VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ LEONE XIV
IN TÜRKIYE E IN LIBANO
CON PELLEGRINAGGIO A İZNIK (TÜRKIYE)
IN OCCASIONE DEL 1700° ANNIVERSARIO DEL PRIMO CONCILIO DI NICEA
(27 novembre - 2 dicembre 2025)
INCONTRO CON I VESCOVI, I SACERDOTI,
I CONSACRATI, LE CONSACRATE E GLI OPERATORI PASTORALI
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Santuario di Nostra Signora del Libano (Harissa)
Lunedì, 1° dicembre 2025
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Carissimi fratelli nell’Episcopato,
sacerdoti, religiosi e religiose,
fratelli e sorelle, buongiorno! Buongiorno! (in arabo)
Con grande gioia vi incontro durante questo viaggio, che ha per motto “Beati gli operatori di pace” (Mt 5,9). La Chiesa in Libano, unita nei suoi molteplici volti, è un’icona di queste parole, come affermava San Giovanni Paolo II, tanto affezionato al vostro Popolo: «Nel Libano di oggi – diceva – voi siete responsabili della speranza» (Messaggio ai cittadini del Libano, 1° maggio 1984); e aggiungeva: «Create, là dove vivete e lavorate, un clima fraterno. Senza ingenuità, sappiate dare fiducia agli altri e siate creativi per far trionfare la forza rigeneratrice del perdono e della misericordia» (ibid.).
Le testimonianze che abbiamo ascoltato – grazie a ciascuno di voi! – ci dicono che queste parole non sono state vane, anzi, che hanno trovato ascolto e risposta, perché qui si continua a costruire comunione nella carità.
Nelle parole del Patriarca, che ringrazio di cuore, possiamo cogliere la radice di questa tenacia, simboleggiata dalla grotta silenziosa in cui San Charbel pregava davanti all’immagine della Madre di Dio, e dalla presenza di questo Santuario di Harissa, segno di unità per tutto il Popolo libanese. È nello stare con Maria presso la Croce di Gesù (cfr Gv 19,25) che la nostra preghiera, ponte invisibile che unisce i cuori, ci dà la forza per continuare a sperare e a lavorare, anche quando attorno tuona il rumore delle armi e le stesse esigenze della vita quotidiana diventano una sfida.
Uno dei simboli contenuti nel “logo” di questo viaggio è l’ancora. Papa Francesco la evocava spesso nei suoi discorsi come segno della fede, che permette di andare sempre oltre, anche nei momenti più oscuri, fino al cielo. Diceva: «La nostra fede è l’ancora in cielo. Noi abbiamo la nostra vita ancorata in cielo. Cosa dobbiamo fare? Aggrapparci alla corda […]. E andiamo avanti perché siamo sicuri che la nostra vita ha come un’ancora nel cielo, su quella riva dove arriveremo» (Udienza generale, 26 aprile 2017). Se vogliamo costruire pace ancoriamoci al Cielo e, lì saldamente diretti, amiamo senza timore di perdere ciò che passa e doniamo senza misura.
Da queste radici, forti e profonde come quelle dei cedri, l’amore cresce e, con l’aiuto di Dio, prendono vita opere concrete e durature di solidarietà.
Padre Youhanna ci ha parlato di Debbabiyé, il piccolo villaggio in cui svolge il suo ministero. Là, pur nel bisogno più estremo e sotto la minaccia dei bombardamenti, cristiani e musulmani, libanesi e profughi d’oltre confine, convivono pacificamente e si aiutano a vicenda. Fermiamoci sull’immagine, che lui stesso ha suggerito, della moneta siriana trovata nella borsa delle elemosine insieme a quelle libanesi. È un particolare importante: ci ricorda che nella carità ciascuno di noi ha qualcosa da dare e da ricevere, e che il nostro donarci a vicenda ci arricchisce tutti e ci avvicina a Dio. Papa Benedetto XVI, durante il suo viaggio in questo Paese, parlando della potenza unificatrice dell’amore anche nei momenti di prova, diceva: «È proprio adesso che bisogna celebrare la vittoria dell’amore sull’odio, del perdono sulla vendetta, del servizio sul dominio, dell’umiltà sull’orgoglio, dell’unità sulla divisione, […] saper convertire le nostre sofferenze in grido d’amore verso Dio e di misericordia verso il prossimo» (Discorso durante la Visita alla Basilica di St. Paul a Harissa, 14 settembre 2012).
