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DICASTERIUM PRO DOCTRINA FIDEI

UNA CARO

Elogio della monogamia

Nota dottrinale sul valore del matrimonio
come unione esclusiva e appartenenza reciproca

 

 

Indice

Presentazione

I. Introduzione

II. La monogamia nella Bibbia

La monogamia nel capitolo 2 della Genesi
Il simbolismo nuziale profetico
La letteratura sapienziale
La simbologia nuziale del Nuovo Testamento

III. Echi della Scrittura nella storia

Alcune riflessioni di teologi cristiani
Primi sviluppi sull’unità e la comunione matrimoniale nei Padri della Chiesa
Alcuni autori medievali e moderni
Lo sviluppo della visione teologale nei tempi recenti
Interventi magisteriali

Primi interventi
Leone XIII
Pio XI
I tempi del Concilio Vaticano II
San Giovanni Paolo II
Benedetto XVI
Francesco
Leone XIV

IV. Alcuni sguardi dalla filosofia e delle culture

Nel pensiero cristiano classico
Comunione di due persone
Una persona interamente riferita a un’altra
Faccia a faccia
Il pensiero di Karol Wojtyła
Più in là
Altri sguardi

V. La parola poetica

VI. Alcune riflessioni da approfondire

Appartenenza reciproca

La trasformazione
La non appartenenza
Reciproco aiuto

Carità coniugale

Una particolare forma di amicizia
In corpo e anima
La multiforme fecondità dell’amore
Un’amicizia aperta a tutti

VII. Conclusione

 

Presentazione

Questo è un testo per la Chiesa universale, che può tuttavia essere preso in giusta considerazione in ogni luogo di fronte alle sfide culturali locali. Il documento, infatti, prende sul serio l’attuale contesto globale di sviluppo del potere tecnologico, nel quale l’essere umano è tentato di pensare a sé stesso come ad una creatura senza limiti, che può ottenere tutto ciò che immagina. In questo modo, viene facilmente offuscato il valore di un amore esclusivo, riservato a una sola persona, cosa che di per sé implica la rinuncia libera a molte altre possibilità.

In verità, l’intenzione di questa Nota è fondamentalmente propositiva: estrarre dalle Sacre Scritture, dalla storia del pensiero cristiano, dalla filosofia e persino dalla poesia, ragioni e motivazioni che spingano a scegliere un’unione d’amore unica ed esclusiva, un’appartenenza reciproca ricca e totalizzante.

Si tratta di uno sforzo che permetterà di arricchire la riflessione e l’insegnamento sul matrimonio con un aspetto finora non molto sviluppato. Allo stesso tempo, potrà costituire per i movimenti e gruppi matrimoniali un materiale vario e utile per lo studio e il dialogo. Ciò rende ragione della lunghezza della Nota e del numero di autori e di testi che sono stati citati: ad alcuni, tale scelta potrà sembrare un’informazione eccessiva, ma noi crediamo che da ognuno degli autori e dei testi citati si possa estrarre qualche sfumatura o qualche accento diverso che stimoli una serena riflessione e un prolungato approfondimento.

Prenderemo in considerazione i più importanti interventi del Magistero e una serie di autori dall’antichità ai tempi recenti: teologi, filosofi, poeti. Abbiamo trovato una grande ricchezza di riflessioni che valorizzano l’unione dei coniugi, la reciprocità, il significato totalizzante della relazione matrimoniale. In questo modo, i diversi testi verranno a comporre un bellissimo mosaico che di sicuro arricchirà la nostra comprensione della monogamia.

Se invece si vuole cogliere soltanto una breve sintesi riflessiva per motivare la scelta di un’unione esclusiva tra una sola donna e un solo uomo, sarà sufficiente leggere l’ultimo capitolo e la conclusione della presente Nota, centrati sull’appartenenza reciproca dei coniugi e sulla carità coniugale. Ad ogni modo, ci permettiamo di suggerire la lettura paziente della Nota nella sua integralità per poter cogliere appieno tutta l’ampiezza degli aspetti che entrano in gioco in questa ricca materia. 

Víctor Manuel Card. Fernández
Prefetto


  

I. Introduzione

1. [Una caro] “Una sola carne” è il modo in cui la Bibbia esprime l’unità matrimoniale. Nel linguaggio comune, invece, “noi due” è un’espressione che compare quando in un matrimonio c’è un forte sentimento di reciprocità, ovvero la percezione della bellezza di un amore esclusivo, di un’alleanza tra due che condividono la vita nella sua interezza, con tutte le sue lotte e le sue speranze. “Noi due” lo dice una persona quando si riferisce ai desideri, alle sofferenze, alle idee e ai sogni condivisi: in una parola, quando si riferisce alle storie che solo i coniugi hanno vissuto. Questa è una manifestazione verbale di qualcosa di più profondo: una convinzione e una decisione di appartenersi mutuamente, di essere “una sola carne”, di percorrere insieme il cammino della vita. Come ha detto Papa Francesco: «Anche gli sposi dovrebbero formare una prima persona plurale, un “noi”. Stare l’uno davanti all’altro come un “io” e un “tu”, e stare di fronte al resto del mondo, compresi i figli, come un “noi”»[1]. Questo accade perché, pur essendo due persone diverse, due individualità che conservano ciascuna una propria e intrasferibile identità, hanno forgiato con il loro libero consenso un’unione che le pone insieme di fronte al mondo. È un’unione che si apre generosamente agli altri, ma sempre a partire da quella realtà unica ed esclusiva del “noi” coniugale.

2. San Giovanni Paolo II, parlando della monogamia, ha sostenuto che «merita di essere sempre più approfondita»[2]. Questa sua indicazione sulla necessità di una trattazione più ampia di questo tema è una delle motivazioni che hanno spinto il Dicastero per la Dottrina della Fede a predisporre la presente Nota dottrinale. Inoltre, all’origine di questo testo ci sono, da una parte, i vari dialoghi con i Vescovi dell’Africa e di altri continenti sulla questione della poligamia, nel contesto delle loro visite ad limina[3], e, dall’altra, la constatazione che diverse forme pubbliche di unione non monogama – a volte chiamate “poliamore” – stanno crescendo in Occidente, oltre a quelle più riservate o segrete che sono state comuni nel corso della storia.

3. Ma queste ragioni sono subordinate alla prima, perché, ben intesa, la monogamia non è semplicemente l’opposto della poligamia. È molto di più, e il suo approfondimento permette di concepire il matrimonio in tutta la sua ricchezza e fecondità. La questione è intimamente legata al fine unitivo della sessualità, che non si riduce a garantire la procreazione, ma aiuta l’arricchimento e il rafforzamento dell’unione unica ed esclusiva e del sentimento di appartenenza reciproca.

4. Come sancisce lo stesso Codice di Diritto Canonico: «le proprietà essenziali del matrimonio sono l’unità e l’indissolubilità»[4]. Altrove, lo stesso afferma che il matrimonio è «un vincolo di sua natura perpetuo ed esclusivo»[5]. È da rilevare l’esistenza di un’abbondante bibliografia sull’indissolubilità dell’unione coniugale nella letteratura cattolica: questo tema ha avuto molto più spazio nel Magistero, in particolare nel recente insegnamento di molti Vescovi di fronte alla legalizzazione del divorzio in vari Paesi. Sull’unità del matrimonio – il matrimonio inteso, cioè, come unione unica ed esclusiva tra un solo uomo e una sola donna – si trova, al contrario, uno sviluppo di riflessione meno ampio rispetto al tema dell’indissolubilità sia nel Magistero che nei manuali dedicati all’argomento.

5. Per questo motivo, nel presente testo si è scelto di concentrarsi sulla proprietà dell’unità e sul suo riflesso esistenziale: la comunione intima e totalizzante tra i coniugi. Per non attendere, dunque, da questa Nota qualcosa che essa non intende sviluppare, è necessario insistere sul fatto che, nelle pagine che seguono, essa non si occuperà dell’indissolubilità coniugale – un’unione che dura nel tempo fino a quando la morte non separi i coniugi cristiani – né del fine della procreazione: entrambi i temi sono abbondantemente trattati nella teologia e nel Magistero. La Nota si soffermerà solo sulla prima proprietà essenziale del matrimonio, l’unità, che può essere definita come l’unione unica ed esclusiva tra una sola donna e un solo uomo o, in altre parole, come l’appartenenza reciproca dei due, che non può essere condivisa con altri.

6. Questa proprietà è così essenziale e primaria che il matrimonio è spesso definito semplicemente come “unione”. Così, la Summa Theologiae di San Tommaso d’Aquino afferma che «il matrimonio è l’unione (coniunctio) maritale dell’uomo con la donna, contratta da persone legittime, che implica un’inscindibile comunionedi vita»[6], e che «è evidente che nel matrimonio esiste un’unione per la quale uno si dice marito e l’altra moglie; e tale unione è il matrimonio»[7]. Una definizione simile si trovava già in Giustiniano, che raccoglieva opinioni preesistenti: «è l’unione (coniunctio) dell’uomo e della donna che contiene un’inscindibile comunione di vita»[8]. Più vicino a noi, Dietrich von Hildebrand sostiene che il matrimonio «è l’unione più profonda ed intima fra persone umane»[9].

7. Già in queste definizioni classiche vediamo che l’unità dei due coniugi, come dato oggettivo fondante e proprietà essenziale di ogni matrimonio, è chiamata a una costante espressione e sviluppo come “comunione di vita”, cioè come amicizia coniugale, aiuto reciproco, condivisione totale che, con l’aiuto della grazia, rappresenta sempre più un’altra unione che la trascende e la ingloba: l’unione tra Cristo e la sua sposa amata, la Chiesa, il Popolo di Dio per il quale Egli ha dato il proprio sangue (cf. Ef 5, 25-32).

8. San Giovanni Paolo II collega intimamente questi due aspetti. Infatti, se «in forza del patto d’amore coniugale, l’uomo e la donna “non sono più due, ma una carne sola” (Mt 19,6; cf. Gen 2,24)», allo stesso tempo «sono chiamati a crescere continuamente nella loro comunione […] affinché ogni giorno progrediscano verso una sempre più ricca unione tra loro a tutti i livelli»[10].

9. In questa Nota, pertanto, verranno approfondite sia l’unità come proprietà essenziale, realtà oggettiva e costitutiva del matrimonio, caratteristica prima e fondante di ogni sua manifestazione, sia le differenti espressioni di quella medesima unità che arricchiscono e rafforzano l’alleanza coniugale, rendendo così possibile allo stesso tempo la percezione di questa unità non come un riflesso monolitico dell’unità divina, ma come espressione dell’unico Dio che è comunione nelle relazioni trinitarie.

10. Ci si augura, infine, che questa Nota sul valore della monogamia, destinata anzitutto ai Vescovi, riferita a un tema così importante, e allo stesso tempo molto bello, possa essere di aiuto alle coppie già sposate, ai fidanzati e ai giovani che pensano a una futura unione al fine di cogliere ancora meglio la ricchezza della proposta cristiana sul matrimonio. È vero che, per molti, un tale messaggio potrà suonare strano o controcorrente, ma possiamo applicare ad esso le seguenti parole di Sant’Agostino: «Dammi un cuore che ama, e capirà ciò che dico»[11]. Del resto, una vera e propria passione per la bellezza dell’amore coniugale ha trovato espressione nella dedizione di tanti credenti, uomini e donne, chierici e laici, singolarmente o in aggregazioni ecclesiali, che hanno accompagnato molte coppie nel loro cammino di vita e hanno anche sviluppato una spiritualità e una pastorale del matrimonio. Per tutti questi luminosi esempi non si può che esprimere un doveroso ringraziamento.

 

II. La monogamia nella Bibbia

11. «Non sono più due, ma una sola carne» (Mc 10,8). Questa dichiarazione di Gesù riguardo al matrimonio traduce la bellezza dell’amore, un cemento che «dà solidità a questa comunità di vita, e lo slancio che la trascina verso una pienezza sempre più perfetta»[12]. Istituito “al principio” già al momento della Creazione, il matrimonio appare come un patto coniugale voluto da Dio, quale «sacramento del Creatore dell’universo, iscritto quindi proprio nell’essere umano stesso, che è orientato verso questo cammino, nel quale l’uomo abbandona i genitori e si unisce alla sua donna per formare una sola carne, perché i due diventino un’unica esistenza»[13]. Anche se «è noto che la storia dell’Antico Testamento è teatro della sistematica defezione dalla monogamia»[14], viste ad esempio le vicende dei Patriarchi dove si legge, secondo l’usanza del tempo, di personaggi con più mogli (cf. 2 Sam 3,2-5; 11,2-27; 15,16; 1 Re 11,3), allo stesso tempo molti passi dell’Antico Testamento celebrano l’amore monogamico e l’unione esclusiva: «Siano pure sessanta le mogli del re, ottanta le concubine, innumerevoli le ragazze! Ma unica è la mia colomba, il mio tutto» (Ct 6,8-9a). Ciò è attestato anche dagli esempi di Isacco (cf. Gen 25,19-28), Giuseppe (cf. Gen 41,50), Rut (cf. Rt 2-4), Ezechiele (cf. Ez 24,15-18) e Tobia (cf. Tb 8,5-8). D’altra parte, se dal punto di vista fattuale e normativo la monogamia non ha solide basi nell’Antico Testamento, invece i suoi fondamenti teologici si sviluppano in profondità, e questa è la via feconda che verrà percorsa nelle seguenti riflessioni[15].

La monogamia nel capitolo 2 della Genesi

12. Alla radice del modello monogamico, il capitolo 2 del libro della Genesi si presenta come un vero e proprio manifesto antropologico posto all’incipit delle Scritture. Esso descrive il progetto che il Creatore propone come ideale alla libertà della creatura umana. L’esclamazione divina: «non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto (‘ēzer) che gli corrisponda» (Gen 2,18), mette chiaramente in luce il bisogno nel quale si trova l’uomo appena uscito dalle mani di Dio, ossia uno stato di solitudine-isolamento. Malgrado la presenza degli altri esseri viventi, l’uomo vuole un aiuto che gli corrisponda (cf. Gen 2,20), un alleato vivo, unico e personale, che egli possa fissare negli occhi, come suggerisce la parola keneḡdô, tradotta di solito con “simile” o “corrispondente”, per mettere in evidenza la necessità di un incontro dialogico di sguardi e di volti. Infatti, «l’espressione originale ebraica ci rimanda a una relazione diretta, quasi “frontale” – gli occhi negli occhi – in un dialogo anche tacito, perché nell’amore i silenzi sono spesso più eloquenti delle parole. È l’incontro con un volto, un “tu” che riflette l’amore divino ed è “il primo dei beni, un aiuto adatto a lui e una colonna d’appoggio” (Sir 36,26), come dice un saggio biblico»[16]. L’uomo cerca dunque un volto insostituibile davanti a sé, un “tu”, con il quale intrecciare un vero rapporto d’amore fatto di donazione e di reciprocità.

13. Nel suo commento a questo brano della Genesi, Benedetto XVI afferma: «La prima novità della fede biblica consiste […] nell’immagine di Dio; la seconda, con essa essenzialmente connessa, la troviamo nell’immagine dell’uomo. Il racconto biblico della Creazione parla della solitudine del primo uomo, Adamo, al quale Dio vuole affiancare un aiuto. Fra tutte le creature, nessuna può essere per l’uomo quell’aiuto di cui ha bisogno, sebbene a tutte le bestie selvatiche e a tutti gli uccelli egli abbia dato un nome, integrandoli così nel contesto della sua vita. Allora, da una costola dell’uomo, Dio plasma la donna. Ora Adamo trova l’aiuto di cui ha bisogno: “Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa” (Gen 2, 23). […] Nel racconto biblico non si parla di punizione; l’idea però che l’uomo sia in qualche modo incompleto, costituzionalmente in cammino per trovare nell’altro la parte integrante per la sua interezza, l’idea cioè che egli solo nella comunione con l’altro sesso possa diventare “completo”, è senz’altro presente»[17].

14. La conclusione del racconto biblico: «l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà (dāḇaq) a sua moglie e i due saranno un’unica carne» (Gen 2,24), esprime bene questo bisogno di una intima unione, un tale attaccamento fisico e interiore tale, che il Salmista lo adotta per descrivere l’unione mistica con Dio: «A te si stringe (dāḇaq) l’anima mia» (Sal 63,8; cf. 1Cor 6,16-17). Come afferma Papa Francesco, «il verbo “unirsi” nell’originale ebraico indica una stretta sintonia, un’adesione fisica e interiore, fino al punto che si utilizza per descrivere l’unione con Dio: “A te si stringe l’anima mia” (Sal 63,8), canta l’orante. Si evoca così l’unione matrimoniale non solamente nella sua dimensione sessuale e corporea, ma anche nella sua donazione volontaria d’amore. Il frutto di questa unione è “diventare un’unica carne”, sia nell’abbraccio fisico, sia nell’unione dei due cuori e della vita e, forse, nel figlio che nascerà dai due, il quale porterà in sé, unendole sia geneticamente sia spiritualmente, le due “carni”»[18]. Con la formula “una caro”, la donazione reciproca e totale della coppia diventa un rapporto esclusivo e integrale. Pertanto, con il termine suggestivo di ’iššāh applicato alla donna (cf. Gen 2,23), l’autore sacro ha voluto ricordare che queste due persone costituiscono una coppia, uguali nella loro dignità radicale, ma differenti nella loro identità individuale. La pienezza dell’unione tra esseri umani è in questa uguaglianza fatta di reciprocità necessaria, dialogica e complementare. In definitiva, secondo il progetto originale del Creatore, al quale lo stesso Gesù fa riferimento utilizzando l’espressione “in principio” nel commento sull’indissolubilità nuziale (cf. Mt 19,4), l’uomo e la donna sono chiamati nel matrimonio a una relazione unica, personale, piena e duratura, ad un’alleanza esclusiva di vita e d’amore, prioritaria rispetto allo stesso legame sociale di sangue (cf. Gen 2,24). In questa chiave di lettura, l’applicazione della metafora nuziale alla relazione di Dio con Israele, che emerge con tutta la sua forza nei testi profetici, apre un orizzonte ancora più ricco alla comprensione della vita degli sposi nella linea di una mutua appartenenza.

Il simbolismo nuziale profetico

15. Nei Profeti, le categorie dell’amore coniugale imprimono tratti particolari alla comprensione dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, non più modulata secondo il canone dei patti tra il re e i principi vassalli.

16. Emerge qui, in modo emblematico, la vicenda personale del profeta Osea (VIII sec. a. C.), la quale viene assunta a paradigma teologico per rileggere la storia d’amore tra il Signore e Israele (cfr. Os 2,4-25). Malgrado il tradimento subito dalla moglie Gomer, egli non riesce a spegnere il suo amore per lei e nutre piuttosto la speranza che ella, abbandonata e delusa dai suoi amanti, “ritorni” sulla strada di casa al fine di ricomporre in pienezza la relazione d’amore, essendo quella donna l’unica della sua vita, perdonandole i tradimenti (cf. Os 2,16-17).

17. Questa trasposizione nuziale simbolica della fedeltà divina continuerà nella tradizione profetica, con accenti diversi: Ezechiele racconta come Dio si preoccupa del suo popolo, come un uomo che stende il suo mantello su una donna (cf. Ez 16,8). Da una parte, tale gesto indica il patto coniugale nel quale si offre protezione alla consorte; dall’altra, esso mira a proteggere la donna dallo sguardo degli altri, evocando quindi l’esclusività del legame.

18. Il profeta Malachia condanna la rottura dei legami matrimoniali tra i membri d’Israele e il risposarsi con donne pagane: «perché io detesto il ripudio, dice il Signore, Dio di Israele, e chi copre d’iniquità la propria veste, dice il Signore degli eserciti» (Mal 2,16). Questo passo ha avuto anche un’altra interpretazione detta “cultuale” o “tipologica”, come se si riferisse a un’unica perversione (l’idolatria), ponendo un parallelismo implicito tra profanare l’alleanza con Dio e ingannare il coniuge (l’adulterio).

19. In definitiva, l’amore coniugale permette davvero di descrivere una dialettica di alleanza fra Israele e il Signore, fra l’umanità e Dio. L’idea di Dio come unico sposo di Israele è collegata anche a quella di Israele come unica sposa. L’unicità dell’amato traspare anche nel tema dell’elezione che fa d’Israele l’unico popolo scelto (cf. Am 3,2). L’alleanza assume dunque un’ulteriore dimensione in quanto designa il legame tra Dio e il suo popolo, basato su un legame monogamico tanto reale, che l’adorazione di un altro dio costituisce un adulterio.

20. San Giovanni Paolo II offre, al riguardo, una bella sintesi: «In molti testi la monogamia appare l’unica e giusta analogia del monoteismo inteso nelle categorie dell’Alleanza, cioè della fedeltà e dell’affidamento all’unico e vero Dio-Jahvè: Sposo di Israele. L’adulterio è l’antitesi di quella relazione sponsale, è l’antinomia del matrimonio (anche come istituzione) in quanto il matrimonio monogamico attua in sé l’alleanza interpersonale dell’uomo e della donna, realizza l’alleanza nata dall’amore e accolta dalle due rispettive parti appunto come matrimonio (e, come tale, riconosciuto dalla società). Questo genere di alleanza tra due persone costituisce il fondamento di quell’unione per cui “l’uomo... si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne” (Gen 2,24)»[19].

