443 (corsivo aggiunto).
[191]
Ibid., n. 163:
AAS 108 (2016), 375 (corsivo aggiunto).
[192]
Ibid., nn. 163-164:
AAS 108 (2016), 375-376 (corsivo
aggiunto).
[193]
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 24:
AAS 58 (1966), 1045.
[194] Cf.
Dicastero per la Dottrina della Fede,
Decl.
Dignitas infinita
(8 aprile 2024), Presentazione e nn. 1, 6.
[195]
Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 357 (corsivo aggiunto).
[196] K. Wojtyła,
Amore e responsabilità, tr. a cura di A. Milanoli, Marietti,
Genova–Milano 1980, 29.
[197]
Francesco, Esort. ap. Amoris
laetitia (19 marzo 2016), n. 175: AAS 108
(2016), 381.
[198]
Ibid., n. 220:
AAS 108 (2016), 399.
[199]
Ibid., n. 155:
AAS 108 (2016), 371.
[200]
Ibid., n. 155:
AAS 108 (2016), 371.
[201]
Ibid., n. 320:
AAS 108 (2016), 443.
[202] Tommaso d’Aquino,
Summa Theologiae, III, q. 64, a. 1, resp.: «solus Deus illabitur animae».
[203] Cf. Id., De veritate, q. 28, a. 2, ad 8; Id.,
Summa contra Gentiles, II, cap. 98, n. 18; ibid., III, cap. 88, n. 6; Bonaventura,
Collationes in Hexaemeron,
21, 18.
[204] Cf. Bonaventura,
In Sent., I, d. 14, a. 2, q. 2, ad 2: in Id., Opera theologica
selecta, I, Quaracchi 1934, 205-206. Cf. Ibid., q. 2, fund. 4
e 8 (Quaracchi 1934, 205).
[205]
Francesco, Esort. ap. Amoris
laetitia (19 marzo 2016), n. 320: AAS 108 (2016), 443.
[206]
Paolo VI,
Lett. enc.
Humanae vitae
(25 luglio 1968), n. 8: AAS 60 (1968), 486
(corsivo aggiunto).
[207]
Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio
(22 novembre 1981), n. 59: AAS 74 (1982), 152.
[208] A.-D. Sertillanges,
L’amore cristiano, IPL, Milano 1947, 97 (corsivo aggiunto).
[209] Cf. J.-L. Marion,
Il fenomeno erotico. Sei meditazioni., tr. a cura di L. Tasso,
Cantagalli, Siena 2007.
[210] Tommaso d’Aquino, In Sent., I, d. 15, q. 4, a. 1, co.
[211]
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen
gentium (7 dicembre 1965), n. 41: AAS 57 (1965), 47.
[212] Tommaso d’Aquino,
Summa Theologiae, II-II, q. 23, a. 1, resp.
[213]
Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1641.
[214] Rituale
romano. Rito del Matrimonio, n. 74: Libreria Editrice Vaticana, Roma
2008, 47.
[215]
Giovanni Paolo II,
Familiaris consortio
(22 novembre 1981), n. 59: AAS 74 (1982), 152.
[216] Tommaso d’Aquino,
Summa Theologiae, II-II, q. 27, a. 2, resp.
[217] Cf. Ibid.,
II-II, q. 23, a. 2, resp.: «L’amore è per sé stesso un atto
della volontà».
[218] Ibid., I-II, q. 26, a. 3,
resp.
[219] Ibid.,
II-II, q. 27, a. 2, resp.
[220] Rituale
romano. Rito del Matrimonio, n. 71: Libreria Editrice Vaticana, Roma
2008, 44-45.
[221] Cf. Tommaso d’Aquino,
Summa Theologiae, II-II, q. 23, a. 1.
[222]
Francesco, Esort. ap. Amoris
laetitia (19 marzo 2016), n. 123: AAS 108 (2016), 359,
che citaTommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, III, cap. 123. Cf.