Solo così non si rimane schiacciati dall’ingiustizia e dal sopruso, anche quando, come abbiamo sentito, si è traditi da persone e organizzazioni che speculano senza scrupoli sulla disperazione di chi non ha alternative. Solo così si può tornare a sperare per il domani, pur nella durezza di un presente difficile da affrontare. In proposito, penso alla responsabilità che tutti abbiamo, in tal senso, nei confronti dei giovani. È importante favorire la loro presenza, anche nelle strutture ecclesiali, apprezzandone l’apporto di novità e dando loro spazio. Ed è necessario, pur tra le macerie di un mondo che ha i suoi dolorosi fallimenti, offrire loro prospettive concrete e praticabili di rinascita e di crescita per il futuro.
Loren ci ha parlato del suo impegno nell’aiuto ai migranti. Migrante lei stessa, da tempo è impegnata a sostenere chi, non per scelta ma per necessità, ha dovuto lasciare tutto per cercare lontano da casa un avvenire possibile. La storia di James e Lela, che lei ha raccontato, ci tocca profondamente, e mostra l’orrore di ciò che la guerra produce nella vita di tante persone innocenti. Papa Francesco ci ha ricordato più volte, nei suoi discorsi e nei suoi scritti, che di fronte a drammi simili non possiamo restare indifferenti, e che il loro dolore ci riguarda e ci interpella (cfr Omelia nella Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, 29 settembre 2019). Da una parte, il loro coraggio ci parla della luce di Dio che, come ha detto Loren, risplende anche nei momenti più bui; dall’altra, però, ciò che hanno vissuto ci impone di impegnarci, affinché nessuno debba più fuggire dal suo Paese a causa di conflitti assurdi e spietati, e affinché chi bussa alla porta delle nostre comunità non si senta mai respinto, ma accolto con le parole che Loren stessa ha citato: “Benvenuto a casa!”.
Di questo ci parla anche la testimonianza di suor Dima, che ha scelto, di fronte all’esplodere della violenza, di non abbandonare il campo, ma di tenere aperta la scuola, facendone un luogo di accoglienza per i profughi e un polo educativo di straordinaria efficacia. In quelle stanze, infatti, oltre a dare assistenza e aiuto materiale, si impara e si insegna a condividere “pane, paura e speranza”, ad amare in mezzo all’odio, a servire anche nella stanchezza e a credere in un futuro diverso al di là di ogni aspettativa. La Chiesa in Libano ha sempre curato molto l’istruzione. Incoraggio tutti voi a continuare in quest’opera lodevole, venendo incontro soprattutto a chi è nel bisogno e non ha mezzi, a chi si trova in situazioni estreme, con scelte improntate alla carità più generosa, perché alla formazione della mente sia sempre unita l’educazione del cuore. Ricordiamoci che la nostra prima scuola è la Croce e che l’unico nostro Maestro è il Cristo (cfr Mt 23,10).
Padre Charbel, in proposito, parlando della sua esperienza di apostolato nelle carceri, ha detto che proprio lì, dove il mondo vede solo muri e crimini, negli occhi dei detenuti, a volte smarriti, a volte illuminati da una nuova speranza, noi vediamo la tenerezza del Padre che non si stanca mai di perdonare. Ed è proprio così: vediamo il volto di Gesù, riflesso in quello di chi soffre e di chi si prende cura delle ferite che la vita ha provocato. Tra poco faremo il gesto simbolico della consegna della Rosa d’oro a questo Santuario. È un gesto antico, che ha tra i suoi significati quello di esortarci ad essere, con la nostra vita, profumo di Cristo (cfr 2Cor 2,14). Davanti a questa immagine, mi viene da pensare al profumo che sale dalle tavole libanesi, tipiche per la varietà dei cibi che offrono e per la forte dimensione comunitaria del condividerli. È un profumo fatto di mille profumi, che colpiscono nella loro diversità e talvolta nel loro insieme. È così il profumo di Cristo. Non è un prodotto costoso riservato a pochi che se lo possono permettere, ma l’aroma che si sprigiona da una mensa generosa su cui trovano posto tante pietanze diverse e da cui tutti possono attingere insieme. Sia questo lo spirito del rito che ci apprestiamo a compiere, e soprattutto quello con cui ogni giorno ci sforziamo di vivere uniti nell’amore.
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