La letteratura sapienziale

21. Nella medesima linea si iscrive tutta la letteratura sapienziale che elogia l’unione monogamica come la vera espressione dell’amore tra un uomo e una donna. Il passo del Cantico dei Cantici: «Il mio amato è mio e io sono sua» (Ct 2,16), rappresenta qui un vero apice. In questo gioiello poetico, la donna del Cantico esprime il suo amore, usando il simbolo del sigillo che nell’antico Vicino Oriente designava una persona, la identificava e si portava o su un bracciale o con una catena sul petto: «Ponimi come sigillo sul tuo cuore e sul tuo braccio. Forte come la morte è l’amore» (8,6). L’amata, quindi, dichiara di essere quasi la “carta d’identità” del suo uomo: l’uno non esiste senza l’altra e viceversa. Intelligenza, volontà, affetto, azione, personalità intera dell’una si comunicano nell’altro in modo reciproco ed esclusivo, in piena simbiosi. Contro questa unità vitale invano si erge la morte.

22. Inoltre, l’affermazione ribadita ben due volte nel Cantico dei Cantici: «Il mio amato è mio e io sono sua […]. Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (Ct 2,16; 6,3), esprime questa unità di donazione totale, di reciprocità e di mutua appartenenza, come una riedizione della dichiarazione d’amore rivolta dall’uomo alla sua donna in Gen 2,23: «osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne».

23. La tradizione giudaica e quella cristiana (soprattutto nella mistica) si sono trovate concordi nell’interpretare il Cantico dei Cantici come un’allegoria dell’alleanza fra Dio e Israele, della relazione fra Dio e l’anima. In senso simbolico, si può affermare che il libro del Cantico dei Cantici esalta l’amore di un uomo e di una donna ponendo l’accento proprio sull’unicità di una relazione esclusiva. Nella vicenda amorosa, i due innamorati si cercano e si desiderano con una reciprocità in cui non vi è spazio per un tertium. Ebbene, questo dato antropologico fondamentale rimanda alla professione di fede d’Israele: «ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore» (Dt 6,4). Si tratta di una delle proclamazioni più solenni dell’Antico Testamento a proposito di Dio ed è una proclamazione che usa il linguaggio dell’unicità allorché professa la verità della fede. In altre parole, il Cantico afferma che, al cuore pulsante di una delle più profonde esperienze antropologiche, quale è la relazione amorosa, vi è un’unicità analoga a quella che la fede proclama a proposito di Dio. Pertanto, la monogamia è profondamente collegata all’unicità e all’esclusività del Dio d’Israele e va di pari passo con il monoteismo.

24. A tale riguardo, Benedetto XVI afferma: «Dio si è servito della via dell’amore per rivelare il mistero intimo della sua vita trinitaria. Inoltre, il rapporto stretto che esiste tra l’immagine di Dio Amore e l’amore umano ci permette di capire che “all’immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio monogamico. Il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano”. Questa indicazione resta ancora in gran parte da esplorare»[20].

25. La duplice formula: «Il mio amato è mio e io sono sua […] Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (Ct 2,16; 6,3), richiama dunque la formula teologica dell’alleanza tra Dio e l’Israele biblico: “Il Signore è tuo Dio e tu sei il suo popolo” (cf. Dt 7,6), e permette di accedere alla categoria teologica dell’alleanza quale impegno reciproco di fedeltà. La categoria biblica dell’alleanza consente, infine, di delineare la santità del matrimonio tra marito e moglie nella sua espressione di vera comunità di vita e di amore attraverso una mutua ed esclusiva donazione. Tutto ciò diverrà pienamente evidente nei testi del Nuovo Testamento[21].

La simbologia nuziale del Nuovo Testamento

26. Nel Vangelo Gesù rimanda in modo esplicito “al principio”, cioè alle origini della prima coppia umana (cf. Gen 1,27; 2,24), per ribadire che l’amore monogamico, fedele e indissolubile esalta il rapporto di coppia, pensato dal Creatore in una dimensione di totalità e di esclusività (cf. Mt 19,3-9).

27. Nelle narrazioni evangeliche di Marco e di Matteo, Gesù si è espresso in modo inequivocabile sulla monogamia richiamandosi alle origini, alla volontà del Creatore. Il dibattito con i farisei sulla possibilità del divorzio gli offre l’opportunità di un pronunciamento autorevole. Egli ribadisce il principio della monogamia che sta al fondamento del progetto di Dio sulla famiglia: «dall’inizio della creazione li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto» (Mc 10, 6-9; cf. Mt 19, 4-6). Come base della sua affermazione, Gesù unisce due elementi esegetici di peso: «li fece maschio e femmina» (Gen 1,27) e «per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e [i due] diventeranno una sola carne» (Gen 2,24). Il primo uomo e la prima donna sono dunque uniti da Dio stesso nella coppia in un’unica carne. In altre parole, Gesù restituisce validità al progetto originario di Dio, andando al di là della norma data da Mosè e richiamandone una più antica, sottolineando allo stesso tempo una presenza divina nella radice stessa di questa relazione: «Ciò che Dio ha congiunto l’uomo non lo divida» (Mt 19,6).

28. Inoltre, il Nuovo Testamento, sulla scia della teologia profetica, introduce a più riprese la simbologia nuziale nelle tematiche cristologiche ed ecclesiologiche (cf. Ap 19,7-9): Cristo è chiamato dal Battista lo “sposo” per eccellenza (cf. Gv 3,29), mentre la sposa dell’Agnello è la nuova Gerusalemme (cf. Ap 21,1ss.), madre feconda, salvata dall’assalto del drago (cf. Ap 12,3-6).

29. San Paolo sviluppa in modo sistematico il tema dell’amore nuziale pieno e perfetto tra Cristo e la Chiesa nella Lettera agli Efesini (cf. Ef 5,21-33), riprendendo tra l’altro il passo della Genesi sull’essere “una sola carne” da parte della coppia (cf. Gen 2,24). L’amore monogamico indissolubile tra i due coniugi – sempre nella linea del tema sviluppato dai profeti per definire l’alleanza tra il Signore e Israele – si rivela come il simbolo per descrivere il vincolo tra Cristo e la Chiesa. Il matrimonio cristiano nella sua autenticità e pienezza è, dunque, segno della nuova alleanza cristiana.

30. Merita attenzione anche la formula del “mistero grande”, quale traduzione dell’originale greco mysterion. Questo fu reso da San Girolamo, nella Vulgata, col termine sacramentum, il quale ha permesso alla tradizione ecclesiale di assumere la formula paolina come esplicita proclamazione della sacramentalità del matrimonio. Il passo nella sua integralità esalta in modo intenso la funzione teologica svolta dall’amore nuziale esclusivo. I due coniugi che si uniscono indissolubilmente sono un segno che rimanda all’abbraccio col quale Cristo stringe a sé la Chiesa. Gli sposi cristiani, dunque, testimoniano nel mondo non solo un legame umano, eros e agape, ma sono anche l’“immagine” vivente di un vincolo sacro e trascendente, cioè quello che unisce Cristo con la comunità dei cristiani. Già nella Genesi si definiva “immagine” del Dio creatore la coppia che ama e genera: «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Gen 1,27).

31. L’Apostolo, evocando soprattutto il passo della Genesi in cui i due, l’uomo e la donna, formano una carne sola (cf. Gen 2,24), definisce l’intimità d’amore tra marito e moglie come un emblema luminoso della comunione di vita e di carità che intercorre tra Cristo e la Chiesa (cf. Ef 5,32). Attraverso questa pagina della Lettera agli Efesini, così fragrante nella sua umanità ma anche così densa nella sua qualità teologica, Paolo non si limita a proporre un modello di comportamento matrimoniale cristiano, ma indica nell’unione perfetta e unica tra Cristo e la Chiesa la sorgente originaria del matrimonio monogamico. Esso non è solo un’immagine di quella unione, ma la riproduce e incarna attraverso l’amore dei coniugi. È segno efficace ed espressivo della grazia e dell’amore che sostanzia l’unione tra Cristo e la Chiesa.

32. Da ultimo, troviamo una bella esortazione nella Lettera agli Ebrei. Dopo l’appello alla carità (cf. Eb 13,1-3), l’Autore tratta brevemente del matrimonio, raccomandando la stima verso tale legame e il rispetto della fedeltà coniugale: «Il matrimonio sia rispettato da tutti e il letto nuziale sia senza macchia»[22] (Eb 13,4). L’Autore esorta a tenere in onore l’istituto matrimoniale, sottolineando il valore dei rapporti coniugali fedeli. Si aggiunge un solenne avvertimento: Dio giudicherà i fornicatori e gli adùlteri, ossia coloro che non rispettano la santità e l’unicità del matrimonio. L’esortazione alla stima del matrimonio e del letto coniugale era storicamente motivata dal fatto che varie tendenze ascetiche denigravano tale istituto e lo vedevano come un compromesso con la materia, riprendendo a modo loro quanto espresso in Col 2,20-23. L’esortazione, invece, non è rivolta contro i rapporti sessuali, ma contro quanti negavano la fedeltà dei coniugi e l’unicità del matrimonio.

 

III. Echi della Scrittura nella storia

33. La Parola rivelata contenuta nelle Sacre Scritture ha prodotto, nei lunghi tempi della Chiesa, diversi echi che tenteremo di raccogliere almeno in parte.

Alcune riflessioni di teologi cristiani

34. È utile accogliere la ricchezza del pensiero cristiano lungo i secoli, a partire dai Padri della Chiesa, con la loro particolare importanza, fino a teologi di diverse scuole e orientamenti.

Primi sviluppi sull’unità e la comunione matrimoniale nei Padri della Chiesa

35. San Giovanni Crisostomo riconosce all’unità matrimoniale un valore particolare. A differenza di altri Padri, sostiene che «un tempo il matrimonio aveva due motivi, ora ne ha uno solo». Egli spiega, infatti, che San Paolo (cf. 1Cor 7, 2.5.9) «ordina di unirsi, non perché diventino padri di molti figli», ma perché ciò porta i coniugi a «l’abolizione della dissolutezza e del desiderio sfrenato»[23]. In definitiva, il santo Dottore considera che l’unità del matrimonio, con la scelta di una sola persona alla quale ci si unisce, porta a liberare le persone da uno sfogo sessuale sfrenato, senza amore né fedeltà, e orienta adeguatamente la sessualità.

36. Sant’Agostino, pur sottolineando soprattutto l’importanza della procreazione, sottolinea innanzitutto il bene dell’unità che si esprime nella fedeltà: «La fedeltà esige di non aver rapporti sessuali con un altro o con un’altra»[24]. Agostino ha saputo anche esprimere la bellezza dell’unità coniugale come un bene in sé stesso, descritta dinamicamente come un camminare insieme, “fianco a fianco”: «Il primo naturale legame della società umana è quello fra uomo e donna. E Dio non produsse neppure ciascuno dei due separatamente, congiungendoli poi come stranieri, ma creò l’una dall’altro, e il fianco dell’uomo, da cui la donna è stata estratta e formata, sta ad indicare la forza della loro congiunzione. Fianco a fianco infatti si uniscono coloro che camminano insieme e che insieme guardano alla stessa meta»[25].

37. Già prima di Agostino, è ben nota la lode di Tertulliano al matrimonio inteso come unità nella carne e nello spirito di due che camminano “in una sola speranza”: «Come sarò capace di esporre la felicità di quel matrimonio che la Chiesa unisce […]. Quale giogo quello di due fedeli uniti in una sola speranza, in un’unica osservanza, in un’unica servitù! Sono tutti e due fratelli e tutti e due servono insieme; non vi è nessuna divisione quanto allo spirito e quanto alla carne. Anzi sono veramente due in una sola carne, e dove la carne è unica, unico è lo spirito»[26].

38. Questo fatto di essere “una sola carne” è interpretato dai Padri in modo intensamente realistico, al tal punto che, di fronte a contraddizioni nei fatti della realtà dell’unità coniugale, essi non temono di pronunciare affermazioni come le seguenti: «divide la sua carne, divide il suo corpo»[27]; «come la malvagità di tagliare la sua carne»[28]; «Dio non ha voluto che il corpo fosse diviso e disgiunto»[29].

39. Ad ogni modo, bisogna ricordare che la Chiesa latina sottolinea particolarmente gli aspetti giuridici del matrimonio, che hanno portato alla bella convinzione che gli stessi sposi sono ministri del Sacramento[30]. Con il loro consenso, essi danno origine all’unione matrimoniale unica ed esclusiva, dato oggettivo prima di qualsiasi esperienza o sentimento, anche spirituale. I Padri orientali, e le Chiese orientali, enfatizzano maggiormente gli aspetti teologici, mistici ed ecclesiali di un’unione che, grazie alla benedizione della Chiesa, si arricchisce nel tempo sotto l’impulso della grazia, mentre la comunione tra i coniugi è sempre più integrata nella comunione ecclesiale. Ecco perché in Oriente il rito del matrimonio, con tutti i suoi segni, la preghiera e i gesti del sacerdote, è stato maggiormente valorizzato. Già San Giovanni Crisostomo parla dell’incoronazione degli sposi (stephánōma) compiuta dal sacerdote e ne spiega il significato mistagogico: «Per questo motivo vengono poste delle corone sulle loro teste, come simbolo di vittoria, poiché, essendo rimasti imbattuti, giungono al letto matrimoniale»[31].

40. Al tempo stesso, in Oriente prevale una visione più positiva dell’aspetto relazionale, che si esprime anche nell’unione sessuale nel matrimonio, senza ridurne la finalità alla sola procreazione. Ciò è testimoniato, ad esempio, quando San Clemente Alessandrino prende fortemente le distanze da coloro che considerano il matrimonio un peccato, anche quando lo tollerano al fine di garantire il prolungamento della specie. Egli invece ribadisce: «Se è peccato il matrimonio secondo la Legge, non so come uno possa dire di conoscere Dio quando afferma che il comando di Dio è peccato! No, se “santa è la Legge”, santo è il matrimonio»[32]. Per San Giovanni Crisostomo, inoltre, il matrimonio «non è da ritenersi una compravendita, ma una comunione di vita»[33], e sottolinea che la continenza esagerata nel matrimonio poteva mettere a rischio l’unità matrimoniale.

41. L’unità e la comunione coniugale come riflesso dell’unione tra Cristo e la Chiesa (cf. Ef 5,28-30) è un tema particolarmente sviluppato dai Padri orientali, e San Gregorio Nazianzeno ne trae concrete conseguenze spirituali: «È bello per la donna rispettare Cristo attraverso il marito, ed è bello per l’uomo non disprezzare la Chiesa attraverso la moglie […]. Ma che anche il marito abbia cura della moglie: e, infatti, Cristo ha cura della Chiesa»[34].

Alcuni autori medievali e moderni

42. Nel pensiero di San Bonaventura sul matrimonio, sostanzialmente omogeneo a quello di San Tommaso, di cui si dirà più avanti, possiamo individuare una riflessione, nel quadro di una visione teologale, che include la necessità della consumazione perché il matrimonio possa significare pienamente l’unione tra noi e Cristo: «Poiché il consenso, in quanto consenso sull’agire futuro, non è propriamente consenso, bensì promessa di esso; e poiché il consenso, invero, prima dell’unione carnale non produce una unione piena, dato che non sono ancora una sola carne, ne consegue che attraverso le parole sul futuro si dice che il matrimonio ha avuto inizio, è ratificato con parole riferite al presente, ma consumato nell’unione carnale, perché allora sono una sola carne e diventano un solo corpo; e con ciò viene significata pienamente quell’unione che è tra noi e Cristo. Allora, infatti, pienamente il corpo di uno è dato al corpo dell’altro»[35].

43. È utile ricordare anche il pensiero teologico-pastorale di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, che presenta l’unione e il mutuo dono degli sposi in un modo integrale (ivi inclusi i rapporti sessuali), presentandoli come fini intrinseci essenziali, mentre considera la procreazione come fine intrinseco ma accidentale. Pertanto, egli sostiene che «si possono considerare tre fini nel matrimonio: fini intrinseci essenziali, intrinseci accidentali, e fini accidentali estrinseci. I fini intrinseci essenziali sono due: il dono reciproco con l’obbligo di soddisfare il debito [cioè i rapporti sessuali], e il vincolo indissolubile. I fini intrinseci accidentali sono egualmente due: la generazione della prole, e il rimedio della concupiscenza»[36].

44. Sant’Alfonso si riferisce pure a dei fini estrinseci, come il piacere, la bellezza e tanti altri, che sono leciti[37]. In questo modo, il santo Dottore della Chiesa tenta di arricchire la visione sul matrimonio per poter sviluppare un approccio pastorale che aiuti i coniugi a vivere la loro unione in un modo più ricco e stimolante. È permesso desiderare il matrimonio anche in base all’attrazione particolare per qualcuno di questi fini estrinseci, perché, sempre che non si escludano i fini principali, ciò «non è un disordine»[38].

45. Più vicino ai nostri tempi, il teologo e filosofo personalista Dietrich von Hildebrand riprende l’enfasi sulla centralità dell’amore nel matrimonio data dall’insegnamento di Papa Pio XI, al fine di approfondire la comprensione delle proprietà e dei significati del matrimonio stesso[39]. Rispetto all’argomento in questione, egli distingue due forme di unione che si completano a vicenda e arricchiscono l’approccio iniziale di questo documento: la prima forma di unione si esprime con il pronome “noi”, la seconda con la coppia “io-tu”. Nell’“io-tu” i due si trovano faccia a faccia, si danno l’uno all’altra, in modo tale che «l’altra persona agisce interamente come un soggetto, mai come un mero oggetto»[40]. Ciò comporta anche il passaggio dalla considerazione dell’altro come un “lui”, a una che arriva a riconoscerlo come un “tu”. Invece, quando l’unione è considerata come un “noi”, l’altro è con me, è al mio fianco, camminando insieme motivati dalle cose comuni che ci uniscono[41]. L’unione coniugale vive di entrambe le esperienze.

46. Nell’unione matrimoniale von Hildebrand evidenzia due atteggiamenti irrinunciabili. Il primo è la “discretio”, cioè uno spazio di intimità personale che preserva l’identità e la libertà di ciascuno, ma che può essere condiviso con una decisione del tutto libera, e in questo caso conduce a un approfondimento del legame. Il secondo atteggiamento è la “riverenza” per l’altro, che manifesta, in particolare nell’unione sessuale, il fatto che si ama una persona, sacra e inviolabile, non un oggetto qualsiasi. Il dinamismo interno del vincolo matrimoniale – il “noi”, secondo le categorie di von Hildebrand – spinge i coniugi a manifestare sempre di più la loro intima comunione personale.

47. Questa visione è condivisa anche da Alice von Hildebrand, nata Jourdain, moglie di Dietrich. In particolare, ella sostiene che la realizzazione piena dell’umanità si può raggiungere solo nell’unione tra uomo e donna, la “divina invenzione”: «non solo Lui [Dio] ha fatto l’uomo composto di anima e corpo – una realtà spirituale e una materiale – ma, oltre a ciò, per coronare questa complessità, “maschio e femmina li ha creati”. Chiaramente, la pienezza della natura umana si trova nell’unione perfetta tra uomo e donna»[42]. Pertanto, l’amore sponsale tra uomo e donna è ritenuto dalla filosofa e teologa belga come l’apice della vocazione umana, la suprema espressione dell’immagine divina quale chiamata al dono di sé nell’amore, dove la tenerezza dell’affetto tra i due riveste un ruolo fondamentale, voluto dallo stesso Creatore: «Il cuore è il centro della persona»[43], avverte la von Hildebrand, di fronte a certe tentazioni di anteporre il fare dell’attivismo alla ricettività dell’amore, inteso proprio in senso affettivo. Ella, poi, aggiunge che «dove la tenerezza regna, la concupiscenza si allontana»[44].

48. Il carattere di donazione totale dell’amore sponsale si può vedere anche in quella che lei connota come una vera e propria dimensione “sacrificale” dell’amore – con un richiamo evidente all’amore “fino alla fine” di Cristo – che consiste nel mettere il bene dell’altro davanti al proprio, in quella che si può chiamare una “morte” a se stessi, che in alcune occasioni può portare a rinunciare addirittura alle gioie della vita familiare per amore di un bene più grande: «Ciò che molti “amanti” dimenticano, sia che si parli di amici o di marito e moglie, è che il sacrificio è la linfa di grandi amori. Che il sacrificio sia la santa vitamina dell’amore si applica anche al matrimonio, che offre ai coniugi innumerevoli occasioni di morire a se stessi»[45]. In altre parole, ciò significa che l’amore sponsale mostra la sua fecondità, a un tempo umana e spirituale, quando resta aperto alle esigenze più alte della carità[46].

Lo sviluppo della visione teologale nei tempi recenti

49. Hans Urs von Balthasar assegna un’importanza particolare al consenso matrimoniale che crea quell’unità nuova che trascende i due individui: «Il convenire delle due persone così spossessate di sé è possibile solo in un terzo elemento, quello che […] è quel fattore oggettivo che si compone delle loro due libertà: il loro voto, la loro solenne promessa, in cui ciascuno dà l’assenso definitivo alla libertà dell’altro e al suo mistero e si consegna a questo mistero. È realtà che si deve chiamare oggettiva solo perché è più del giustapporsi delle loro due soggettività […] la loro volontà fattasi una (d’appartenersi l’un l’altro), che si pone al di sopra di loro e in mezzo a loro, perché nessuno dei due può rivendicare a sé l’unità che è sorta»[47].

50. Questo patto, dove ognuno dei due trascende sé stesso e si arrende di fronte alla nuova realtà che si crea, in nessun modo è una negazione di loro stessi come individui liberi: è, invece, una pienezza di libertà che si compie nel donarsi in modo totale a un’altra persona: «l’evento del donarsi in possesso reciproco, il quale si compie solo sotto la volta stesa su di loro dallo Spirito d’amore che li guida e li ispira, è tutto fuorché un’alienazione di sé da parte del singolo. Questi non attinge sé stesso se non in virtù dell’appello dell’altra libertà, che gli dà la capacità di risolvere, di decidere la propria, e questa risoluzione diviene matura, ‘maggiorenne’, proprio quando egli non continua a riprendersi con esitazione, ma concentra sé stesso, si raccoglie, per donarsi una volta per tutte»[48].