Aristotele, Etica
Nicomachea, 8, 12 (ed. Bywater, Oxford 1984, 174).
[223]
Francesco, Esort. ap. Amoris
laetitia (19 marzo 2016), n. 150: AAS 108 (2016), 369.
[224]
Ibid., n. 74:
AAS 108 (2016), 340.
[225] Tommaso d’Aquino,
Summa Theologiae, II-II, q. 142, a. 1, resp.
[226] Cf. Ibid.,
I, q. 98, a. 2, ad 3; II-II, q. 153, a. 2, ad 2.
[227] Ibid.,
I, q. 98, a. 2, ad 3.
[228] Ibid., II-II, q. 153, a. 2, ad 2.
[229] K. Wojtyła,
Amore e responsabilità, tr. a cura di A. Milanoli, Marietti,
Genova–Milano 1980, 89.
[230]
Benedetto XVI, Lett. enc.
Deus caritas est (25 dicembre 2005), n. 8:
AAS 98
(2006), 224.
[231]
Ibid., n. 7:
AAS 98 (2006), 223-224.
[232]
Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio
(22 novembre 1981), n. 11: AAS 74 (1982), 92.
[233] Cf.
Paolo VI,
Lett. enc.
Humanae vitae
(25 luglio 1968), n. 11: AAS 60 (1968),
488.
[234] K. Wojtyła,
Amore e responsabilità, tr. a cura di A. Milanoli, Marietti,
Genova-Milano 1980, 161.
[235] Ibid.,
173 (corsivo in originale).
[236]
Paolo VI,
Lett. enc.
Humanae vitae (25 luglio 1968), n. 16:
AAS 60 (1968), 492.
[237]
Ibid.
[238]
Pio XI,
Lett. enc.
Casti connubii (31 dicembre 1930):
AAS 22 (1930): 547-548
[cf. DH 3707].
[239] Agostino, De bono coniugali, 3, 3: PL 40, 375.
[240] Giovanni Crisostomo,
Homiliae in Epistolam ad Colossenses, hom. 12, cap. V: PG 62, 388.
[241]
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 50:
AAS 58 (1966), 1072.
[242] P.J. Viladrich, «Amor conyugal y esencia del matrimonio»,
Ius canonicum 12 (1972), 311.
[243]
Benedetto XVI,
Lett. enc.
Caritas in veritate
(29 giugno 2009), n. 53: AAS 101
(2009), 689.
[244]
Ibid.
[245]
Francesco, Lett. enc.
Fratelli tutti (3 ottobre 2020), n. 60:
AAS 112 (2020),
990.
[246]
Ibid., n. 89:
AAS 112 (2020), 1007.
[247] Francesco, Esort. ap. Amoris
laetitia (19 marzo 2016), n. 181: AAS 108
(2016), 383.
[248]
Ibid., n. 324:
AAS 108 (2016), 445.
[249]
Leone XIV, Esort. ap. Dilexi
te (4 ottobre 2025), n. 104.
[250]
Ibid., n. 103.
[251] Rituale
romano. Rito del Matrimonio, n. 92: Libreria Editrice Vaticana, Roma
2008, 62.
[252] D. von Hildebrand,
Il matrimonio, tr. a cura di B. Magnino, Morcelliana, Brescia
1959, 33 (corsivo aggiunto).
[253] Cf. Concilio di Trento, Sessione XXIV (11 novembre 1563),
Dottrina sul Sacramento del Matrimonio: DH 1799 (corsivo
aggiunto);
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes
(7 dicembre 1965), n. 48: AAS 58 (1966), 1068;
Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1641.
[254]
Francesco, Esort. ap. Amoris
laetitia (19 marzo 2016), n. 134: AAS 108 (2016), 364.
[255]
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n.
48: AAS 58 (1966), 1068(corsivo aggiunto).
[256]
Francesco, Esort. ap. Amoris
laetitia (19 marzo 2016), n. 135: AAS 108 (2016), 364.
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