51. Questo Autore contempla in un modo particolare e teologicamente profondo come questa unità matrimoniale riflette l’unione tra Cristo e la sua Chiesa: «L’unità di misura dell’amore matrimoniale diventa l’amore fra Cristo e la sua Chiesa […]. L’unità originaria consiste in questo, che la Chiesa nasce da Cristo come Eva da Adamo: scaturita dal fianco squarciato del Signore dormiente in croce all’ombra della morte e degli inferi. Per questo essa è suo corpo, come Eva era carne della carne di Adamo. In questo sonno mortale della Passione egli “ha formato per sé la Chiesa, come sposa meravigliosa senza ruga e senza macchia” (Ef 5,24-27). Egli stesso si lascia come uomo cadere nel sonno della morte, in modo da potere, come Dio, prelevare misteriosamente dal morto quella fecondità dalla quale egli si creerà la sua sposa, la Chiesa. Così essa è lui stesso, e tuttavia non è lui stesso: è suo corpo e sua sposa. “Chi ama sua moglie, ama sé stesso. Nessuno ha mai odiato la sua propria carne; la si protegge e la si cura. Così fa anche Cristo con la sua Chiesa, poiché noi siamo membra del suo corpo” (Ef 5,28-30)»[49].

52. Una tale visione cristologica e pneumatologica ha delle conseguenze concrete sull’esperienza matrimoniale: «Se torniamo a gettare uno sguardo sulla dedizione reciproca degli sposi, ciò mostra chiaro ancora una volta che la legge comune del loro amore (in senso cristologico) scaturisce tanto dall’atteggiamento loro proprio di un volontario darsi in possesso, e quindi non è una legge imposta dall’esterno, come realmente s’eleva, superando entrambi, quale terza entità feconda, creativa (in senso pneumatologico) e li ispira agli atti della loro dedizione»[50].

53. Anche Karl Rahner pensa l’unità matrimoniale come espressione dell’amore tra Cristo e la Chiesa, ma non come se Cristo e la Chiesa fossero uguali uno di fronte all’altra, dato che l’amore con cui Cristo ama la Chiesa ha la sua origine nella «volontà misericordiosa di Dio di comunicarsi»[51]. Da questa volontà, come causa, scaturisce il primo effetto che è l’unità Cristo-Chiesa. Alla fine l’amore, come si esprime nella vita degli sposi, approda alla sua origine in Dio stesso[52]. È utile soffermarci su due testi di Rahner sufficientemente eloquenti. Il primo: «Nell’amore realmente personale, vi è implicito qualcosa di incondizionato che rimanda al di là e al di sopra della causalità dell’incontro degli amanti: essi, quando amano realmente, crescono continuamente al di sopra di sé stessi, approdano ad un flusso che non ha più il suo punto d’arrivo nel finito e nel determinabile. Ciò che giace in una lontananza infinita, che viene tacitamente evocato in un tale amore, alla fin fine lo si può chiamare con un solo nome: Dio»[53]. E il secondo testo: «Il matrimonio e il legame tra Dio e l’umanità in Cristo non solo possono venir confrontati tra loro da noi, ma piuttosto essi sono oggettivamente in un rapporto reciproco tale che il matrimonio rappresenta oggettivamente questo amore che Dio ha in Cristo per la Chiesa, la relazione e il comportamento di Cristo con la Chiesa prefigura la relazione e il comportamento che vige nel matrimonio, e in questo trova il suo completamento, cosicché comprende in sé il matrimonio come un momento di sé»[54].

54. Lo sguardo cristologico-trinitario circa l’unità matrimoniale è stato poi fortemente e poeticamente sottolineato da diversi autori ortodossi contemporanei. Ne riportiamo tre esempi:

55. A partire dalla propria visione mistica, il teologo ortodosso Alexander Schmemann afferma: «In un matrimonio cristiano, infatti, sono tre le persone sposate; e la lealtà unita dei due verso il terzo, che è Dio, mantiene i due in un’unità attiva tra loro e con Dio. Tuttavia, è proprio la presenza di Dio che segna la fine del matrimonio come qualcosa di puramente “naturale”. È la croce di Cristo che pone fine all’autosufficienza della natura. Ma “con la croce, la gioia è entrata nel mondo intero”. La sua presenza è quindi la vera gioia del matrimonio»[55].

56. Un’altra bella testimonianza si trova nelle parole che seguono, del filosofo e teologo russo Pavel Evdokimov: «L’unità consustanziale del matrimonio costituisce l’unità di due persone che si collocano in Dio […]. Quindi la struttura trinitaria iniziale è: uomo-donna nello Spirito Santo. La realizzazione effettiva della loro unità nel matrimonio (dove il marito, secondo Paolo, è immagine di Cristo e la moglie è immagine della chiesa) diventa equivalente coniugale dell’unità Cristo-Spirito»[56].

57. Infine, merita di essere citato un passaggio illuminato del teologo John Meyendorff: «Un cristiano è chiamato – già in questo mondo – a sperimentare una vita nuova, a diventare cittadino del Regno, e può farlo nel matrimonio […]. È una singolare unione di due esseri innamorati, due esseri che possono trascendere la propria umanità ed essere così uniti non solo “l’uno con l’altro”, ma anche “in Cristo”»[57].

58. Gli autori orientali del nostro tempo insistono pure sull’aspetto relazionale alla luce della Trinità. Il teologo greco, Ioannis Zizioulas, afferma che «la persona è alterità nella comunione e comunione nell’alterità. La Persona è un’identità che emerge attraverso la relazione (schesis, nella terminologia dei Padri greci); è un “io” che può esistere solo finché si relaziona ad un “tu” che afferma la sua esistenza e la sua alterità. […] [L’“io”] non può semplicemente essere senza l’altro. Si tratta di ciò che distingue la persona dall’individuo»[58]. Nel contesto di questa particolare valutazione orientale della relazione, che è in ultima analisi un riflesso della comunione trinitaria, un altro teologo e filosofo greco, Christos Yannaras, mostra come la vita coniugale debba essere compresa nel quadro più ampio delle relazioni nella comunità ecclesiale, che permette di intendere la sessualità come una relazione personale trasfigurata dalla grazia trinitaria: «La relazione e la conoscenza tra i coniugi diventano eventi ecclesiali, si attuano non solo per mezzo della natura ma anche per mezzo della Chiesa […] nell’ambito delle relazioni che tengono insieme la Chiesa come immagine del modello trinitario»[59]. E immediatamente spiega che «ciò non significa ‘spiritualizzazione’ del matrimonio e svalutazione della relazione naturale, ma trasformazione dinamica dell’impulso naturale in evento di comunione personale, secondo il modo nel quale la Chiesa attua la comunione, cioè come grazia-dono gratuito di alterità e libertà personali»[60].

Interventi magisteriali

Primi interventi

59. Fino a Leone XIII, gli interventi riferiti alla monogamia sono stati pochi ed essenziali. È da menzionare un intervento breve ma importante di Innocenzo III nell’anno 1201, nel quale si riferisce ai pagani che «dividono l’affetto coniugale con più donne nello stesso tempo», e con riferimento alla Genesi afferma che è contrario alla fede cristiana, «dato che dal principio una sola costola fu trasformata in una sola donna»[61]. Di seguito, si rifà alla Scrittura (cf. Ef 5,31; Gen 2,24; Mt 19,5) per sottolineare che si dice che «saranno due in una carne sola» (duo in carne una) e che l’uomo si unirà “alla moglie”, non “alle mogli”. Da ultimo, interpreta la proibizione dell’adulterio (cf. Mt 19,9; Mc 10,11) come riferita al matrimonio monogamico[62].

60. Il Secondo Concilio di Lione sostiene nuovamente che si «tiene per fermo che non è permesso a un uomo di avere contemporaneamente più mogli, né a una donna di avere più maschi»[63]. Il Concilio di Trento deriva il senso della monogamia dal fatto che Cristo Signore insegnò più apertamente che con questo vincolo due sole persone si vengono strettamente a congiungere, quando disse: “Non sono dunque più due, ma una sola carne”[64]. Nel secolo XVIII, Benedetto XIV, prendendo in considerazione la situazione dei matrimoni clandestini, ribadisce che «nessuno dei due può, finché l’altro sarà in vita, passare ad altre nozze»[65].

Leone XIII

61. A proposito del tema della monogamia, nell’insegnamento di Leone XIII ritorna l’argomentazione centrale circa il fatto che i coniugi costituiscono “una sola carne”: «Ciò vediamo dichiarato e solennemente ratificato dal Vangelo con la divina autorità di Gesù Cristo, il quale proclamò ai Giudei ed agli Apostoli che il matrimonio, per la sua stessa istituzione, deve essere solamente tra due, ossia tra un uomo e una donna; che dei due si forma come una sola carne»[66].

62. Nella sua riflessione, la difesa della monogamia costituisce ugualmente una difesa della dignità delle donne, che non può essere negata o disonorata nemmeno per il desiderio della procreazione. L’unità del matrimonio implica dunque una scelta libera della donna, che ha il diritto di esigere una reciprocità esclusiva: «Nulla vi era di più miserando della moglie, abbassata a tanta viltà che quasi veniva considerata soltanto come uno strumento destinato a soddisfare alla libidine od a procreare figli. Né arrossì per il fatto che quelle che erano da collocare per mogli fossero comprate e vendute a somiglianza delle cose corporali, essendo stata data talvolta facoltà al padre o al marito di condannare la moglie all’estremo supplizio»[67].

63. Il matrimonio monogamo è l’espressione di una reciproca ed esclusiva ricerca del bene dell’altro: «È necessario cioè che essi abbiano sempre l’animo talmente disposto da comprendere l’uno dovere all’altro un amore grandissimo, una fede costante, un sollecito e continuo aiuto»[68]. Questa realtà di essere “una sola carne” acquisisce con Cristo una nuova e preziosa motivazione e giunge alla sua pienezza nel Sacramento del matrimonio: «Si aggiunga che il matrimonio è Sacramento proprio per questo: che è un segno sacro, che produce la grazia e rende immagine delle mistiche nozze di Cristo con la Chiesa. La forma poi e la figura di queste vengono espresse da quello stesso vincolo di perfetta unione con il quale l’uomo e la donna si congiungono tra loro, e che non è altro se non il matrimonio medesimo»[69]

Pio XI

64. Papa Pio XI offre uno sviluppo maggiore della dottrina sull’unità matrimoniale nell’Enciclica Casti connubii. Egli sottolinea il valore della «vicendevole fedeltà dei coniugi nell’adempimento del contratto matrimoniale; sicché quanto compete per questo contratto sancito secondo la legge divina al solo coniuge, né a lui sia negato, né permesso ad una terza persona». E conclude: «Questa fede pertanto richiede in primo luogo l’unità assoluta del matrimonio, che il Creatore stesso adombrò nel matrimonio dei primi genitori, volendo che esso non fosse se non fra un uomo solo e una sola donna»[70]

65. Il Pontefice arricchisce quindi l’insegnamento sull’unità del matrimonio, proponendo una inedita riflessione sull’amore coniugale, «che pervade i doveri tutti della vita coniugale e nel matrimonio cristiano tiene come il primato della nobiltà»[71]. E ciò che di più nobile può trovarsi in un matrimonio è l’amore coniugale soprattutto quando raggiunge per grazia il livello soprannaturale della carità. Come conseguenza, l’unione matrimoniale diventa un cammino di crescita spirituale: «Non comprende solo il vicendevole aiuto, ma deve estendersi altresì, anzi mirare soprattutto a questo: che i coniugi si aiutino fra di loro per una sempre migliore formazione e perfezione interiore, in modo che nella loro vicendevole unione di vita crescano sempre più nelle virtù, massimamente nella sincera carità verso Dio e verso il prossimo […]. Una tale vicendevole formazione interna dei coniugi, con l’assiduo impegno di perfezionarsi a vicenda, in un certo senso verissimo […] si può dire anche primaria causa e motivo del matrimonio»[72]. Questo “allargamento” del senso del matrimonio, che supera il senso stretto, predominante fino a quel momento, di istituzione ordinata alla procreazione e alla retta educazione della prole, ha aperto il cammino per un approfondimento del senso unitivo del matrimonio e della sessualità.

66. Si può anche ricordare come ai suoi tempi Papa Pio XI si sente spinto a evidenziare quelle tendenze contrarie alla monogamia che oggi sono divenute molto più comuni: «Corrompono dunque anzitutto la fedeltà coloro che stimano doversi essere indulgenti verso le idee e i costumi del nostro tempo, intorno alla falsa e dannosa amicizia con terze persone, e sostengono doversi in queste relazioni estranee consentire ai coniugi una certa maggior licenza di pensare e di operare, e ciò tanto più che (come vanno dicendo) non pochi hanno una congenita costituzione sessuale, a cui non possono soddisfare tra gli angusti confini del matrimonio monogamico. Quindi quella disposizione d’animo, per la quale gli onesti coniugi condannano e ricusano ogni affetto ed atto libidinoso con terza persona, essi la stimano un’antiquata debolezza di mente e di cuore o un’abbietta e vile gelosia; perciò dicono nulle o da annullare le leggi penali dello Stato intorno all’obbligo della fede coniugale»[73].

I tempi del Concilio Vaticano II

67. Sulla via aperta da Casti connubi, il Concilio Vaticano II presenta il matrimonio innanzitutto come un’opera di Dio che consiste in una comunione d’amore e di vita che i due coniugi condividono, comunione che non è orientata solo alla procreazione, ma anche al bene integrale di entrambi. Il matrimonio viene definito come «intima comunione di vita e di amore coniugale»[74]. Nel matrimonio, l’uomo e la donna, che per l’alleanza coniugale «“non sono più due, ma una sola carne” (Mt 19,6), prestandosi un mutuo aiuto e servizio con l’intima unione delle persone e delle attività, sperimentano il senso della propria unità e sempre più pienamente la conseguono. Questa intima unione, in quanto mutua donazione di due persone, come pure il bene dei figli, esigono la piena fedeltà dei coniugi e ne reclamano l’indissolubile unità»[75].

68. Cristo stesso «viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il sacramento del matrimonio. Inoltre rimane con loro perché, come egli stesso ha amato la Chiesa e si è dato per essa, così anche i coniugi possano amarsi l’un l’altro fedelmente, per sempre, con mutua dedizione. L’autentico amore coniugale è assunto nell’amore divino ed è sostenuto e arricchito dalla forza redentiva del Cristo e dalla azione salvifica della Chiesa»[76]. In questo modo, è possibile vivere l’amore coniugale: «essendo diretto da persona a persona con un sentimento che nasce dalla volontà, quell’amore abbraccia il bene di tutta la persona; perciò ha la possibilità di arricchire di particolare dignità le espressioni del corpo e della vita psichica e di nobilitarle come elementi e segni speciali dell’amicizia coniugale. Il Signore si è degnato di sanare, perfezionare ed elevare questo amore con uno speciale dono di grazia e carità. Un tale amore, unendo assieme valori umani e divini, conduce gli sposi al libero e mutuo dono di sé stessi, che si esprime mediante sentimenti e gesti di tenerezza e pervade tutta quanta la vita dei coniugi»[77]. Gli atti sessuali nel matrimonio, «compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano ed arricchiscono vicendevolmente nella gioia e nella gratitudine gli sposi stessi»[78]

69. Il Concilio si riferisce esplicitamente all’unità matrimoniale per esprimere che essa, «confermata dal Signore, appare in maniera lampante anche dalla uguale dignità personale che bisogna riconoscere sia all’uomo che alla donna nel mutuo e pieno amore»[79]. La difesa dell’unità matrimoniale nel Concilio si basa così su due punti fermi: da una parte, il Concilio ribadisce che l’unione matrimoniale è totalizzante, «pervade tutta quanta la vita dei coniugi»[80],e di conseguenza è possibile solamente tra due persone; dall’altra, sottolinea che un tale amore corrisponde all’uguale dignità di ognuno dei due coniugi, i quali, nel caso di un’unione “plurale”, si troverebbero nella situazione di dover condividere con altri ciò che dev’essere intimo ed esclusivo, diventando quindi come oggetti, in una relazione che svilisce la propria dignità personale[81].

70. San Paolo VI, terminato il Concilio e riprendendo le sue riflessioni sul matrimonio, esprime una profonda preoccupazione in merito ai temi del matrimonio e della famiglia. Anche se nell’Humanae vitae egli desidera sottolineare il significato procreativo del matrimonio e degli atti sessuali, allo stesso tempo vuole mostrare che quel significato è inseparabile dall’altro: quello unitivo. Infatti, egli afferma che «per la sua intima struttura, l’atto coniugale, mentre unisce profondamente gli sposi, li rende atti alla generazione di nuove vite»[82]. In questo contesto, riafferma il valore della reciprocità e dell’esclusività che richiama la comunione d’amore e il perfezionamento vicendevole[83]. C’è una «connessione inscindibile» tra i due significati degli atti sessuali: «Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l’atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore e l’ordinamento all’altissima vocazione dell’uomo nella paternità»[84]. Per cui, se diciamo che il significato unitivo è inscindibile dalla procreazione, dobbiamo dire allo stesso tempo che la ricerca della procreazione è inscindibile dal significato unitivo, come ha chiarito successivamente San Giovanni Paolo II: «la donazione fisica totale sarebbe menzogna, se non fosse segno e frutto della donazione personale totale»[85].

San Giovanni Paolo II

71. San Giovanni Paolo II si serve del riferimento di Cristo “al principio” per introdurre, nella riflessione sul rapporto sponsale, l’ermeneutica del dono[86]. Nella Creazione si rivela l’autodonazione di Dio e la Creazione stessa costituisce il dono fondamentale e originario. L’essere umano è l’unica creatura che può ricevere il mondo creato come dono e che può, allo stesso tempo, in quanto immagine di Dio, fare della propria vita un dono. È in questa logica che il significato sponsale del corpo umano, nella sua mascolinità e femminilità, rivela che l’essere umano è stato creato per donarsi all’altro e che solo in questo dono di sé porta a compimento il vero significato del suo essere e della sua esistenza[87].

72. In questo orizzonte, nella sua esposizione della concezione cristiana della monogamia, San Giovanni Paolo II sostiene l’origine semitica e non occidentale dei suoi fondamenti più profondi, affermando che «appare come l’espressione della relazione interpersonale, quella in cui ciascuno dei due partner è riconosciuto dall’altro in uguale valore e nella totalità della sua persona. Questa concezione monogamica e personalistica della coppia umana è una rivelazione assolutamente originale, che porta il marchio di Dio, e che merita di essere sempre più approfondita»[88].

73. Il santo Pontefice deve però riconoscere che «tutta la tradizione dell’Antica Alleanza indica che alla coscienza delle generazioni susseguitesi nel popolo eletto, al loro ethos non è giunta mai l’esigenza effettiva della monogamia […] non si intende invece l’adulterio come appare dal punto di vita della monogamia stabilita dal Creatore»[89]. Per questa ragione, egli si sforza di leggere l’Antico Testamento non dal punto di vista normativo, ma dal punto di vista teologico, e lo fa partendo da due capisaldi. Il primo è la volontà di Cristo di tornare al principio[90], all’origine della Creazione, quando la coppia originale era monogama, nel senso dei “due in una sola carne”: «Dio fece l’uomo a sua somiglianza creandolo maschio e femmina. Ecco che cosa sorprende subito all’inizio. L’umanità, per somigliare a Dio, deve essere una coppia di due persone che si muovono l’una verso l’altra»[91]. L’altro punto di riferimento è la riflessione dei profeti sull’amore esclusivo tra Dio e il suo popolo, per la quale «denunciano sovente l’abbandono del vero Dio Jahvè da parte del popolo, paragonandolo all’adulterio […]. L’adulterio è peccato perché costituisce la rottura dell’alleanza personale dell’uomo e della donna […]. In molti testi la monogamia appare l’unica e giusta analogia del monoteismo inteso nelle categorie dell’Alleanza, cioè della fedeltà e dell’affidamento all’unico e vero Dio-Jahvè: Sposo di Israele. L’adulterio è l’antitesi di quella relazione sponsale, è l’antinomia del matrimonio»[92].

74. Seguendo questa linea di pensiero, San Giovanni Paolo II sostiene che questa unione non esprime la volontà originaria di Dio sulla monogamia se l’altra persona, anche se l’unione è esclusiva, diventa solamente un oggetto usato per appagare i propri desideri: «All’unione o “comunione” personale, cui l’uomo e la donna sono reciprocamente chiamati “dal principio”, non corrisponde, anzi è in contrasto la eventuale circostanza che una delle due persone esista solo come soggetto di appagamento del bisogno sessuale, e l’altra divenga esclusivamente oggetto di tale soddisfazione. Inoltre, non corrisponde a tale unità di “comunione” – anzi la contrasta – il caso che entrambi, l’uomo e la donna, esistano vicendevolmente quale oggetto di appagamento del bisogno sessuale, e ciascuna da parte sua sia soltanto soggetto di quell’appagamento. Tale “riduzione” di un così ricco contenuto della reciproca e perenne attrazione delle persone umane […] spegne il significato personale e “di comunione”, proprio dell’uomo e della donna»[93].

75. Il dono dello «Spirito Santo effuso nella celebrazione sacramentale offre agli sposi cristiani il dono di una comunione nuova d’amore che è immagine viva e reale di quella singolarissima unità, che fa della Chiesa l’indivisibile Corpo mistico del Signore Gesù […] stimolante impulso affinché ogni giorno progrediscano verso una sempre più ricca unione tra loro a tutti i livelli – dei corpi dei caratteri, dei cuori, delle intelligenze, e delle volontà, delle anime»[94].

Benedetto XVI

76. Benedetto XVI riprende questo insegnamento, quando ricorda, richiamando anche lui il racconto della Creazione, che «l’eros è come radicato nella natura stessa dell’uomo; Adamo è in ricerca e “abbandona suo padre e sua madre” per trovare la donna; solo nel loro insieme rappresentano l’interezza dell’umanità, diventano “una sola carne”. Non meno importante è il secondo aspetto: in un orientamento fondato nella creazione, l’eros rimanda l’uomo al matrimonio, a un legame caratterizzato da unicità e definitività; così, e solo così, si realizza la sua intima destinazione»[95].

77. Benedetto XVI inoltre ha insegnato che il matrimonio non fa che raccogliere e portare a compimento quella forza dirompente che è l’amore, il quale, nella sua dinamica di esclusività e definitività, non vuole mortificare la libertà umana, ma, al contrario, apre la vita nientemeno che a un orizzonte di eternità: «Fa parte degli sviluppi dell’amore verso livelli più alti, verso le sue intime purificazioni, che esso cerchi ora la definitività, e ciò in un duplice senso: nel senso dell’esclusività – “solo quest’unica persona” – e nel senso del “per sempre”»[96].

Francesco

78. Papa Francesco ci ha fatto dono di una riflessione originale e radicata nell’esperienza concreta su diversi aspetti dell’unione esclusiva degli sposi nel quarto capitolo dell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, dove si può trovare una descrizione dettagliata dell’amore coniugale nelle sue diverse manifestazioni, avendo come punto di partenza 1Cor 13, 4-7. Innanzitutto la pazienza, senza la quale «avremo sempre delle scuse per rispondere con ira, e alla fine diventeremo persone che non sanno convivere, antisociali incapaci di dominare gli impulsi»[97]; poi la benevolenza, il “fare il bene” come «reazione dinamica e creativa nei confronti degli altri»[98]; quindi l’amabilità, perché chi ha imparato a amare «detesta far soffrire gli altri»[99] ed «è capace di dire parole di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano»[100]. L’amore implica anche un certo “distacco di sé stessi”, per donarsi gratuitamente fino a dare la vita[101]. Di conseguenza, l’amore è capace di superare la violenza interiore verso i difetti altrui, che «ci mette sulla difensiva davanti agli altri» e «finisce per isolarci»[102]. A tutto ciò si aggiunge il perdono, che «presuppone l’esperienza di essere perdonati da Dio»[103], la capacità di rallegrarsi con gli altri, in modo che «chiunque faccia qualcosa di buono nella vita, sa che lì lo festeggeranno insieme a lui»[104]; e la fiducia, perché l’amore «lascia in libertà, rinuncia a controllare tutto, a possedere, a dominare»[105]. L’amore infine spera per l’altro, «spera sempre che sia possibile una maturazione, un sorprendente sbocciare di bellezza, che le potenzialità del suo essere germoglino un giorno»[106].

79. Papa Francesco ci aiuta così a “incarnare” quella che è la “carità coniugale”. Allo stesso tempo, con sano realismo, egli avverte circa il pericolo di idealizzare l’unione matrimoniale con deduzioni non adeguate, come se i misteri teologici dovessero trovare una perfetta corrispondenza nella vita di coppia, e quest’ultima dovesse essere perfetta in ogni circostanza. In realtà, così si creerebbe un costante senso di colpa nei coniugi più fragili, che lottano e fanno del proprio meglio per mantenere la loro unione: «Non è bene confondere piani differenti: non si deve gettare sopra due persone limitate il tremendo peso di dover riprodurre in maniera perfetta l’unione che esiste tra Cristo e la sua Chiesa, perché il matrimonio come segno implica “un processo dinamico, che avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio”»[107]. Invece, bisogna valutare positivamente tutte le fatiche, i momenti dolorosi, le sfide che hanno sorpreso e destabilizzato i coniugi, i cambiamenti della persona amata, e anche le sconfitte poi superate, come parte di un cammino dove lo Spirito Santo opera come vuole, perché così, «dopo aver sofferto e combattuto uniti, i coniugi possono sperimentare che ne è valsa la pena, perché hanno ottenuto qualcosa di buono, hanno imparato qualcosa insieme, o perché possono apprezzare maggiormente quello che hanno. Poche gioie umane sono tanto profonde e festose come quando due persone che si amano hanno conquistato insieme qualcosa che è loro costato un grande sforzo condiviso»[108].

Leone XIV

80. Tra i primi interventi di Papa Leone XIV, in riferimento al tema di questa Nota, si può prendere in considerazione quanto egli esprime nel messaggio per la commemorazione del 10° anniversario della canonizzazione dei coniugi Louis e Zélie Martin, genitori di Santa Teresa di Gesù Bambino. In tale occasione, il Santo Padre si riferisce al «modello di coppia che la Santa Chiesa presenta ai giovani» come a «un’avventura così bella: un modello di fedeltà e di attenzione all’altro, un modello di fervore e di perseveranza nella fede, di educazione cristiana dei figli, di generosità nell’esercizio della carità e della giustizia sociale; un modello anche di fiducia nella prova»[109].

81. In verità, lo stesso motto di Papa Leone XIV, «In illo uno, unum» («in Colui che è Uno, siamo uno»), desunto da un brano di Sant’Agostino[110], potrebbe essere applicato alla vita di coppia, suggerendo che «essere una cosa sola» è possibile e realizzabile pienamente in Dio. In tal senso, l’unità matrimoniale trova il suo fondamento e la sua completezza nella relazione con Dio. In occasione del Giubileo delle famiglie, dei nonni e degli anziani, Papa Leone XIV, rivolgendosi direttamente agli sposi, ha ribadito che «il matrimonio non è un ideale, ma il canone del vero amore tra l’uomo e la donna: amore totale, fedele, fecondo […]. Mentre vi trasforma in una carne sola, questo stesso amore vi rende capaci, a immagine di Dio, di donare la vita»[111].

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82. Il Codice di Diritto Canonico si riferisce al «patto matrimoniale con cui l’uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione e educazione della prole», e ricorda che «tra i battezzati è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento»[112].

83. Infine, nella sua visione di sintesi, il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che: «La poligamia è contraria a questa pari dignità e all’amore coniugale che è unico ed esclusivo»[113]. Inoltre, «l’amore coniugale esige dagli sposi, per sua stessa natura, una fedeltà inviolabile. È questa la conseguenza del dono di sé stessi che gli sposi si fanno l’uno all’altro»[114]. Per tale motivo, «l’adulterio è un’ingiustizia. Chi lo commette viene meno agli impegni assunti. Ferisce quel segno dell’Alleanza che è il vincolo matrimoniale, lede il diritto dell’altro coniuge e attenta all’istituto del matrimonio, violando il contratto che lo fonda. Compromette il bene della generazione umana e dei figli, i quali hanno bisogno dell’unione stabile dei genitori»[115]. Ciò non esclude che si possa comprendere «il dramma di chi, desideroso di convertirsi al Vangelo, si vede obbligato a ripudiare una o più donne con cui ha condiviso anni di vita coniugale. Tuttavia, la poligamia è in contrasto con la legge morale. Contraddice radicalmente la comunione coniugale»[116].

 

IV. Alcuni sguardi dalla filosofia e dalle culture

Nel pensiero cristiano classico

84. In San Tommaso d’Aquino possiamo trovare un pensiero filosofico cristiano, diventato classico, sui fondamenti della monogamia. Nel Libro terzo della Summa contra Gentiles, la sua concezione appare soprattutto sotto il profilo filosofico, con ragionamenti tratti dalla teologia naturale e dalle sue conoscenze della biologia dell’epoca. La relazione sponsale è presentata così come un legame di ordine naturale, una «società dell’uomo (e) della donna»[117] o una forma di «vincolo sociale (socialis coniunctio[118], insita nella natura umana, che unisce l’uomo e la donna.

85. San Tommaso sostiene che la monogamia deriva essenzialmente dall’istinto naturale, essendo iscritta nella natura di ogni essere umano; questo ambito prescinde dunque dalle esigenze della fede. Infatti, «l’uomo […], desidera per natura di essere certo della sua prole, la quale certezza sarebbe del tutto eliminata, se più uomini avessero una sola donna. Dunque deriva dall’istinto naturale che si abbia una sola donna per un solo uomo»[119]. Tale unione, che consolida l’equilibro reciproco tra l’uomo e la donna, è retta da «una equità naturale». Non c’è dunque spazio né per qualche forma di poliandria, né per la poligamia che, tra l’altro, l’Aquinate definisce come una forma di schiavitù: «È evidente inoltre che il dissolversi della società suddetta è incompatibile con l’equità […]. Se uno quindi prendendo una donna nel tempo della giovinezza, quando essa presenta bellezza e fecondità, potesse lasciarla in seguito quando è invecchiata, farebbe un torto alla donna contro l’equità naturale […]. D’altra parte se l’uomo potesse abbandonare la moglie, non si avrebbe tra l’uomo e la donna una società tra uguali, ma una schiavitù da parte della donna»[120].

86. Inoltre, l’equità nell’amore stabilisce una sostanziale parità tra gli sposi, cioè una fondamentale uguaglianza tra l’uomo e la donna: «L’amicizia consiste in una certa uguaglianza. Perciò se alla donna non fosse concesso di avere più mariti, per non compromettere la certezza della prole, mentre al marito fosse lecito avere più mogli, l’amicizia tra l’uomo e la donna non sarebbe liberale ma quasi servile. E l’argomento viene comprovato dall’esperienza: poiché presso gli uomini che hanno più mogli, queste sono tenute quasi come schiave. “Un’amicizia intensa non è possibile verso molte persone”, come spiega il Filosofo. Se la moglie quindi avesse un unico marito, però il marito avesse più mogli, l’amicizia non sarebbe uguale da entrambe le parti»[121].

87. La fedeltà matrimoniale ha, quindi, come fondamento quel massimo grado di amicizia che si stabilisce fra l’uomo e la donna. Questa amicizia al sommo grado (maxima amicitia), quale amore di benevolenza (amor benevolentiae), diverso dal solo amore di concupiscenza (amor concupiscentiae) che è orientato piuttosto al proprio vantaggio, spinge ad uno scambio intimo e totale tra pari, nel quale ogni partner si dà senza riserve, cercando il bene dell’altro: «L’amicizia quanto più è grande, tanto più è ferma e duratura. Ora, tra marito e moglie, c’è un’amicizia grandissima (maxima amicitia): poiché essi si uniscono non solo per la copula carnale, che anche tra le bestie stabilisce una certa soave società, ma per la comunanza di tutta la vita domestica; cosicché per esprimere questo, l’uomo per la moglie “lascia anche il padre e la madre”, come è detto nella Genesi (2,24)»[122].

Comunione di due persone

88. Nel secolo XX alcuni filosofi cristiani sottolineano una visione del matrimonio come unione tra persone o comunione di vita. Nel contesto del pensiero tomista classico, Antonin-Dalmace Sertillanges presenta il matrimonio come unione di due persone, che non può mai intendersi come una specie di fusione o distruzione di se stessi per costituire un’unità superiore, e neppure quale puro mezzo di procreazione per il bene della specie: «L’uomo, proprio perché è persona, e cioè un fine in sé, l’uomo che vale di per sé indipendentemente dalla specie, cercherà nella sua unione, insieme col bene della specie, anche il suo bene proprio. Se dunque l’uomo e la donna fondano una vita cementata dall’amore, questa vita si svilupperà in due centri come un’elisse in due fuochi […] senza che nessuno sia sacrificato»[123].

89. Coerente con questo pensiero, Sertillanges mostra che nel matrimonio persino la ricerca di un bene per sé stesso costituisce un modo di prendere sul serio l’altra persona, aprendo per essa la possibilità di essere feconda grazie al suo coniuge: «Certamente è meglio dare che ricevere, dicevamo; ma anche il ricevere è un dare. O mio cuore, ricevi, perché l’amico trovi in te la testimonianza di ciò che egli dona. Sii felice, perché l’amico possa dire: io porto dunque felicità!»[124]. In questo modo, «nell’unione coniugale le due vite si arricchiscono tanto meglio quanto più la loro associazione è destinata a diventare più stretta e i loro mutui contributi sono destinati per natura a complementarsi»[125], perché «questo amore che fa essere due persone unite ciò che ciascuna di esse, in sé sola, non poteva essere, è l’arricchimento naturale più decisivo»[126]. In questo modo, la comunione matrimoniale implica una «duplice preferenza che s’incrocia a formare il più forte dei nodi, e fa di ciascuno dei due contemporaneamente il più amante e il più amato, e fa conseguire a ciascuno quello che gli è dovuto proprio mentre lo procura all’altro; felicità di essere uno in due»[127].

Una persona interamente riferita a un’altra

90. A questo punto, è utile collegare tre autori che hanno approfondito sempre di più una linea di pensiero sull’unità matrimoniale. Il primo è Søren Kierkegaard. È sua convinzione che la persona realizza sé stessa quando è capace di uscire da sé, rendendo così possibile l’amore e l’unione: «L’amore è abbandono, ma l’abbandono è possibile solo grazie al fatto che io esca da me stesso»[128], accettando il rischio e l’imprevedibilità. Soltanto così diventa possibile quella decisione di appartenere pienamente a una sola persona, con tutti i rischi che possa comportare questa decisione: «ci vuole un passo che sia decisivo, e dunque a tal fine ci vuole del coraggio, e nondimeno l’amore matrimoniale precipita in un nulla quando ciò non ha luogo, perché è unicamente grazie a ciò che si mostra di non amare sé stessi ma l’altro. E in che modo si dovrebbe mostrare se non grazie al fatto che si è solo per un altro?»[129]. Di conseguenza, sostiene il filosofo danese, «si è avveduto dell’affronto, e dunque di quanto è sgraziato voler amare con un verso dell’anima ma non con tutta, ridurre il proprio amore a momento, e però prendere tutto quanto l’amore di un’altra persona»[130].

91. Così troviamo il fondamento della monogamia proprio nell’idea di persona, che permette allo stesso tempo di capire il senso della propria esistenza e di amare quella del coniuge. La chiamata interiore ad abbandonare se stessi di fronte all’altro diventa in questo modo il fondamento del «non amare che uno solo»[131]. Lo conferma lo stesso Kierkegaard, quando riconosce che, se c’è un vero amore che ci fa uscire da noi stessi verso l’altro, «gli amanti sono  intimamente convinti che la loro relazione è un tutto in sé perfetto»[132]. Egli riconosce pure che questa realtà significa per i coniugi una chiamata a «trasformare l’istante del godimento in una piccola eternità»[133]. Questo implica poi l’azione del volere spirituale ma soprattutto il riferimento a Dio, senza separare il matrimonio – compreso nella sua componente di godimento e di sessualità – dall’amore di Dio: «gli amanti riferiscono il loro amore a Dio» che effettivamente «darà ad esso un’assoluta impronta di eternità»[134].

92. Da queste fonti si nutre pure il personalismo di Emmanuel Mounier, che parte dal «valore assoluto della persona umana»[135], la cui piena realizzazione può avvenire solo nel donarsi, in un processo che trasfigura tutte le tensioni della personalità[136]. Al contrario, «costituita in società chiusa, la famiglia si fa ad immagine dell’individuo che le propose il mondo borghese»[137], e in questo modo costituisce solo la somma di due particolarismi, non un’unione. Se si capisce la sua vera natura, «gli individui devono sacrificare ad essa il loro particolarismo […]. Essa è un’avventura da correre, un impegno da fecondare»[138]. Ma è a condizione di tendervi con ogni loro sforzo. Questa unione totalizzante è tra due e non ammette rivali.

93. Anch’egli sostenitore del personalismo, Jean Lacroix si ispira più direttamente a Kierkegaard ed esprime idee simili sotto la figura del riconoscimento reciproco delle due persone (s’avouer l’un à l’autre), che le apre alla comunione con tutti: «Nel momento in cui si riconoscono reciprocamente, gli sposi si riconoscono al contempo dinanzi a una realtà superiore che li trascende […]. La famiglia, infatti, può essere senza dubbio il luogo, la fonte e l’archetipo di ogni socialità […]. Sarà dunque l’analisi stessa del riconoscimento a consentirci di discernere ciò che vi è di autentico e ciò che vi è di illusorio nella concezione della famiglia intesa come cellula primaria del sociale»[139]. Il riconoscimento dell’altro è «l’atto umano che assume pienamente il carattere d’intimità e il carattere di socialità», e in questo modo risponde al desiderio trascendentale dell’amore nel suo senso più ricco[140]. Ma si tratta di riconoscere l’altro «in quanto altro»[141]. In questo modo, la tendenza a lottare contro l’altro «si trasforma in riconoscimento reciproco»[142]. In questo orizzonte, si capisce che il fondamento del matrimonio «che è essenzialmente amore, non può essere altro che il riconoscimento integrale – riconoscimento del corpo, riconoscimento dell’anima, riconoscimento totale di questo spirito incarnato che è l’uomo concreto»[143]. Perciò, la monogamia emerge chiaramente dall’affermazione che il matrimonio tra un uomo e una donna è un’«unità superiore» a qualsiasi altra in questa terra: «l’essere familiare è la più grande realizzazione dell’unità umana»[144].

Faccia a faccia

94. Il filosofo francese Emmanuel Lévinas, con la sua riflessione sul volto dell’altro, si propone di scoprire la relazione personale sempre come un “faccia a faccia”. Grazie al volto, che impone sempre il proprio riconoscimento, l’interiorità personale diventa comunicabile e richiede la scoperta sempre nuova dell’altro[145]. Il desiderio sessuale, quando si muove all’interno di questa dinamica del volto dell’altro, può tenere adeguatamente insieme sensibilità e trascendenza, affermazione di sé e riconoscimento dell’alterità. In questo faccia a faccia, la carezza agisce come espressione dell’amore che cerca l’unione ammirando, rispettando e preservando l’alterità: «non è un’intenzionalità di svelamento ma di ricerca: cammino nell’invisibile»[146]. Il pensiero di Lévinas può essere una via feconda per approfondire il significato del matrimonio come unione esclusiva: un faccia a faccia che è possibile solo tra due, e che quando si realizza pienamente rivendica per sé l’appartenenza reciproca esclusiva, incomunicabile e non trasferibile al di fuori di quel “noi due”.

95. La poligamia, l’adulterio o il poliamore si fondano sull’illusione che l’intensità del rapporto possa trovarsi nella successione dei volti. Come illustra il mito di Don Giovanni, il numero dissolve il nome: disperde l’unità dello slancio amoroso. Se Lévinas ha mostrato che il volto dell’altro convoca a una responsabilità infinita, unica e irriducibile, moltiplicare i volti in una pretesa unione totale significa frammentare il senso dell’amore matrimoniale.

Il pensiero di Karol Wojtyła

96. Dietro le note catechesi sull’amore offerte da San Giovanni Paolo II come Pontefice, possiamo trovare la riflessione filosofica svolta dal giovane Vescovo Karol Wojtyła. Si tratta di una riflessione che aiuta a capire in profondità il senso dell’unione unica ed esclusiva del matrimonio.

97. Il giovane pensatore polacco prende molto sul serio il tema oggetto della presente Nota. Egli spiega che il matrimonio possiede «una struttura interpersonale: è un’unione e una comunità di due persone»[147]. Questo è il «suo carattere essenziale», «la ragion d’essere interiore e essenziale del matrimonio» che è «soprattutto di costituire un’unione di due persone». Questo è il suo «valore integrale» che rimane anche al di là della procreazione[148].

98. A fondamento di tutto il suo pensiero, si trova quello che lui stesso chiama il “principio personalista”, che esige di «trattare la persona in modo corrispondente al suo essere» e non «nella situazione di un oggetto di godimento, a servizio di un’altra persona»[149] come succede nella poligamia. L’essere persona implica necessariamente che «non può mai essere per un’altra oggetto di godimento utilitaristico, ma soltanto oggetto (più esattamente co-soggetto) d’amore»[150], perché «non può essere trattata come oggetto di uso, quindi come un mezzo»[151].

99. Il pensiero di Wojtyła consente di capire perché solo la monogamia garantisce che la sessualità si sviluppi in un quadro di riconoscimento dell’altro come soggetto con cui si condivide integralmente la vita, soggetto che è un fine in sé stesso e mai un mezzo per i propri bisogni. L’unione sessuale, che coinvolge l’intera persona, può trattare l’altro proprio come persona, cioè come co-soggetto d’amore e non oggetto di uso, unicamente se si sviluppa nel quadro di un’appartenenza unica ed esclusiva. In questo caso, coloro che donano sé stessi pienamente e completamente all’altro possono essere soltanto due. In ogni altro caso, sarebbe un dono parziale di sé, perché tale dono deve lasciare spazio ad altri, e di conseguenza tutti sarebbero trattati come mezzi e non come persone. Per queste ragioni, egli conclude che «la stretta monogamia è una manifestazione dell’ordine personalistico»[152].

100. Nella stessa opera, Karol Wojtyła allarga la riflessione sulla monogamia con uno sviluppo originale sulla finalità unitiva della sessualità, che diventa un’espressione e una maturazione di quel dato oggettivo che è l’unità matrimoniale come proprietà essenziale del matrimonio. Per questa ragione, egli nega con forza la tesi rigorista – che egli considera propria di visioni “manichee” o “ultra spiritualiste” – secondo la quale «il Creatore si serve dell’uomo e della donna, così come dei loro rapporti sessuali, per assicurare l’esistenza della specie homo. Così utilizza le persone come mezzi»[153]. Solo in questo contesto, per quella mentalità, il piacere sessuale diventerebbe tollerabile. Wojtyła sostiene invece che «non è affatto incompatibile con la dignità oggettiva delle persone il fatto che il loro amore coniugale comporti un “godimento” sessuale […]. Esiste una gioia conforme alla natura della tendenza sessuale e nello stesso tempo alla dignità delle persone; nel vasto campo dell’amore tra l’uomo e la donna, essa sgorga dall’azione comune, dalla comprensione reciproca, dall’armonioso compimento dei fini scelti insieme. Questa gioia, questo frui, può provenire tanto dal piacere multiforme creato dalla differenza dei sessi quanto dalla voluttà sessuale che offrono i rapporti coniugali […] a condizione che il loro amore si sviluppi normalmente a partire dell’impulso sessuale»[154].

101. Nel suo sforzo di evitare l’estremo rigorista, che in definitiva esclude la finalità unitiva della sessualità nel matrimonio, Wojtyła spiega che l’altro può essere veramente amato come persona e allo stesso tempo essere pienamente desiderato. Queste due cose «differiscono tra loro, ma non al punto da escludersi» perché «una persona può desiderare un’altra come un bene per sé stessa, ma può nello stesso tempo desiderare del bene per essa, indipendentemente del fatto che sia un bene anche per sé»[155]. Riconoscendo l’integralità della persona e dei suoi bisogni, si dovrà pure ammettere che l’amore reciproco richiede tante altre espressioni, non solo la sessualità: se «ciò che le due persone apportano nell’amore è unicamente, o soprattutto, la concupiscenza alla ricerca del godimento e del piacere, allora la reciprocità verrà privata di quelle caratteristiche»[156] che offrono stabilità al matrimonio (l’amore virtù, la fiducia, i doni disinteressati, ecc.).

Più in là

102. Il matrimonio di Jacques e Raïssa Maritain appare come un caso speciale di comunione intellettuale, culturale e spirituale, che non può essere presentato come l’unico modello, in quanto le forme di unione coniugale sono certamente tanto diverse quanto le persone. Il loro caso speciale ha però molto da dire. Data la meravigliosa esperienza di condividere con Raïssa una ricerca interiore della verità e soprattutto di Dio, Jacques relativizza – senza escluderla – l’importanza del desiderio, della passione e della sessualità: «La verità è questa, secondo me: anzitutto l’amore come desiderio o passione, e l’amore romantico – o quanto meno un elemento di esso – dovrebbero, per quanto possibile, essere presenti nel matrimonio come un primo incentivo, come punto d’avvio […]. In secondo luogo, il matrimonio, lungi dall’avere come suo scopo precipuo quello di portare al compimento perfetto l’amore romantico, ha da compiere nei cuori umani ben altra opera: un’infinitamente più profonda e più misteriosa operazione di alchimia»[157]. Egli è affascinato da «un’amore veramente disinteressato, che non esclude il sesso, si capisce, ma che diviene sempre più indipendente dal sesso»[158]. Non si riferisce, in un senso gnostico o giansenista, a un amore spirituale completamente scollegato dalla corporeità o dalle realtà terrene, perché una tale interpretazione sarebbe contraria al suo pensiero antropologico, ma precisamente all’ideale di «una completa ed irrevocabile donazione dell’uno all’altro, per amore dell’altro. Così è che il matrimonio può essere un’autentica comunità d’amore tra uomo e donna: qualcosa di costruito non sulla sabbia, ma sulla roccia»[159]. Questo ideale del pieno dono di sé al coniuge implica «l’ardua disciplina dell’autosacrificio ed a forza di rinunce e purificazioni [...]. Ciascuno, in altre parole, può allora rendersi realmente dedito al bene ed alla salvazione dell’altro»[160]. In questo contesto, egli sottolinea il costante bisogno del perdono: «preparato e pronto, proprio come un Angelo custode deve essere, a molto perdonare all’altro: infatti la legge evangelica del reciproco perdono bene esprime, mi pare, un’esigenza fondamentale»[161].

103. Lo sguardo filosofico di Maritain si mostra in questo testo completamente trasfigurato da una visione soprannaturale, dove la potenza dell’amore teologale spinge completamente la persona che ama al di fuori di se stessa, alla ricerca del bene dell’altro, fino alla pienezza di questo bene dell’amato che consiste nella sua salvezza, cioè nella sua unione totale con Dio. Questa visione profondamente spirituale di Maritain sembra escludere una trattazione filosofica completa dell’amore matrimoniale che possiamo trovare in altri autori, ma ha il grande pregio di guidare la nostra riflessione sull’amore monogamico in un’ascesa rivolta ai valori più alti, dove un tale amore matura in un senso oblativo, che nel matrimonio prende la forma di un’unione radicale. Quest’unione ammirevole si manifesta nella preoccupazione sincera e costante per il bene dell’altro come movimento soprannaturale, e nella ricerca tenera e generosa della realizzazione piena e totale della persona amata nell’amore salvifico di Dio.

104. Ad ogni modo, in un testo posteriore si avverte una maggiore precisione filosofica. Si tratta delle annotazioni che Maritain sviluppa a partire dal Diario della moglie, pubblicato dopo la morte di quest’ultima. Sono annotazioni completate dallo stesso Maritain e pubblicate a parte[162]. Già nelle prime pagine ritorna il tema di quell’amore molto speciale che arriva a livelli altissimi di generosità e disinteresse. Il filosofo francese lo chiama «l’amore folle»[163], perché è un amore «considerato nella sua forma estrema e completamente assoluta»[164], caratterizzato «nel potere che esso ha di alienare l’anima da se stessa»[165]. Ma la novità è che, in questo commento al Diario di Raïssa, egli compie un passo decisivo: integra positivamente la sessualità pure nel contesto di quell’amore perfettissimo. Partendo dalla natura umana fatta di spirito e corpo e dalla caratteristica totalizzante dell’amore matrimoniale, egli giunge ad affermare: «una persona umana può darsi ad un’altra o estasiarsi in un’altra al punto di fare di questa il suo Tutto, solo se essa le dà, o è disposta a darle, il suo corpo pur dandole la sua anima»[166]. In questo amore supremo tra due esseri umani, l’unità matrimoniale trova la sua più preziosa espressione terrena.  

Altri sguardi

105. Appare utile qui avere presente anche uno sguardo rivolto all’Oriente non cristiano. Ci soffermiamo, a modo di esempio, sulle tradizioni dell’India. In tale regione, nonostante la monogamia sia stata abitualmente la norma e considerata un ideale nella vita matrimoniale, nel corso dei secoli la poligamia ha continuato a essere presente. In ogni caso, uno dei testi più antichi tratto dalle scritture indù, il Manusmṛti, afferma quanto segue: «Che la fedeltà reciproca continui fino alla morte, questo può essere considerato come il riassunto della legge suprema per marito e moglie. Che l’uomo e la donna, uniti nel matrimonio, si sforzano costantemente, che (essi non siano) disuniti (e) non violino la loro reciproca fedeltà»[167]. Un testo importante che viene spesso citato per difendere la monogamia è quello dello Srimad Bhagavatam o Bhagavata Purana, in cui si legge: «Il Signore Rāmachandra fece voto di accettare una sola moglie e di non avere alcun legame con altre donne. Era un re santo, e tutto nel suo carattere era buono, non contaminato da qualità come la collera»[168]. Quando Ravana rapisce sua moglie Sita, il Signore Rāmachandra, che avrebbe potuto prendere qualsiasi altra donna come moglie, non ne prende nessuna. Inoltre, l’enfasi posta sulla castità della moglie nel Thirukkural (una raccolta classica di aforismi in lingua tamil) indica l’importanza della totale fedeltà: «Se la donna potesse conservare la castità, quale tesoro più prezioso potrebbe contenere il mondo? […] Colei che veglia incessantemente per proteggere sé stessa, si prende cura del suo marito e del buon nome della propria famiglia, date a lei un nome di donna»[169].

106. In collegamento con la riflessione filosofica e culturale sin qui svolta, è opportuno fare attenzione anche al tema dell’educazione. La nostra epoca, infatti, conosce diverse derive a proposito dell’amore: moltiplicazione dei divorzi, fragilità delle unioni, banalizzazione dell’adulterio, promozione del poliamore. A fronte di tutto ciò, si deve pure riconoscere che i grandi racconti collettivi (romanzi, film, canzoni) continuano a esaltare il mito del “grande amore” unico ed esclusivo. Il paradosso è evidente: le pratiche sociali minano ciò che l’immaginario celebra. Ciò rivela che il desiderio di un amore monogamico resta inscritto nel profondo dell’essere umano, anche quando i comportamenti sembrano smentirlo.

107. Come preservare, allora, la possibilità di un amore fedele e monogamico? La risposta si trova nell’educazione. Non basta denunciare i fallimenti; partendo dai valori che l’immaginario popolare ancora conserva, occorre preparare le generazioni ad accogliere l’esperienza amorosa come mistero antropologico. L’universo dei social network, dove il pudore svanisce e proliferano le violenze simboliche e sessuali, mostra l’urgenza di una nuova pedagogia. L’amore non può ridursi a pulsione: esso convoca sempre la responsabilità e la capacità di speranza di tutta la persona. Il fidanzamento, inteso nel suo senso tradizionale, incarna questo tempo di prova e di maturazione, in cui l’altro viene accolto come promessa d’infinito. Così, l’educazione alla monogamia non costituisce una costrizione morale, ma un’iniziazione alla grandezza di un amore che trascende l’immediatezza. Essa orienta l’energia erotica verso una saggezza della durata e verso un’apertura al divino. La monogamia non è arcaismo, ma profezia: essa rivela che l’amore umano, vissuto nella sua pienezza, anticipa in qualche modo il mistero stesso di Dio.

 

V. La parola poetica

108. A proposito di parola poetica, Papa Francesco afferma che «la parola letteraria è come una spina nel cuore che muove alla contemplazione e ti mette in cammino. La poesia è aperta, ti butta da un’altra parte»[170]. E aggiunge: «L’artista è l’uomo che con i suoi occhi guarda e insieme sogna, vede più in profondità, profetizza, annuncia un modo diverso di vedere e capire le cose che sono sotto i nostri occhi. Infatti, la poesia non parla della realtà a partire da princìpi astratti, ma mettendosi in ascolto della realtà stessa»[171]. Date queste premesse, non è possibile prescindere dal fare riferimento alla parola poetica per meglio cogliere quel mistero d’amore di due che si uniscono e si appartengono reciprocamente.

109. È utile notare come molti poeti abbiano cercato di esprimere la bellezza di questo connubio unico ed esclusivo. Riconoscere ora la forza della loro poesia non implica certamente sostenere che la loro vita sia stata perfetta o che siano stati sempre fedeli nell’amore. In ogni caso, appare evidente che, quando hanno trovato l’amore e hanno deciso di appartenere esclusivamente a un’altra persona, o quando hanno percepito il valore di un’unione esclusiva, questi poeti hanno avuto bisogno di esprimerlo mediante la loro arte, quasi a indicare che si tratta di qualcosa che va oltre la soddisfazione sessuale, il compimento di un bisogno personale o un’avventura superficiale. Si possono considerare alcuni esempi:

Abbiamo girato e girato,
fino a quando non siamo tornati a casa,
noi due
[172].

Nessun’altra, amore, dormirà con i miei sogni.
Tu andrai, andremo insieme attraverso le acque del tempo…
[173].

110. In questi versi si percepisce che, in un cammino di rispetto e di libertà, il tempo consacra la scelta reciproca, rafforza il legame, approfondisce la soddisfazione di appartenere l’uno all’altro, impreziosisce quel “noi” che arriva ad avvertirsi come indistruttibile. Nel contesto di questa unione, ciascuno dei due sa che, così come ha dato qualcosa di sé all’altro, allo stesso modo ha ricevuto tanto dall’amato:

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che
di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue
[174].

Ti do me stessa,
le mie notti insonni,
i lunghi sorsi
di cielo e stelle – bevuti
sulle montagne,
la brezza dei mari percorsi
verso albe remote
. […]
E tu accogli la mia meraviglia
di creatura,
il mio tremito di stelo
vivo nel cerchio
degli orizzonti,
piegato al vento
limpido – della bellezza:
e tu lascia ch’io guardi questi occhi
che Dio ti ha dati,
così densi di cielo –
profondi come secoli di luce
inabissati al di là
delle vette –
[175]

111. La relazione è vista come insostituibile, in modo tale che, quando il poeta vuole ritrovare le sue radici, concepisce se stesso come riferito all’altra persona, con una forza che travalica il tempo:

Io chiuderò gli occhi
e solo voglio cinque cose,
cinque radici preferite.
Una è l’amore senza fine…
La quinta cosa sono i tuoi occhi
Matilde mia, benamata,
Non voglio dormire senza i tuoi occhi,
non voglio essere senza che tu mi guardi
[176].

112. Nei grandi poeti non si trova generalmente un romanticismo ingenuo, ma un realismo che riconosce i rischi dell’assuefazione statica, accetta le sfide che stimolano la crescita, e non perde di vista allo stesso tempo la necessità di un’apertura al di fuori della cerchia ristretta dei due:

Noi due tenendoci per mano
Ci crediamo dovunque a casa nostra [...]
Accanto a saggi e a folli
Tra i fanciulli e gli adulti
[177]

113. Ciò è radicato nel fatto che l’autenticità di questa unione esclude qualsiasi forma di fusione chiusa in se stessa. L’appartenenza reciproca non è solo frutto di un bisogno personale, ma di una decisione di appartenenza all’altro che permette di superare la solitudine e l’abbandono: una decisione che è allo stesso tempo intimamente segnata da un grande rispetto per l’altro e per il suo mistero personale. L’amore, che vede nell’altro un valore unico, percepisce a suo modo che la persona umana è “intrasferibile”, che non può essere di sua proprietà, e richiede per sé un simile atteggiamento:

I tuoi occhi m’interrogano tristi.
Vorrebbero sondare tutti i miei pensieri
mentre la luna scandaglia il mare [...]
Ma è il mio cuore, il mio amore.
Le sue gioie e le sue ansie
sono immense
e infiniti i suoi desideri e le sue ricchezze.
Questo cuore ti è vicino come la tua stessa vita,
ma non puoi conoscerlo del tutto
[178].

114. In questi pochi esempi citati, emerge chiaramente come la parola poetica prenda sul serio il valore dell’unione esclusiva di due persone che hanno liberamente deciso di stare insieme e di appartenersi, in modo esclusivo, l’uno all’altro. Si può sintetizzare quanto detto sul carattere totalizzante dell’amore con le parole di un’altra grande poetessa, Emily Dickinson: «Che l’Amore è tutto / è tutto ciò che sappiamo dell’Amore»[179].

 

VI. Alcune riflessioni da approfondire

115. Grazie al cammino compiuto sin qui, è ora possibile raccogliere un bagaglio consistente di considerazioni che possono aiutare a percepire l’unione matrimoniale, unica ed esclusiva, in modo armonico e multiforme. Si tratta di considerazioni di per sé utili per un valido approfondimento del significato della monogamia; sembra tuttavia opportuno, in quest’ultima parte della Nota, concentrare l’attenzione su alcuni importanti punti specifici a proposito del tema in esame. Come si è visto, l’unità-unione matrimoniale potrebbe essere espressa sotto diverse figure filosofiche, teologiche o poetiche, ma tra tante possibili due appaiono decisive: l’appartenenza reciproca e la carità coniugale. Entrambe sono emerse con frequenza in diversi testi citati nella presente Nota.

Appartenenza reciproca

116. Un modo di esprimere quest’unione esclusiva tra due persone si riassume nell’espressione “appartenenza reciproca”. Già nel V secolo, San Leone Magno si riferisce all’appartenenza reciproca degli sposi quando parla della situazione dei soldati che, dati per morti, tornano dalla guerra e scoprono di essere stati “sostituiti” da altri. Allora il Papa ordina che «ognuno riceva ciò che gli appartiene»[180]. Questo spunto ci porta ora a riflettere su questa appartenenza reciproca in un modo più ricco e profondo.

117. È San Tommaso d’Aquino ad affermare che, per instaurare un’amicizia, «non basta neppure la benevolenza, ma si richiede l’amore scambievole»[181]. L’appartenenza reciproca è fondata sul consenso libero dei due. Infatti, nel rito latino del matrimonio, il consenso si esprime dicendo: «Io accolgo te come mia sposa», «Io accolgo te come mio sposo»[182]. Al riguardo, seguendo il dettato del Concilio Vaticano II, si deve dire che il consenso è un «atto umano col quale i coniugi mutuamente si danno e si ricevono»[183]. Questo atto «che lega gli sposi tra loro»[184] è un donarsi e riceversi: è il dinamismo che dà origine all’appartenenza reciproca, chiamata ad approfondirsi, a maturare, a diventare sempre più solida. In termini tecnici, il mutuo donarsi è la materia; l’accoglienza reciproca è la forma.

118. San Paolo VI non a caso collega la «reciproca donazione personale» nel matrimonio all’unità del vincolo, caratterizzandola come «loro propria ed esclusiva».[185] E, sempre a proposito di reciprocità, Karol Wojtyła sostiene che essa «ci obbliga a considerare l’amore dell’uomo e della donna non soltanto come l’amore dell’uno per l’altro quanto piuttosto come qualcosa che esiste tra loro […]. L’amore non è soltanto nella donna né soltanto nell’uomo, – perché allora si avrebbero in definitiva due amori –, bensì è unico, è quella cosa che li lega […]. Il suo essere, nella sua pienezza, è inter-personale e non individuale […]. È la reciprocità che, nell’amore, decide della nascita di questo “noi”. Essa prova che l’amore è maturato, è diventato qualcosa tra le persone, ha creato una comunità»[186]. Questa reciprocità è riflesso della vita trinitaria: «due persone che un amore perfetto riunisce in unità. Questo movimento e questo amore le rendono somiglianti a Dio, che è lo stesso amore, l’unità assoluta delle tre Persone»[187]. L’unità del rapporto degli sposi è profondamente radicato nella comunione trinitaria.

119. Papa Francesco amava parlare del matrimonio in termini di appartenenza liberamente scelta, perché «senza senso di appartenenza non si può sostenere una dedizione agli altri, ognuno finisce per cercare unicamente la propria convenienza»[188]. Nelle nozze, ognuno dei due «esprime la ferma decisione di appartenersi l’un l’altro. Sposarsi è un modo di esprimere che realmente si è abbandonato il nido materno per tessere altri legami forti e assumere una nuova responsabilità di fronte ad un’altra persona. Questo vale molto di più di una mera associazione spontanea per la mutua gratificazione»[189]. L’appartenenza reciproca ed esclusiva diventa una forte motivazione per la stabilità dell’unione: «Nel matrimonio si vive anche il senso di appartenere completamente a una sola persona. Gli sposi assumono la sfida e l’anelito di invecchiare e consumarsi insieme e così riflettono la fedeltà di Dio […]. È un’appartenenza del cuore, là dove solo Dio vede (cf. Mt 5,28). Ogni mattina quando ci si alza, si rinnova davanti a Dio questa decisione di fedeltà, accada quel che accada durante la giornata. E ciascuno, quando va a dormire, aspetta di alzarsi per continuare questa avventura»[190].

La trasformazione

120. Con il passare del tempo, anche quando l’attrazione fisica e la possibilità di avere rapporti sessuali si indeboliscono, l’appartenenza reciproca non è destinata alla dissoluzione. L’opzione per l’unione dei due si modifica, si trasforma. Naturalmente, non mancheranno varie espressioni intime di affetto, che comunque sono considerate anche esclusive, in quanto espressioni dell’unica unione matrimoniale, che non potrebbe essere offerta ad altre persone senza sperimentarne un’inadeguatezza. Proprio perché l’esperienza di appartenenza reciproca ed esclusiva si è approfondita e rafforzata nel tempo, ci sono espressioni che sono riservate solo a quella persona con la quale si è scelto di condividere il proprio cuore in modo unico.

121. Per Papa Francesco, questo è precisamente uno dei vantaggi di intendere l’unione matrimoniale come appartenenza reciproca: «La relazione intima e la reciproca appartenenza devono conservarsi per quattro, cinque o sei decenni, e questo comporta la necessità di ritornare a scegliersi a più riprese. Forse il coniuge non è più attratto da un desiderio sessuale intenso che lo muova verso l’altra persona, però sente il piacere di appartenerle e che essa gli appartenga, di sapere che non è solo, di avere un “complice” che conosce tutto della sua vita e che condivide tutto. È il compagno nel cammino della vita»[191]. Così «benché molti sentimenti confusi si aggirino nel cuore, si mantiene viva ogni giorno la decisione di amare, di appartenersi, di condividere la vita intera e di continuare ad amarsi e perdonarsi […]. Nel corso di tale cammino, l’amore celebra ogni passo e ogni nuova tappa […]. Il vincolo trova nuove modalità ed esige la decisione di riprendere sempre nuovamente a stabilirlo. Non solo però per conservarlo, ma per farlo crescere»[192]. Ad ogni modo, bisogna riconoscere che l’appartenenza reciproca è un modo di intendere l’unione coniugale che ha la sua grande ricchezza e insieme dei limiti che è indispensabile chiarire.

La non appartenenza

122. Una caratteristica della persona è che è un fine in sé stessa. L’essere umano «è la sola creatura sulla terra che Dio abbia voluto per sé stessa»[193]. Si può così dire che l’uomo è un fine in sé, e quindi non può essere ridotto a essere meramente lo scopo di altri. La persona non può essere trattata in un modo che non corrisponda a questa dignità, che può essere chiamata “infinita”[194], sia per l’amore illimitato che Dio nutre per essa, sia perché è una dignità assolutamente inalienabile. Ogni «individuo umano ha la dignità di persona; non è soltanto qualche cosa, ma qualcuno»[195]. Di conseguenza, la persona «non può essere trattata come oggetto di uso, quindi come un mezzo»[196].

123. Quando non c’è questa convinzione, propria del vero amore che si arresta di fronte alla dimensione sacra dell’altro, si sviluppano facilmente le malattie di un possesso indebito dell’altro: manipolazioni, gelosie, vessazioni, infedeltà. D’altra parte, la mutua appartenenza propria dell’amore reciproco esclusivo implica una cura delicata, un santo timore di profanare la libertà dell’altro, che ha la stessa dignità e pertanto gli stessi diritti. Chi ama sa che l’altro non può essere un mezzo per risolvere le proprie insoddisfazioni, sa che il proprio vuoto deve essere colmato in altri modi, mai attraverso il dominio dell’altro. Questo è ciò che non accade in tante forme di desiderio malsano che sfociano in varie manifestazioni di violenza esplicita o sottile, di oppressione, di pressione psicologica, di controllo e infine di asfissia. Questa mancanza di rispetto e riverenza di fronte alla dignità dell’altro si trova pure in quelle pretese di complementarità dove uno dei due viene obbligato a sviluppare soltanto alcune delle sue possibilità, mentre l’altro trova ampi spazi di espansione personale. Per evitare tutto ciò, si deve riconoscere che non c’è un modello unico di reciprocità matrimoniale. In un rapporto sano e generoso «vi sono ruoli e compiti flessibili, che si adattano alle circostanze concrete di ogni famiglia»[197]. Di conseguenza, «in casa le decisioni non si prendono unilateralmente, e i due condividono la responsabilità per la famiglia, ma ogni casa è unica e ogni sintesi matrimoniale è differente»[198].

124. Quando, invece di una sana appartenenza reciproca – anche se ciò richiede sempre pazienza e generosità – si fanno presenti nel coniuge segni di irritazione e persino alcune mancanze di rispetto, bisogna reagire in tempo prima che appaiano forme di manipolazione o di violenza. In questi casi, la persona deve far valere la sua dignità, porre i limiti necessari e iniziare un cammino di dialogo sincero, in modo tale da esprimere un chiaro messaggio: “Tu non mi possiedi, tu non mi domini”. E questo non solo per difendere se stessi, ma anche per la dignità dell’altro, perché «nella logica del dominio, anche chi domina finisce per negare la propria dignità»[199].

125. Il sano e bello “noi due” non può che essere la reciprocità di due libertà che non vengono mai violate, ma si scelgono a vicenda, lasciando sempre al sicuro un limite che non si può superare, che non si può valicare con la scusa di qualche bisogno, di un’ansia personale o di uno stato psicologico. Come evidenzia Papa Francesco, i coniugi «sono chiamati ad un’unione sempre più intensa, ma il rischio sta nel pretendere di cancellare le differenze e quell’inevitabile distanza che vi è tra i due. Perché ciascuno possiede una dignità propria e irripetibile»[200]. Rispettare pienamente questo principio «richiede una spogliazione interiore»[201].

126. Prendendo veramente sul serio quanto detto sin qui, la parola “appartenenza” può essere applicata al matrimonio solo in modo analogo. Infatti, una forma di appartenenza diversa da quella di un amore che sente l’altro come sacro nella sua libertà, non trasferibile nel suo nucleo personale, e autonomo, sarebbe solo un modo egocentrico di assoggettare il coniuge ai propri fini o per i propri progetti. La persona non si disperde nella relazione, non si fonde con la persona amata, rimane sempre un nucleo non cedibile. Questo non deve essere inteso come un limite o una povertà dell’amore reciproco; al contrario, permette di mantenere intatto quel livello di rispetto e di meraviglia che fanno parte di ogni amore sano, che non intende mai assorbire l’altro.

127. Ciò è confermato dal fatto che esiste una dimensione della persona che, essendo la più profonda, trascende tutte le altre – compresa quella corporea – e dove solo Dio può entrare senza violarla. C’è un nucleo dell’essere umano in cui solo l’amore infinito di Dio può regnare. Solo Lui ha l’amore onnipotente e creatore che rende possibile l’esistenza stessa della libertà. Quindi, se la tocca, può solo rafforzarla, promuoverla, esaltarla nella sua stessa natura, senza alcuna possibilità di mutilarla, dominarla, indebolirla o sovrapporsi ad essa. Infatti, «Dio solo penetra [illabitur] nell’anima»[202]:solo Dio può entrare nel profondo del cuore umano, poiché solo Lui può farlo senza perturbare la libertà e l’identità della persona[203]. Dio, attraverso la grazia, si fa pienamente vicino, con un immedesimarsi nel più profondo dell’essere umano che solo Lui può raggiungere[204]. Pertanto, «nessuno può pretendere di possedere l’intimità più personale e segreta della persona amata»[205].

128. Man mano che il loro amore matura, la coppia potrà comprendere e accettare pacificamente che la preziosa appartenenza reciproca che caratterizza il matrimonio non è un possesso, ma lascia aperte molte possibilità. Ad esempio, che uno dei due chieda un momento di riflessione, o qualche spazio abituale di solitudine o di autonomia, o che rifiuti l’intrusione dell’altro in qualche ambito della sua intimità, o che conservi qualche segreto personale custodito nel sancta sanctorum della propria coscienza senza essere pedinato o osservato.

129. Quando l’amore matura, quel “noi due” possiede tutta la forza dell’unione liberamente scelta da entrambi, tutta la gioia di una memoria comune, tutta la soddisfazione del cammino e dei sogni condivisi, tutta la sicurezza che deriva dal sentire che non si è e non si sarà soli. Ma quella bellezza è esaltata da una magnifica libertà che nessun vero amore sarebbe in grado di ferire.

130. Pertanto, il matrimonio esclude anche un controllo che possa dare sicurezza, certezza assoluta, assenza di ogni sorpresa. In un amore maturo, se l’altro ha bisogno di uno spazio per riscoprire il mondo, c’è posto solo per la fiducia, non per la pretesa di tranquillità assoluta, priva di ogni paura segreta, incapace di affrontare nuove sfide. In questo senso, il matrimonio non ci libera completamente dalla solitudine, perché il coniuge non può raggiungere uno spazio che può essere solo di Dio, né colmare un proprio vuoto che nessun essere umano è in grado di riempire. Il fatto che il suo affetto non sia perfetto non significa che sia falso, che sia totalmente egoista, che non sia autentico, ma semplicemente che è terreno, limitato, che non ci si può aspettare che soddisfi ogni proprio bisogno.

Reciproco aiuto

131. Certamente, questa capacità di accettare il rischio della libertà non implica che un coniuge molto sensibile alla difesa dei propri spazi di autonomia coltivi un’indifferenza verso le paure dell’altro, un’eccessiva fiducia in sé stesso, una pretesa di piena indipendenza che il limitato cuore umano del proprio partner, soprattutto se lo ama, non potrà accettare senza una grande sofferenza. Non può sentirsi salvato nella propria autonoma autosufficienza, perché un’alleanza d’amore implica anche il riconoscimento che l’altro ha bisogno di lui.

132. Insieme alla salvaguardia di una sana libertà, la Parola di Dio, mentre approva la richiesta di spazi di autonomia e di solitudine per un certo periodo, esige anche: «non rifiutatevi l’un l’altro» (1Cor 7,5). Quando la distanza diventa troppo frequente, il “noi due” si espone alla sua possibile eclissi, all’indebolimento del desiderio dell’altro. In ogni caso, se l’attrazione reciproca si affievolisce, è sempre possibile trovare uno spazio di dialogo sincero per sanare ciò che provoca il reciproco allontanamento. In definitiva, è sempre possibile cercare vie alternative che consolidino e arricchiscano il “noi” in un modo inedito. Si tratta di un equilibrio sano ma difficile, che ogni coppia raggiunge a modo suo, attraverso il dialogo sincero e l’offerta reciproca.

133. L’appartenenza reciproca diventa aiuto vicendevole, aiuto che non solo cerca la felicità del coniuge e un alleviamento delle sue pene, ma è anche un aiutarsi a vicenda a maturare come persone, sino a giungere al fine ultimo della vita di entrambi di fronte a Dio, nel banchetto del cielo. San Paolo VI ricorda che «per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con la quale si perfezionano a vicenda»[206]. La preghiera come coppia è certamente un mezzo prezioso per crescere nell’amore e per santificarsi insieme, preghiera che «ha come contenuto originale la stessa vita di famiglia»[207]. In questo cammino di santificazione, dice Sertillanges, non deve escludersi la sessualità vissuta come santa espressione di un pieno dono di sé all’altro, come si donano mutuamente Cristo e la sua Chiesa: «L’atto così compiuto non solo dunque è lecito come effetto di un’istituzione naturale e legale; non solo è virtuoso, come utile e diretto a fini utili; è santo della santità del sacramento di cui è l’uso, della santità dell’unione sacra di tutta l’umanità col suo Redentore»[208].

134. Un discorso sulla monogamia implica il riconoscimento del fatto che l’unicità del coniuge riflette, nell’ordine “orizzontale” delle relazioni umane, l’unicità del rapporto della persona umana con l’Infinito divino. Pensare alla monogamia significa interrogare il rapporto dell’amore umano con il suo compimento ultimo. Ogni relazione d’amore chiama silenziosamente la presenza di un Terzo infinito, che è Dio stesso[209]. Senza questo Terzo, l’amore facilmente si chiude nella propria finitudine e crolla. L’esclusività coniugale appare allora non come una limitazione, ma come la condizione di possibilità di un amore soprannaturale che, oltre la carne, si apre all’eterno. Infatti, insegna san Tommaso d’Aquino che lo stesso «Spirito Santo procede invisibilmente all’anima per il dono dell’amore»[210], per cui, di conseguenza, nell’esperienza dell’autentico amore ci colleghiamo con quell’Amore infinito che è lo Spirito Santo. Proprio l’esperienza di un amore così prossimo, come quello del matrimonio, fa sorgere potente nel cuore umano anche il desiderio di un amore non solo per sempre, ma senza fine. Allora l’amore dei coniugi diventa epifania della destinazione trascendente ed eterna della persona umana. Perché solo un amore che sia in grado di trascendere l’amore umano, un Amore eterno ed infinito, può rispondere a quel desiderio di amore “per sempre” e “senza fine” che suscita l’amore coniugale. Ed ecco perché l’esperienza di quella particolare e acuta prossimità, offerta dal legame coniugale, è ultimamente destinata a dischiudere al cuore di ogni uomo e ogni donna il desiderio di quella ineguagliabile prossimità che solo Dio può offrire in modo pieno e definitivo. E Dio stesso, facendosi uomo, inizia a rispondere a tale desiderio, anche conferendo alla prossimità che nasce dal legame matrimoniale il sigillo dell’unicità, che è precisamente segno e caparra della comunione di Dio con ciascuno di noi in un’alleanza d’amore senza fine. Di conseguenza, come non pensare al matrimonio come un cammino di aiuto vicendevole per santificarsi insieme, per raggiungere le cime dell’unione con Dio?

135. L’aiuto reciproco per la santificazione, nel quale i due si sostengono «a vicenda nella grazia»[211], si realizza soprattutto nell’esercizio della carità coniugale, perché solo la carità esercitata concretamente verso l’altro ci permette di crescere nella vita di grazia, e senza la carità qualsiasi sforzo per la santificazione «a nulla mi servirebbe» (1Cor 13,3). Per questa ragione, le ultime pagine di questo documento vengono dedicate a quella potenza unitiva che è la carità coniugale.

Carità coniugale

136. Si è già argomentato circa il carattere reciproco dell’unione coniugale, che può essere considerata come una forma di amicizia intima e totalizzante. Al riguardo, è utile ricordare che proprio San Tommaso specifica che l’amicizia è «fondata su qualche comunanza»[212]. Più che alcune affinità ideologiche o estetiche, che possono essere molto importanti, si tratta della comunione che crea l’amore, che con la sua forza unitiva rende gli sposi simili tra loro, accresce le cose che si condividono, crea un tesoro di vita tra i due. Quindi, prima di tutto, bisogna dire che, per parlare di amicizia, ci deve essere l’amore.

Una particolare forma di amicizia

137. Non si può comprendere bene il matrimonio senza parlare dell’amore, che per i cristiani è sempre chiamato a raggiungere le vette della carità, l’amore soprannaturale che «tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,7). Infatti, la «grazia propria del sacramento del Matrimonio è destinata a perfezionare l’amore dei coniugi»[213]. Questo amore soprannaturale è un dono divino, che viene chiesto nella preghiera e nutrito nella vita sacramentale, e invita i coniugi a fare memoria del fatto che è Dio l’autore principale dell’unità del matrimonio, e che senza il suo aiuto la loro unione non potrà mai raggiungere la sua pienezza. Quando nel rito latino del matrimonio si riportano le parole del Signore: «l’uomo non osi separare ciò che Dio unisce»[214] (cf. Mt 19,6; Mc 10,9), si nota che l’unità coniugale non è costituita solo dal consenso umano, ma è opera dello Spirito Santo. Lo stesso si deve dire della crescita nella comunione degli sposi, animati dalla grazia e dalla carità. Tale comunione si sviluppa come risposta a una «vocazione di Dio e attuata come risposta filiale al suo appello»[215].  Ma la crescita della carità non avviene senza la cooperazione umana: in questo caso, la collaborazione degli sposi che cercano ogni giorno una comunione sempre più intensa, ricca e generosa. 

138. La carità – compresa la carità coniugale – è un’unione affettiva, intendendo qui per “affettivo” qualcosa di più dei sentimenti e dei desideri: «implica un legame affettivo di chi ama con la cosa amata: in quanto chi ama considera la persona amata come un’unica cosa con se stesso»[216]. Si esprime nell’azione della volontà[217] che vuole, sceglie qualcuno, decide di entrare in intima comunione con lui, si unisce a quella persona liberamente, con tutti gli effetti più o meno intensi che ciò può implicare nella sensibilità sotto forma di desiderio, di emozioni, di attrazione sessuale, di sensualità. Anche quando questi effetti sulla sensibilità o sul corpo si indeboliscono o si trasformano nelle varie fasi della vita, l’unione affettiva rimane, a volte con grande intensità, nella volontà. È la volontà che vuole rimanere in unione con l’altro essere umano, apprezzandolo come di «grande valore»[218]  e costituendo con lui «un’unica cosa con se stesso»[219].

139. Solo così è possibile sostenere la fedeltà nei momenti avversi o nella tentazione, perché la carità ci tiene aggrappati a un valore più alto del soddisfacimento dei bisogni personali. Non si possono trascurare, a questo riguardo, le tante testimonianze di coppie in cui i coniugi si sono sostenuti a vicenda nelle varie difficoltà della vita, a volte nel corso di prove durate anni, testimoniando così la rilevanza profetica della monogamia. Ciò viene espresso bene nella formula del consenso del rito latino del matrimonio: «prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita»[220]. Proprio la carità coniugale, con la sua forza unitiva, rende possibile che detta promessa si compia veramente. Questa unione affettiva, fedele e totale, si configura nel matrimonio come un’amicizia, perché alla fine la carità è una forma di amicizia[221]. E Papa Francesco, citando San Tommaso d’Aquino, sostiene pertanto che «dopo l’amore che ci unisce a Dio, l’amore coniugale è la “più grande amicizia”»[222]

140. Nell’Antico Testamento vi è un’affermazione perentoria, riferita alla necessità di amare: «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18). Si tratta di un’affermazione che giunge al termine di un brano in cui vengono richiamati in continuazione gli obblighi del pio israelita verso coloro che sono il suo “prossimo”. È questa un’affermazione assai nota, poiché Gesù la riprende e rilancia (cf. Mt 22,39; Mc 12,31; Lc 10,29-37). Egli stabilisce così un legame del tutto speciale fra la realtà dell’amore, fenomeno così universale, e la categoria di “prossimo”. In questo modo, l’amore stesso, quando è autentico, non solo si rivolge a coloro che ci sono vicini, ma è altresì in grado di generare una “prossimità”. Ne risulta così che il “prossimo” è colui con cui si realizza una particolare condivisione di vita. In tal senso, proprio l’amore coniugale rivela ed incarna una speciale “prossimità”, che fa risuonare in modo particolarmente convincente quanto è contenuto nel comandamento. L’amore degli sposi, infatti, realizza e richiama una vicinanza unica e singolare fra due cuori che si amano, generando una speciale affinità che si nutre di una tale condivisione di sé, dei beni e della vita intera, che la profondità dell’amore coniugale è in grado di realizzare con imparagonabile intensità. Man mano che l’amore matura e cresce, nel matrimonio il cuore della persona amata percepisce che nessun altro cuore è in grado di farla sentire “a casa”, come quello della persona da lei amata.

In corpo e anima

141. Questa amicizia coniugale, carica di conoscenza reciproca, di apprezzamento dell’altro, di complicità, di intimità, di comprensione e pazienza, di ricerca del bene dell’altro, di gesti sensibili, nella misura in cui supera la sessualità, allo stesso tempo la abbraccia e le dà il suo significato più bello, più profondo, più unitivo e più fecondo. A tale proposito, Papa Francesco ricorda che «Dio stesso ha creato la sessualità, che è un regalo meraviglioso»[223]. Allo stesso tempo, «l’unione sessuale, vissuta in modo umano e santificata dal sacramento, è a sua volta per gli sposi via di crescita nella vita della grazia»[224]. Per questo, collocare la sessualità nel quadro proprio di un amore che unisce i coniugi in un’unica amicizia, che cerca il bene dell’altro, non implica una svalutazione del piacere sessuale. Orientandolo alla donazione di sé stessi, esso non solo viene impreziosito, ma può anche essere potenziato. San Tommaso d’Aquino spiega tutto questo molto bene quando ricorda che «la natura ha legato il piacere alle funzioni necessarie per la vita dell’uomo» e che colui che lo rifiutasse, «al punto di trascurare ciò che è necessario per la conservazione della natura, commetterebbe peccato, violando così l’ordine naturale. Ed è questo appunto che rientra nel vizio dell'insensibilità»[225]. All’interno di questa logica, San Tommaso sostiene che, prima del peccato originale, il piacere sensibile era maggiore, poiché la natura era più pura, più integra, e di conseguenza il corpo era più sensibile. Ciò è l’opposto dell’ansiosa dissolutezza che alla fine danneggia il piacere privandolo delle possibilità di un’esperienza autenticamente umana[226]. Alle capacità specificamente umane che permettono allo spirito umano di permeare la sensibilità, di orientarla e di portarla a compiutezza, «non spetta di rendere minore il piacere dei sensi», ma piuttosto di renderlo possibile in tutta la sua pienezza e ricchezza, impedendo «alla facoltà del concupiscibile di aderire di modo sfrenato al piacere»[227]. Vivere la sessualità come azione di tutto l’essere umano, nella sua corporeità e interiorità, grazie anche al potere trasfigurante della carità, significa che essa non è vissuta passivamente, come un semplice lasciarsi trasportare dagli impulsi, ma come l’azione della persona che sceglie di unirsi pienamente all’altro.

142. Vissuta in questo modo, la sessualità non è più lo sfogo di un bisogno immediato, ma è una scelta personale che esprime la totalità della propria persona e assume l’altro come una totalità personale. Questa verità, invece di compromettere l’intensità del piacere, può aumentarlo, renderlo più intenso, più ricco e più appagante. Il solo fatto di essere trattato come una persona, e di trattare l’altro allo stesso modo, può liberare il cuore da traumi, paure, angosce, ansie, sentimenti di solitudine, abbandono, incapacità di amare, che certamente feriscono il piacere. Al tempo stesso, lo sviluppo dell’amore come virtù umana e teologale aiuta a liberare il meglio di ogni persona nella propria identità unica, e così a renderla capace di una gioia più grande e più umana, fino a rendere grazie a Dio che ha creato tutto «perché possiamo goderne» (1Tm 6,17). Tutto ciò non toglie all’unione sessuale quella «abbondanza di piacere che è nell’atto venereo ordinato secondo ragione» e che «non contraddice il mezzo della virtù»[228]. Invece, se ci si ripiega su se stessi e sui propri bisogni immediati, e si usa l’altro come solo mezzo per il loro sfogo, il piacere lascia più insoddisfatti e il sentimento di vuoto e solitudine diventa più amaro. 

143. Parlando della carità coniugale, Karol Wojtyła invita a superare ogni dialettica inutile, spiegando che «l’amore-virtù si riferisce all’amore effettivo così come all’amore di concupiscenza»[229]. Papa Benedetto XVI, in Deus caritas est, ribadisce che amore oblativo (amor benevolentiae) e amore possessivo (amor concupiscentiae) non si possono staccare tra loro, perché «in fondo l’“amore” è un’unica realtà, seppur con diverse dimensioni; di volta in volta, l’una o l’altra dimensione può emergere maggiormente. Dove però le due dimensioni si distaccano completamente l’una dall’altra, si profila una caricatura o in ogni caso una forma riduttiva dell’amore»[230]. Quando parliamo dell’amore di concupiscenza non dobbiamo intendere solo il desiderio sessuale, ma anche qualsiasi modo di cercare l’altro come “un bene per me”, per superare la solitudine, per ricevere aiuto nelle difficoltà, per avere uno spazio di totale fiducia, ecc. Questa forma di amore, che non è esclusa nel matrimonio, è un modo per esprimere che io non sono il salvatore dell’altro, un onnipotente e inesauribile datore di bene, ma che sono un essere bisognoso, che anch’io ho bisogno dell’altro, che anch’io sono incompleto e fragile, e che quindi l’altro è importante per me e gli do la possibilità di diventare fecondo facendomi del bene. Fare altrimenti sarebbe una sorta di autosufficienza che può essere facilmente trasformata in un egocentrismo mascherato, perché Satana «si maschera da angelo di luce» (2Cor 11,14). Benedetto XVI spiega così che «l’uomo non può neanche vivere esclusivamente nell’amore oblativo, discendente. Non può sempre soltanto donare, deve anche ricevere. Chi vuol donare amore, deve egli stesso riceverlo in dono»[231].

144. In questo senso, non possiamo ignorare che negli ultimi decenni, nel contesto dell’individualismo consumista postmoderno, sono apparsi problemi diversi originati da una ricerca eccessiva e senza controllo del sesso, oppure dalla semplice negazione del fine procreativo della sessualità. Come peculiarità degli ultimi decenni, si può segnalare l’esplicita negazione del fine unitivo della sessualità e del matrimonio stesso. Ciò accade specialmente per via della sensazione di ansia, di essere sempre impegnati, di voler disporre di più tempo libero per sé stessi, di essere sempre presi dall’ossessione di viaggiare e conoscere altre realtà. Di conseguenza, scompare il desiderio dello scambio affettivo, degli stessi rapporti sessuali, ma anche di dialogo e cooperazione, cose che sono viste come “stressanti”.

La multiforme fecondità dell’amore

145. Una visione integrale della carità coniugale non nega la sua fecondità, la possibilità di generare una nuova vita, perché «questa totalità, richiesta dall’amore coniugale, corrisponde anche alle esigenze di una fecondità responsabile»[232]. L’unione sessuale, come modalità di espressione della carità coniugale, deve naturalmente rimanere aperta alla comunicazione della vita[233], anche se ciò non significa che questo debba essere uno scopo esplicito di ogni atto sessuale. In effetti, possono verificarsi tre situazioni legittime:

a) Che una coppia non possa avere figli. Karol Wojtyła spiega ciò magnificamente, quando ricorda che il matrimonio possiede «una struttura interpersonale, è un’unione e una comunità di due persone […]. Per molte ragioni, il matrimonio può non diventare famiglia, ma la mancanza di questa non lo priva del suo carattere essenziale. Infatti, la ragion d’essere interiore e essenziale del matrimonio non è soltanto di trasformarsi in famiglia, ma soprattutto di costituire un’unione di due persone, unione duratura e fondata sull’amore […]. Un matrimonio in cui non vi siano figli, senza colpa degli sposi, conserva il valore integrale dell’istituzione […] non perde nulla della propria importanza»[234].

b) Che una coppia non cerchi un determinato atto sessuale consapevolmente come un mezzo di procreazione. Lo dice anche Wojtyła, sostenendo che un atto coniugale, il quale «essendo in sé stesso un atto d’amore che unisce due persone, può non venir necessariamente considerato da esse come un mezzo cosciente e voluto di procreazione»[235].

c) Che una coppia rispetti i tempi naturali di infertilità. Seguendo questa linea di riflessione, come afferma San Paolo VI, «la Chiesa insegna essere allora lecito tener conto dei ritmi naturali immanenti alle funzioni generative per l’uso del matrimonio nei soli periodi infecondi»[236]. Ciò può servire non solo a «regolare la natalità», ma anche a scegliere i momenti più opportuni per accogliere una nuova vita. Nel frattempo, la coppia può sfruttare tali periodi «a manifestazione di affetto e a salvaguardia della mutua fedeltà. Così facendo essi danno prova di amore veramente e integralmente onesto»[237].

146. Tutto ciò mostra l’importante novità che Papa Pio XI offre quando afferma che l’amore coniugale «pervade i doveri tutti della vita coniugale e nel matrimonio cristiano tiene come il primato della nobiltà»[238]. In questo modo, egli aiuta a superare la discussione sul rapporto tra i fini o i significati del matrimonio (procreativo e unitivo) e l’ordine che esiste tra di essi, ponendo la carità coniugale al di sopra di questa dialettica dei fini e dei beni come questione centrale della vita coniugale, che a sua volta le conferisce una multiforme fecondità. Gli sposi, anche nei momenti più difficili, possono dire: “Siamo amici, ci amiamo, ci valorizziamo, abbiamo deciso di condividere tutta la nostra vita, ci apparteniamo, e abbiamo scelto liberamente questa unione che Dio stesso ha benedetto e consolidato. Se in un momento non ci sono figli, rimaniamo uniti e siamo fecondi in altri modi, se in un momento non c’è sesso, continuiamo a vivere questa amicizia unica, esclusiva e totalizzante che è anche il nostro miglior cammino di maturazione e santificazione”.

147. Lo stesso Sant’Agostino, che così fortemente sottolinea il fine della procreazione, insegna che il matrimonio in sé stesso è un bene anche se non ci sono figli, «perché stringe una società naturale tra i due sessi. Altrimenti non continuerebbe a chiamarsi matrimonio anche nei vecchi, specie quando avessero perduto i figli o non li avessero avuti affatto»[239]. Una simile posizione, espressa con altre parole, viene sostenuta da San Giovanni Crisostomo: «Che dire dunque: se non ci sarà alcun bambino, allora [gli sposi] non saranno più due? È evidente: il loro congiungersi (míxis) infatti compie proprio questo, riversa e mescola insieme i corpi di entrambi. E come chi ha versato del profumo nell’olio rende il tutto una cosa sola, così anche qui»[240]. Nella sua sostanza, ciò è affermato anche dal Concilio Vaticano II: «Anche se la prole, spesso tanto vivamente desiderata, non c’è, il matrimonio perdura come consuetudine e comunione di tutta la vita e conserva il suo valore»[241].

148. Un autore illustra bene che, al di là degli “obiettivi” che i coniugi possono porsi, che non costituiscono l’essenza del matrimonio, «l’unione-unità che comporta il matrimonio si spiega e si giustifica per sé stessa, con priorità alla sua tensione teleologica, perché è un’unione-unità che possiede in sé stessa la sua propria e completa ragione di bene, dalla quale derivano, senz’altro, determinate opere proprie, ma come conseguenze, mai come cause»[242]. Di questa unione-unità, che appartiene all’essenza del matrimonio, la carità coniugale è la principale e più perfetta espressione morale e spirituale che dona al matrimonio diverse forme di fecondità.

Un’amicizia aperta a tutti

149. Da quanto si è detto consegue che un’unione esclusiva generata e sostenuta dal vero amore, anche se ancora immaturo e fragile, non può essere chiusa in se stessa; essa non è il prolungamento dell’individualismo nella vita di coppia, ma è aperta ad altre relazioni, è disposta al dono di sé della coppia, ai progetti condivisi dai due per fare qualcosa di bello per la comunità e per il mondo.

150. Se il matrimonio è già di per sé un quadro di relazione che matura entrambi i coniugi, ciò è ancora più vero quando esso è generosamente aperto agli altri, superando così «l’originaria tragica chiusura in sé medesimo dell’uomo»[243] che porta a pensare che isolandosi la persona è più libera e più felice. Perché «la creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l’uomo realizza sé stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio»[244].

151. Come insegna Papa Francesco nel suo appello alla fratellanza universale nella sua Enciclica Fratelli tutti, la carità è chiamata a una crescita intensiva ma anche estensiva, che «tende ad abbracciare tutti»[245]. La carità, dunque, ci spinge ad allargare il “noi” coniugale: «Non posso ridurre la mia vita alla relazione con un piccolo gruppo e nemmeno alla mia famiglia, perché è impossibile capire me stesso senza un tessuto più ampio di relazioni […].  Il legame di coppia e di amicizia è orientato ad aprire il cuore attorno a sé, a renderci capaci di uscire da noi stessi fino ad accogliere tutti. I gruppi chiusi e le coppie autoreferenziali, che si costituiscono come un “noi” contrapposto al mondo intero, di solito sono forme idealizzate di egoismo e di mera autoprotezione»[246].

152. Il rischio della “endogamia”, cioè di un “noi” chiuso, contraddice la natura stessa della carità e può ferirla mortalmente. Quattro fattori possono prevenire questa “endogamia” che snatura e impoverisce il senso dell’unione coniugale:

a) Gli spazi che ciascuno dei coniugi vive nel lavoro, nelle iniziative personali, nei momenti di apprendimento e di sviluppo al di fuori della vita matrimoniale. Se uno dei due non ha un impiego, diventa necessario creare questi spazi a vantaggio del bene del matrimonio, arricchendo il dialogo e la relazione in generale.

b) Il significato procreativo del matrimonio, che manifesta la fecondità dell’amore che non è chiuso alla comunicazione della vita. In coloro che non sono in grado di avere figli, l’adozione o altre forme di sostegno stabile per i figli di altre coppie possono essere un modo di realizzare questa fecondità.

c) Il tempo che si condivide con gli altri amici sposati, nel corso del quale, pur imparando dalle esperienze degli altri e ricevendo da loro sostegno, c’è una costante disponibilità a dare una mano nei momenti difficili, aiutando allo stesso tempo la coppia a prendere coscienza di sé come unione grazie all’amicizia con altre coppie.

d) Il senso sociale della coppia, che, fedele alla dimensione sociale della vita cristiana, cerca le vie per rendere un servizio alla società e alla Chiesa, impegnandosi insieme nella ricerca del bene comune: «Anche la famiglia con molti figli è chiamata a lasciare la sua impronta nella società dove è inserita, per sviluppare altre forme di fecondità che sono come il prolungamento dell’amore che la sostiene […]. Non rimane ad aspettare, ma esce da sé nella ricerca solidale»[247]. «L’amore sociale, riflesso della Trinità, è in realtà ciò che unifica il senso spirituale della famiglia e la sua missione all’esterno di sé stessa»[248].

153. Una particolare prova dell’apertura dell’amicizia della coppia verso gli altri e della fecondità della loro carità si manifesta nella loro attenzione verso i poveri. Infatti, ricorda Papa Leone XIV, «il cristiano non può considerare i poveri solo come un problema sociale: essi sono una “questione familiare”. Sono “dei nostri”»[249]. Inoltre, «l’amore a coloro che sono poveri – in qualunque forma si manifesti tale povertà – è la garanzia evangelica di una Chiesa fedele al cuore di Dio»[250]. Questo fatto si riflette in una delle opzioni per la benedizione finale nel rito latino del matrimonio, che si conclude con la preghiera: «Siate nel mondo testimoni dell’amore di Dio perché i poveri e i sofferenti, che avranno sperimentato la vostra carità, vi accolgano grati un giorno nella casa del Padre»[251].

 

VII. Conclusione

154. In definitiva, sebbene ciascuna unione sponsale sia una realtà unica, incarnata nei limiti umani, ogni matrimonio autentico è un’unità composta da due singoli, che richiede una relazione così intima e totalizzante da non poter essere condivisa con altri. Allo stesso tempo, poiché è un’unione tra due persone che hanno esattamente la stessa dignità e gli stessi diritti, essa esige quell’esclusività che impedisce all’altro di essere relativizzato nel suo valore unico e di essere usato solo come mezzo tra gli altri per soddisfare dei bisogni. Questa è la verità della monogamia che la Chiesa legge nella Scrittura, quando afferma che da due diventano “una sola carne”. È la prima caratteristica essenziale e inalienabile di quell’amicizia così peculiare che è il matrimonio, e che richiede come manifestazione esistenziale una relazione totalizzante – spirituale e corporea – che matura e cresce sempre più verso un’unione che rifletta la bellezza della comunione trinitaria e dell’unione tra Cristo e il suo amato Popolo. Ciò si verifica a un punto tale che possiamo riconoscere «nell’intima unione coniugale, per cui due persone diventano un cuore, un’anima, una carne, il primo senso originario del matrimonio»[252].

155. Il cammino seguito lungo questa Nota permette ora di evidenziare uno sviluppo del pensiero cristiano sul matrimonio, dall’antichità ai giorni nostri, dove è evidente che delle sue due proprietà essenziali – unità e indissolubilità – l’unità è la proprietà fondante. Da un lato, perché l’indissolubilità deriva come caratteristica di un’unione unica ed esclusiva. Dall’altro, perché l’unità-unione, accettata e vissuta con tutte le sue conseguenze, rende possibili la permanenza e la fedeltà che l’indissolubilità esige. Infatti, diversi documenti magisteriali hanno descritto l’unione matrimoniale semplicemente come «indissolubile unità»[253].

156. Quest’unione esige la crescita costante dell’amore: «l’amore matrimoniale non si custodisce prima di tutto parlando dell’indissolubilità come di un obbligo, o ripetendo una dottrina, ma fortificandolo grazie ad una crescita costante sotto l’impulso della grazia. L’amore che non cresce inizia a correre rischi, e possiamo crescere soltanto corrispondendo alla grazia divina mediante più atti di amore, con atti di affetto più frequenti, più intensi, più generosi, più teneri, più allegri»[254]. L’unità matrimoniale non è solo una realtà che deve essere sempre meglio compresa nel suo senso più bello, ma anche una realtà dinamica, chiamata a uno sviluppo continuo. Come afferma il Concilio Vaticano II, il marito e la moglie «sperimentano il senso della propria unità e sempre più pienamente la conseguono»[255]. Perché «il meglio è quello che non è stato ancora raggiunto, il vino maturato col tempo»[256].


Il Sommo Pontefice Leone XIV, nell’Udienza concessa al sottoscritto Prefetto insieme al Segretario per la Sezione Dottrinale del Dicastero per la Dottrina della Fede, il giorno 21 novembre 2025, Memoria Liturgica della Presentazione della Beata Vergine Maria, ha approvato la presente Nota, deliberata nella Sessione Ordinaria di questo Dicastero in data 19 novembre 2025, e ne ha ordinato la pubblicazione. 

Dato a Roma, presso la sede del Dicastero per la Dottrina della Fede, il 25 novembre 2025.

Víctor Manuel Card. Fernández
Prefetto

Mons. Armando Matteo
Segretario
per la Sezione Dottrinale

 

Ex Audientia Die 21 novembris 2025
LEO PP XIV

   

 


[1] Francesco, Udienza generale (23 ottobre 2024): L’Osservatore Romano (23 ottobre 2024), 2..

[2] Giovanni Paolo II, Omelia nella Messa per le famiglie a Kinshasa (3 maggio 1980), n. 2: AAS 72 (1980), 425.

[3] La «Symposium of Episcopal Conferences of Africa and Madagascar» (SECAM) ha assunto l’impegno di redigere un report per il Sinodo dei Vescovi sulle sfide della poligamia. Nell’attesa di tale documento, sembra opportuno rilevare che, secondo un’opinione comune, il matrimonio monogamo in Africa sarebbe da ritenere un dato eccezionale, data la diffusione della pratica della poligamia in tali regioni. Invece, studi approfonditi sulle culture africane mostrano che le diverse tradizioni attribuiscono un’importanza speciale al primo matrimonio tra un uomo e una donna e, soprattutto, al ruolo che la prima sposa è chiamata a svolgere nei confronti delle altre spose. Infatti, le ricerche indicano piuttosto che la poligamia sia una pratica tollerata a causa delle necessità della vita (assenza di prole, levirato, manodopera per la sopravvivenza, ecc.). Molte tradizioni promuovono infatti il modello monogamico come l’ideale del matrimonio che corrisponde ai disegni divini. La prima moglie, regolarmente sposata secondo i costumi tradizionali, è spesso presentata come quella data da Dio all’uomo, sebbene quest’ultimo possa accogliere altre donne. Nel caso della poligamia, alla prima moglie è riconosciuto un posto speciale nel compiere i riti sacri legati ai funerali o nell’occuparsi dell’educazione dei figli nati da altre donne nella famiglia. È interessante rilevare che, negli ultimi decenni, in alcuni Stati, il legislatore civile ha stabilito la monogamia quale regime matrimoniale ordinario (cf. Société Africaine de Culture, Les religions africaines comme source de valeurs de civilisation. Colloque de Cotonou, 16-22 août 1970, Présence Africaine, Paris 1972; Isidore de Souza, «Mariage et famille», in Revue de l’Institut Catholique de l’Afrique de l’Ouest 5-6 [1993], 164; Id., «Notion et réalité de la famille en Afrique et dans la Bible», in Savanes Forêts 30 [1984], 145-146).

[4] Can. 1056 CIC (corsivo aggiunto). Cf. can. 776, § 3 CCEO.

[5] Can. 1134 CIC (corsivo aggiunto). Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1638.

[6] Il Supplemento della Summa Theologiae (Suppl., q. 44, a. 3) afferma la definizione del matrimonio data da Pietro Lombardo in Id., Sent. IV, d. 27, c. 2 (164): «Sunt igitur nuptiae vel matrimonium viri mulierisque coniunctio maritalis, inter legitimas personas, individuam vitae consuetudinem retinens».

[7] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, Suppl., q. 44, a. 1, resp. (corsivo aggiunto).

[8] Giustiniano, Institutiones, I, 9, 1: Justinian’s Institutes, P. Krueger (ed.), Cornell University Press, Ithaca (NY) 1987, 4.

[9] D. von Hildebrand, L’enciclica Humanae vitae: segno di contraddizione, Paoline, Roma, 1968, 43.

[10] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), n. 19: AAS 74 (1982) 101-102 (corsivo aggiunto).

[11] Agostino, In Ioannis Evangelium, tract. XXVI, 4 («Da amantem, et sentit quod dico»): PL 35, 1608.

[12] Paolo VI, Discours aux Foyers des Équipes Notre-Dame (4 maggio 1970), n. 6: AAS 62 (1970) 430.

[13] Benedetto XVI, Incontro con i giovani della diocesi di Roma in preparazione alla XXI Giornata mondiale della gioventù (6 aprile 2006), n. 2: AAS 98 (2006), 351. Cf. Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), n. 68: AAS 74 (1982), 163-165.

[14] Giovanni Paolo II, Udienza generale (13 agosto 1980), n. 2: Insegnamenti III, 2 (1980), 397.

[15] Cf. Pontificia Commissione Biblica, Che cos’è l’uomo? (Sal 8,5). Un itinerario di antropologia biblica (30 settembre 2019), n. 173: Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2019, 148-149.

[16] Francesco, Esort. ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 12: AAS 108 (2016), 315-316.

[17] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), n. 11: AAS 98 (2006), 226-227.

[18] Francesco, Esort. ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 13: AAS 108 (2016), 316.

[19] Giovanni Paolo II, Udienza generale (27 agosto 1980), n. 4: Insegnamenti III, 2 (1980), 454.

[20] Benedetto XVI, Discorso in occasione del XXV anniversario della fondazione del Pontificio Istituto «Giovanni Paolo II» per studi su matrimonio e famiglia (11 maggio 2006): Insegnamenti II, 1 (2006), 579. Cf. Id., Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), n. 11: AAS 98 (2006), 226-227.

[21] Cf. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 48: AAS 58 (1966), 1067; Francesco, Esort. ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 67: AAS 108 (2016), 338.

[22] In greco: «Τίμιος ὁ γάμος ἐν πᾶσιν καὶ ἡ κοίτη ἀμίαντος» (Eb 13,4).

[23] Giovanni Crisostomo, De virginitate, 19: PG 48, 547.

[24] Agostino, De Genesi ad litteram, IX, cap. 7, n. 12: PL 34, 397.

[25] Id., De bono coniugali, 1, 1: PL 40, 373.

[26] Tertulliano, Ad uxorem, II, 8, 6-7: CCSL 1, 393, come citato nel Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1642 (cf. PL 1, 1302A-B). Si osserva a margine che Tertulliano ha trattato il tema della monogamia in un’opera specifica: De monogamia (PL 2, 929-954). Inoltre, un altro Padre che ha affrontato direttamente l’argomento è Girolamo. Cf. Epistula 123, ad Geruchiam de monogamia (PL 22, 1046-1059).

[27] Ambrogio, Expositio Evangelii secundum Lucam, VIII, 7: PL 15, 1767.

[28] Giovanni Crisostomo, Commentarium in Matthaeum, hom. 62, 2: PG 58, 597.

[29] Lattanzio, Divinae institutiones, VI, 23: PL 6, 720.

[30] Cf. Pio XII, Lett. enc. Mystici Corporis Christi (29 giugno 1943), «Matrimonio enim, quo coniuges sibi invicem sunt ministri gratiae, externo Christianae consortionis providetur ordinateque incremento»: AAS 35 (1943), 202.

[31] Giovanni Crisostomo, Homiliae in Epistolam I ad Timotheum., hom. 9, cap. II: PG 62, 546. La Commissione Teologica Internazionale ha cercato di accogliere lo sguardo dell’Oriente cristiano spiegando che bisogna evitare che il valore del consenso dei coniugi «faccia del sacramento una pura e sola emanazione del loro amore. Il sacramento come tale appartiene totalmente al mistero della chiesa in cui sono introdotti, in modo privilegiato, dal loro amore coniugale» (Commissione Teologica Internazionale, La dottrina cattolica sul sacramento del matrimonio [1977], B. Le “sedici tesi cristologiche” di Gustave Marthelet, S.I., approvate “in forma generica” dalla Commissione Teologica Internazionale, tesi 10).

[32] Clemente di Alessandria, Stromata III, 12: PG 8, 1185B, che cita Rm 7,12.

[33] Giovanni Crisostomo, Quales ducendae sint uxores, 3: PG 51, 230 (corsivo aggiunto).

[34] Gregorio Nazianzeno, Oratione 37, 7: PG 36, 291.

[35] Bonaventura, Breviloquium, VI, 13, 3, tr. a cura di M. Aprea, in Opuscoli teologici/2. Breviloquio, Opere di San Bonaventura 5/2, Città Nuova, Roma 1996, 293-295.

[36] A.M. de’ Liguori, Theologia moralis (Editio nova Leonardi Gaudé), Typis Polyglottis Vaticanis, Roma 1912, lib. VI, tract. VI, cap. II, dub. I, n. 882.

[37] Cf. Ibid., n. 882: «Invece, i fini accidentali estrinseci possono essere molti, come il conseguimento della pace, la ricerca del piacere, ecc.».

[38] Ibid., n. 883.

[39] Cf. D. von Hildebrand, Il matrimonio, tr. a cura di B. Magnino, Morcelliana, Brescia 1959.

[40] Id., Metaphysik der Gemeinschaft. Untersuchungen über Wesen und Wert der Gemeinschaft, Kirche und Gesellschaft 1, Haas & Grabherr, Augsburg 1930, 40.

[41] Ibid., 45.

[42] A. von Hildebrand, Man and Woman: A Divine Invention, Sapientia Press, Ave Maria (FL) 2010, xiii.

[43] Ibid., 58.

[44] Ibid., 10.

[45] Ibid., 135-136.

[46] Cf. Francesco, Esort. ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 181: AAS 108 (2016), 383.

[47] H.U. von Balthasar, «Pneuma e istituzione», in Spirito e istituzione. Saggi teologici IV, Jaca Book, Milano 2019, 232.

[48] Ibid., 236-237.

[49] H.U. von Balthasar, Gli stati di vita del Cristiano, Jaca Book, Milano 20173, 202-203.

[50] Id., «Pneuma e istituzione», op. cit., 234.

[51] K. Rahner, Schriften zur Theologie, Band VIII, Benzinger, Einsiedeln–Zürich–Köln 1967, 539.

[52] Cf. Id., Sul matrimonio, tr. a cura di G. Ruggieri, Meditazioni teologiche 6, Queriniana, Brescia 1966, 10.

[53] Ibid.

[54] Id., Chiesa e sacramenti, tr. a cura di A. Bellini, Morcelliana, Brescia 19693, 106.

[55] A. Schmemann, For the Life of the World. Sacraments and Orthodoxy, St. Vladimir’s Seminary Press, Crestwood (NY) 19982, 90-91.

[56] P.N. Evdokimov, Il matrimonio, sacramento dell’amore, tr. a cura di L. Marino, Spiritualità orientale, Magnano 2008, 165. (Ed. italiana di Id., Le mariage, sacrement de l’amour, Editions du Livre Français, Lyon 1944.)

[57] J. Meyendorff, Marriage, An Orthodox Perspective, St. Vladimir’s Seminary Press, Crestwood (NY) 20003, 16.

[58] I. Zizioulas, Comunione e alterità, tr. a cura di M. Campatelli – G. Cesareo, Lipi, Roma 2016, 11.

[59] C. Yannaras, La libertà dell’ethos, tr. a cura di B. Petrà, Sequela oggi, Qiqajon, Magnano (BI) 2015, 164ss.

[60] Ibid.

[61] Innocenzo III, Lett. Gaudemus in Domino (1201): DH 778.

[62] Cf. Ibid.: DH 779.

[63] Concilio di Lione II, Sessione IV (6 luglio 1274), Professione di fede dell’Imperatore Michele VIII Paleologo: DH 860.

[64] Cf. Concilio di Trento, Sessione XXIV (11 novembre 1563), Dottrina sul Sacramento del Matrimonio: DH 1798.

[65] Benedetto XIV, Dichiarazione Matrimonia quae in locis (4 novembre 1741), n. 2: DH 2517.

[66] Leone XIII, Lett. enc. Arcanum divinae Sapientiae (10 febbraio 1880):ASS 12 (1879), 386-387 (corsivo aggiunto).

[67] Ibid., 387.

[68] Ibid., 389.

[69] Ibid., 394.

[70] Pio XI, Lett. enc. Casti connubii (31 dicembre 1930): AAS 22 (1930), 546.

[71] Ibid., AAS 22 (1930), 547-548 (corsivo aggiunto); cf. Agostino, De bono coniugali 24, 32: PL 40, 394D.

[72] Pio XI, Lett. enc. Casti connubii (31 dicembre 1930): AAS 22 (1930), 548 (corsivo aggiunto).

[73] Ibid.: AAS 22 (1930), 566.

[74] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 48: AAS 58 (1966), 1067.

[75] Ibid., n. 48: AAS 58 (1966), 1068 (corsivo aggiunto).

[76] Ibid.

[77] Ibid., n. 49: AAS 58 (1966), 1070.

[78] Ibid.

[79] Ibid.

[80] Ibid.

[81] Questa stessa argomentazione è stata ripresa da San Giovanni Paolo II quando spiegava che la poligamia «è contraria alla pari dignità personale dell’uomo e della donna, che nel matrimonio si donano con un amore totale e perciò stesso unico ed esclusivo» (Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio [22 novembre 1980], n. 19: AAS 74 [1982], 102; cf. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes [7 dicembre 1965], n. 47: AAS 58 [1966], 1067).

[82] Paolo VI, Lett. enc. Humanae vitae (25 luglio 1968), n. 12: AAS 60 (1968), 488-489 (corsivo aggiunto).

[83] Cf. ibid., n. 8: AAS 60 (1968), 485-486.

[84] Ibid., n. 12: AAS 60 (1968), 489.

[85] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), n. 11: AAS 74 (1982), 92.

[86] Cf. Id., Udienza generale (2 gennaio 1980): Insegnamenti III, 1 (1980), 11-15; Id., Udienza generale (9 gennaio 1980): Insegnamenti III, 1 (1980), 88-92; Id., Udienza generale (16 gennaio 1980): Insegnamenti III, 1 (1980), 148-152.

[87] Cf. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 24: AAS 58 (1966), 1045.

[88] Giovanni Paolo II, Omelia nella Messa per le famiglie a Kinshasa (3 maggio 1980), n. 2: AAS 72 (1980), 425.

[89] Giovanni Paolo II, Udienza generale (13 agosto 1980), nn. 3-4: Insegnamenti III, 2 (1980), 398-399.

[90] Cf. Id., Udienza generale (20 agosto 1980): Insegnamenti III, 2 (1980), 415-419.

[91] Id., Omelia nella Messa per le famiglie a Kinshasa (3 maggio 1980), n. 2: AAS 72 (1980), 425.

[92] Id., Udienza generale (27 agosto 1980), nn. 1, 4: Insegnamenti III, 2 (1980), 451, 453-454.

[93] Id., Udienza generale (24 settembre 1980), n. 5: Insegnamenti III, 2 (1980), 719-720.

[94] Id., Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), n. 19: AAS 74 (1982), 102.

[95] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), n. 11: AAS 98 (2006), 227.

[96] Ibid., n. 6: AAS 98 (2006), 222.

[97] Francesco, Esort. ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 92: AAS 108 (2016), 348.

[98] Ibid., n. 93: AAS 108 (2016), 348.

[99] Ibid., n. 99: AAS 108 (2016), 350.

[100] Ibid., n. 100: AAS 108 (2016), 351.

[101] Cf. Ibid., nn. 101-102: AAS 108 (2016), 351-352.

[102] Ibid., n. 103: AAS 108 (2016), 352.

[103] Ibid., n. 108: AAS 108 (2016), 354.

[104] Ibid., n. 110: AAS 108 (2016), 354.

[105] Ibid., n. 115: AAS 108 (2016), 356.

[106] Ibid., n. 116: AAS 108 (2016), 356.

[107] Ibid., n. 122: AAS 108 (2016), 359, che cita Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 9: AAS 74 (1982), 90.

[108] Francesco, Esort. ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 130: AAS 108 (2016), 362.

[109] Cf. Leone XIV, Messaggio in occasione del 10° anniversario della canonizzazione dei genitori di Santa Teresa di Gesù Bambino (18 ottobre 2025): L’osservatore Romano (18 ottobre 2025), 5.

[110] Cf. Agostino, Enarrationes in Psalmos 127, 3: PL 37, 1679: «non ille unus et nos multi, sed et nos multi in illo uno unum».

[111] Leone XIV, Omelia per la Messa del Giubileo delle famiglie, dei nonni e degli anziani (1° giugno 2025): L’Osservatore Romano (2 giugno 2025), 2; che cita Paolo VI, Lett. Enc. Humanae vitae (25 luglio 1968), n. 9: AAS 60 (1968), 486-487.

[112] Can. 1055, § 1 CIC (corsivo aggiunto). Cf. can. 776, § 1-2 CCEO.

[113] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1645.

[114] Ibid., n. 1646.

[115] Ibid., n. 2381.

[116] Ibid., n. 2387.

[117] Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, III, cap. 123, n. 4.

[118] Cf. Id., Summa Theologiae, I, q. 92, a. 3, resp.; cf. Id., Summa contra Gentiles, III, cap. 123, n. 4.

[119] Id., Summa contra Gentiles, III, cap. 124, n. 1.

[120] Ibid., cap. 123, nn. 3-4.

[121] Ibid., cap. 124, nn. 3-5; che cita Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, c. 5, n. 5; ibid., VIII, c. 6, n. 2.

[122] Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, III, cap. 123, n. 6 (corsivo aggiunto).

[123] A.-D. Sertillanges, L’amore cristiano, IPL, Milano 1947, 87.

[124] Ibid., 79.

[125] Ibid., 91.

[126] Ibid., 92.

[127] Ibid., 94.

[128] S. Kierkegaard, «Validità estetica del matrimonio», in Enten-Eller. Un frammento di vita, IV, tr. a cura di A. Cortese, Piccola Biblioteca Adelphi 120, Adelphi, Milano 19814, 154. (N.B. da Enten-Eller, II, nel testo originale danese.)

[129] Ibid., 153-154.

[130] S. Kierkegaard, «L’equilibrio fra l’estetico e l’etico nell’elaborazione della personalità», Enten-Eller. Un frammento di vita, V, tr. a cura di A. Cortese, Piccola Biblioteca Adelphi 232, Adelphi, Milano 1989, 207. (N.B. da Enten-Eller, II, nel testo originale danese.)

[131] S. Kierkegaard, «Validità estetica del matrimonio», op. cit., 92.

[132] Ibid., 39.

[133] Ibid., 40.

[134] Ibid., 86.

[135] E. Mounier, Manifesto al servizio del personalismo comunitario, tr. a cura di A. Lamacchia, Ecumenica, Cassano (BA) 1975, 66.

[136] Cf. ibid., 82.

[137] Ibid., 130.

[138] Ibid., 131.

[139] J. Lacroix, Force et faiblesses de la famille, Éditions du Seuil, Paris 1948, 56.

[140] Ibid., 54.

[141] Ibid., 58.

[142] Ibid., 58.

[143] Ibid., 61-62.

[144] Ibid., 55.

[145] Cf. E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, tr. a cura di A. Dell’Asta, Di fronte e attraverso 92, Jaca Book, Milano 2006, 191-253.

[146] Ibid., 265.

[147] K. Wojtyła, Amore e responsabilità, tr. a cura di A. Milanoli, Marietti, Genova–Milano 1980, 161.

[148] Cf. Ibid.

[149] Ibid., 155.

[150] Ibid.

[151] Ibid., 29.

[152] Ibid., 159.

[153] Ibid., 43.

[154] Ibid., 44.

[155] Ibid., 62.

[156] Ibid., 63.

[157] J. Maritain, Riflessioni sull’America, tr. a cura di A. Barbieri, Opere di Jacques Maritain 1, Morcelliana, Brescia 20223, 109.

[158] Ibid.

[159] Ibid., 110.

[160] Ibid.

[161] Ibid.

[162] Cf. J. Maritain, Amore e amicizia, Morcelliana, Brescia 1964, 19878.

[163] Ibid., passim.

[164] Ibid., 14. 

[165] Ibid., 15. 

[166] Ibid., 18 (corsivo aggiunto). 

[167] Manusmṛti 9, 101-102.

[168] Srimad Bhagavatam IX, 10.54.

[169] Thirukkural, 54 e 56.

[170] Francesco, «Lettera ai poeti», in Id., Viva la poesia!, A. Spadaro (ed.), Libreria Editrice Vaticana, Roma 2025, 178.

[171] Ibid., 178-179.

[172] W. Whitman, «We Two—How Long We Were Fool’d», in Id., Leaves of Grass, New York 1867, 114: «We have circled and circled till we have arrived home again—we two have».

[173] P. Neruda, «Soneto LXXXI», in Id., Veinte poemas de amor y una canción. Cien sonetos de amor, Colección Biblioteca Premios Nobel 2, Altaya, Barcelona 1995, 203: «Ninguna más, amor, dormirá con mis sueños. / Irás, iremos juntos por las aguas del tiempo […]».

[174] E. Montale, «Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale», in Satura (1962–1970), Mondadori, Milano 1971, 37.

[175] A. Pozzi, «Bellezza», in Parole. Diario di poesia, Mondadori, Milano 1964, 191-192.

[176] P. Neruda, «Pido silencio», in Extravagario (1958), in Obras completas, II: De “Odas elementales” a “Memorial de Isla Negra”, 1954–1964, Opera Mundi, H. Loyola (ed.), Galaxia Gutenberg–Círculo de Lectores, Barcelona 1999, 626-628: «Yo voy a cerrar los ojos y solo quiero cinco cosas, cinco raíces preferidas. Una es el amor sin fin… La quinta cosa son tus ojos, Matilde mía, bienamada, no quiero dormir sin tus ojos, no quiero ser sin que me mires».

[177] P. Éluard, «Nous deux», in Derniers poèmes d’amour, Seghers, Paris 1963, 1965: «Nous deux nous tenant par la main / Nous nous croyons partout chez nous […] / Auprès des sages et des fous / Parmi les enfants et les grands».

[178] R. Tagore, «Cuore (Il Giardiniere, 28)», tr. a cura di R. Russo, in Parole d’amore, TS Edizioni, Milano 2021.

[179] E. Dickinson, «That Love is all there is» (1765), in The Complete Poems of Emily Dickinson, T.H. Johnson (ed.), Little, Brown and Company, Boston – Toronto 1960, 714: «That Love is all there is, / Is all we know of Love».

[180] Leone I, Lett. Regressus ad nos (21 marzo 458), c. 1: DH 311.

[181] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 23, a. 1, resp. (corsivo aggiunto).

[182] Rituale romano. Rito del Matrimonio, n. 71: Libreria Editrice Vaticana, Roma 2008, 44-45.

[183] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 48: AAS 58 (1966) 1067. Cf. can. 1057 § 2 CIC; can. 817 § 1 CCEO.

[184] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1627.

[185] Paolo VI, Lett. enc. Humanae vitae (25 luglio 1968), n. 8: AAS 60 (1968), 485-486 (corsivo aggiunto).

[186] K. Wojtyła, Amore e responsabilità, tr. a cura di A. Milanoli, Marietti, Genova–Milano 1980, 61-62.

[187] Giovanni Paolo II, Omelia nella Messa per le famiglie a Kinshasa (3 maggio 1980), n. 2: AAS 72 (1980), 425.

[188] Francesco, Esort. ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 100: AAS 108 (2016), 351 (corsivo aggiunto).

[189] Ibid., n. 131: AAS 108 (2016), 362 (corsivo aggiunto).

[190] Ibid., n. 319: AAS 108 (2016), 443 (corsivo aggiunto).

[191] Ibid., n. 163: AAS 108 (2016), 375 (corsivo aggiunto).

[192] Ibid., nn. 163-164: AAS 108 (2016), 375-376 (corsivo aggiunto).

[193] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 24: AAS 58 (1966), 1045.

[194] Cf. Dicastero per la Dottrina della Fede, Decl. Dignitas infinita (8 aprile 2024), Presentazione e nn. 1, 6.

[195] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 357 (corsivo aggiunto).

[196] K. Wojtyła, Amore e responsabilità, tr. a cura di A. Milanoli, Marietti, Genova–Milano 1980, 29.

[197] Francesco, Esort. ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 175: AAS 108 (2016), 381.

[198] Ibid., n. 220: AAS 108 (2016), 399.

[199] Ibid., n. 155: AAS 108 (2016), 371.

[200] Ibid., n. 155: AAS 108 (2016), 371.

[201] Ibid., n. 320: AAS 108 (2016), 443.

[202] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, q. 64, a. 1, resp.: «solus Deus illabitur animae».

[203] Cf. Id., De veritate, q. 28, a. 2, ad 8; Id., Summa contra Gentiles, II, cap. 98, n. 18; ibid., III, cap. 88, n. 6; Bonaventura, Collationes in Hexaemeron, 21, 18.

[204] Cf. Bonaventura, In Sent., I, d. 14, a. 2, q. 2, ad 2: in Id., Opera theologica selecta, I, Quaracchi 1934, 205-206. Cf. Ibid., q. 2, fund. 4 e 8 (Quaracchi 1934, 205).

[205] Francesco, Esort. ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 320: AAS 108 (2016), 443.

[206] Paolo VI, Lett. enc. Humanae vitae (25 luglio 1968), n. 8: AAS 60 (1968), 486 (corsivo aggiunto).

[207] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), n. 59: AAS 74 (1982), 152.

[208] A.-D. Sertillanges, L’amore cristiano, IPL, Milano 1947, 97 (corsivo aggiunto).

[209] Cf. J.-L. Marion, Il fenomeno erotico. Sei meditazioni., tr. a cura di L. Tasso, Cantagalli, Siena 2007.

[210] Tommaso d’Aquino, In Sent., I, d. 15, q. 4, a. 1, co.

[211] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium (7 dicembre 1965), n. 41: AAS 57 (1965), 47.

[212] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 23, a. 1, resp.

[213] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1641.

[214] Rituale romano. Rito del Matrimonio, n. 74: Libreria Editrice Vaticana, Roma 2008, 47.

[215] Giovanni Paolo II, Familiaris consortio (22 novembre 1981), n. 59: AAS 74 (1982), 152.

[216] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 27, a. 2, resp.

[217] Cf. Ibid., II-II, q. 23, a. 2, resp.: «L’amore è per sé stesso un atto della volontà».

[218] Ibid., I-II, q. 26, a. 3, resp.

[219] Ibid., II-II, q. 27, a. 2, resp.

[220] Rituale romano. Rito del Matrimonio, n. 71: Libreria Editrice Vaticana, Roma 2008, 44-45.

[221] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 23, a. 1.

[222] Francesco, Esort. ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 123: AAS 108 (2016), 359, che citaTommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, III, cap. 123. Cf. Aristotele, Etica Nicomachea, 8, 12 (ed. Bywater, Oxford 1984, 174).

[223] Francesco, Esort. ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 150: AAS 108 (2016), 369.

[224] Ibid., n. 74: AAS 108 (2016), 340.

[225] Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 142, a. 1, resp.

[226] Cf. Ibid., I, q. 98, a. 2, ad 3; II-II, q. 153, a. 2, ad 2.

[227] Ibid., I, q. 98, a. 2, ad 3.

[228] Ibid., II-II, q. 153, a. 2, ad 2.

[229] K. Wojtyła, Amore e responsabilità, tr. a cura di A. Milanoli, Marietti, Genova–Milano 1980, 89.

[230] Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre 2005), n. 8: AAS 98 (2006), 224.

[231] Ibid., n. 7: AAS 98 (2006), 223-224.

[232] Giovanni Paolo II, Esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), n. 11: AAS 74 (1982), 92.

[233] Cf. Paolo VI, Lett. enc. Humanae vitae (25 luglio 1968), n. 11: AAS 60 (1968), 488.

[234] K. Wojtyła, Amore e responsabilità, tr. a cura di A. Milanoli, Marietti, Genova-Milano 1980, 161.

[235] Ibid., 173 (corsivo in originale).

[236] Paolo VI, Lett. enc. Humanae vitae (25 luglio 1968), n. 16: AAS 60 (1968), 492.

[237] Ibid.

[238] Pio XI, Lett. enc. Casti connubii (31 dicembre 1930): AAS 22 (1930): 547-548 [cf. DH 3707].

[239] Agostino, De bono coniugali, 3, 3: PL 40, 375.

[240] Giovanni Crisostomo, Homiliae in Epistolam ad Colossenses, hom. 12, cap. V: PG 62, 388.

[241] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 50: AAS 58 (1966), 1072.

[242] P.J. Viladrich, «Amor conyugal y esencia del matrimonio», Ius canonicum 12 (1972), 311.

[243] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), n. 53: AAS 101 (2009), 689.

[244] Ibid.

[245] Francesco, Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), n. 60: AAS 112 (2020), 990.

[246] Ibid., n. 89: AAS 112 (2020), 1007.

[247] Francesco, Esort. ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 181: AAS 108 (2016), 383.

[248] Ibid., n. 324: AAS 108 (2016), 445.

[249] Leone XIV, Esort. ap. Dilexi te (4 ottobre 2025), n. 104.

[250] Ibid., n. 103.

[251] Rituale romano. Rito del Matrimonio, n. 92: Libreria Editrice Vaticana, Roma 2008, 62.

[252] D. von Hildebrand, Il matrimonio, tr. a cura di B. Magnino, Morcelliana, Brescia 1959, 33 (corsivo aggiunto).

[253] Cf. Concilio di Trento, Sessione XXIV (11 novembre 1563), Dottrina sul Sacramento del Matrimonio: DH 1799 (corsivo aggiunto); Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 48: AAS 58 (1966), 1068; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1641.

[254] Francesco, Esort. ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 134: AAS 108 (2016), 364.

[255] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 48: AAS 58 (1966), 1068(corsivo aggiunto).

[256] Francesco, Esort. ap. Amoris laetitia (19 marzo 2016), n. 135: AAS 108 (2016), 364.