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COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE

Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore

1700o anniversario del Concilio Ecumenico di Nicea
(325-2025)

 

Nota preliminare

Introduzione: Dossologia, teologia e annuncio

Capitolo 1: Un Simbolo per la salvezza: dossologia e teologia del dogma di Nicea

1. Cogliere l’immensità delle tre Persone divine che ci salvano: «Dio è Amore», infinitamente

1.1 La grandezza della paternità di Dio Padre, fondamento della grandezza del Figlio e dello Spirito
1.2 Riflessioni sul ricorso all’espressione homooúsios
1.3 L’unità della storia della salvezza

2. Cogliere l’immensità di Cristo Salvatore e del suo atto salvifico

2.1 Vedere Cristo in tutta la sua grandezza
2.2 L’immensità dell’atto di salvezza: la sua consistenza storica
2.3 La grandezza dell’atto di salvezza: il mistero pasquale

3. Cogliere l’immensità della salvezza offerta agli uomini e l’immensità della nostra vocazione umana

3.1 La grandezza della salvezza: l’ingresso nella vita di Dio
3.2 L’immensità della vocazione umana all’Amore divino
3.3 La bellezza del dono della Chiesa e del Battesimo

4. Celebrare insieme l’immensità della salvezza: la portata ecumenica della fede di Nicea e la speranza di una data comune per la celebrazione della Pasqua

Capitolo 2: Il Simbolo di Nicea nella vita dei credenti: «Noi crediamo come battezziamo; e preghiamo come crediamo»

Preludio: la fede confessata nella fede vissuta

1. Battesimo e fede trinitaria

2. Il Simbolo di Nicea come confessione di fede

3. Approfondimenti nella predicazione e nella catechesi

4. Preghiera al Figlio e dossologia

5. La teologia degli Inni

Capitolo 3: Nicea come evento teologico e come evento ecclesiale

1. L’evento Cristo: «Dio nessuno l’ha mai visto. Il Figlio unigenito lo ha rivelato» (Gv 1,18)

1.1 Il Cristo, Verbo Incarnato, rivela il Padre
1.2 «Ora, noi abbiamo il pensiero (νοῦς) di Cristo» (1 Cor 2,16): analogia della creazione e analogia della carità
1.3 L’ingresso teologale nella conoscenza del Padre attraverso la preghiera di Cristo

2. Un evento di Sapienza: una novità per il pensiero umano

2.1 La Rivelazione feconda e dilata il pensiero umano
2.2 Un evento culturale e interculturale
2.3 La fedeltà creativa della Chiesa e il problema dell’eresia

3. L’evento ecclesiale: il Concilio di Nicea come primo Concilio Ecumenico

3.1 La Chiesa s’inserisce con la sua natura e le sue strutture nell’evento Cristo
3.2 La collaborazione strutturale dei carismi della Chiesa e il cammino verso Nicea
3.3 Il Concilio Ecumenico di Nicea

Capitolo 4: Mantenere la fede accessibile a tutto il popolo di Dio

Preludio: il Concilio di Nicea e le condizioni di credibilità del mistero cristiano

1. La teologia a servizio dell’integrità della verità salvifica

1.1 Il Cristo, la verità escatologicamente efficace
1.2 La salvezza e il processo di filiazione divina

2. La mediazione della Chiesa e l’inversione dell’articolazione dogmatica: Trinità, cristologia, pneumatologia, ecclesiologia

2.1 Le mediazioni della fede e il ministero della Chiesa
2.2 Dissenso e sinodalità
2.3 Le lingue dello Spirito Santo nella formazione e nel rinnovarsi del consenso

3. Vegliare sul deposito della fede: una carità a servizio dei più piccoli

3.1 La fede unanime del popolo di Dio offerta a tutti
3.2 La protezione della fede di fronte al potere politico

Conclusione: Annunciare oggi a tutti Gesù nostra salvezza
 

 

 

Nota preliminare 

Nel corso del suo decimo quinquennio la Commissione Teologica Internazionale ha scelto di approfondire uno studio sul primo Concilio Ecumenico di Nicea e la sua attualità dogmatica. Il lavoro è stato condotto da una speciale Sottocommissione, presieduta dal Rev.do Philippe Vallin e composta dai seguenti membri: S.E. Mons. Antonio Luiz Catelan Ferreira, S.E. Mons. Etienne Vetö, I.C.N, Rev.do Mario Angel Flores Ramos, Rev.do Gaby Alfred Hachem, Rev.do Karl-Heinz Menke, Prof.ssa Marianne Schlosser, Prof.ssa Robin Darling Young.

I dibattiti generali sul tema hanno avuto luogo sia durante le diverse riunioni della Sottocommissione sia durante le sessioni plenarie della Commissione Teologica, tenutesi negli anni 2022-2023. Questo testo è stato sottoposto al voto e approvato in forma specifica all’unanimità dai membri della Commissione Teologica Internazionale durante la sessione plenaria del 2024. Il documento è stato in seguito sottoposto all’approvazione del suo Presidente, Sua Eminenza il Cardinale Víctor Manuel Fernández, Prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, il quale, dopo aver avuto l’approvazione del Santo Padre Francesco, ne ha autorizzato la pubblicazione il 16 dicembre 2024. 
 

Introduzione

Dossologia, teologia e annuncio

1. Il 20 maggio 2025, la Chiesa cattolica e l’insieme del mondo cristiano fanno memoria con gratitudine e gioia dell’apertura del Concilio di Nicea del 325: «Il Concilio di Nicea è una pietra miliare nella storia della Chiesa. Il suo anniversario invita i cristiani a unirsi nella lode e nell’azione di grazie alla santa Trinità e in particolare a Gesù Cristo, il Figlio di Dio “consustanziale al Padre”, che ci ha rivelato questo mistero d’amore».[1]Questo Concilio è rimasto nella coscienza cristiana principalmente attraverso il Simbolo che raccoglie, definisce e proclama la fede nella salvezza in Gesù Cristo e nel Dio Uno, Padre, Figlio e Spirito Santo. Il Simbolo di Nicea professa la buona notizia della salvezza integrale degli esseri umani operata da Dio stesso in Gesù Cristo. Dopo 1700 anni, si tratta di celebrare questo avvenimento in una dossologia, che sia una lode alla gloria di Dio, dal momento che essa si è manifestata nell’inestimabile tesoro della fede espressa dal Simbolo: l’infinita bellezza di Dio Padre, che ci salva, l’immensa misericordia di Gesù Cristo nostro Salvatore, la generosità della redenzione che è offerta a ogni persona umana nello Spirito Santo. Uniamo le nostre voci a quelle dei Padri della Chiesa, come Efrem il Siro, per cantare questa gloria: 

«Gloria a Colui che è venuto
Presso di noi mediante il suo Primogenito!
Gloria a quel Silente
Che ha parlato attraverso la sua voce!
Gloria a quel Sublime
divenuto visibile mediante la sua Epifania!
Gloria a quello Spirituale,
Che si è compiaciuto
Che suo Figlio divenisse corpo,
Affinché, attraverso questo corpo, divenisse tangibile la sua potenza
E attraverso questo corpo avessero vita
I corpi dei figli del Suo popolo!».[2]

2. La luce effusa dall’assemblea di Nicea sulla rivelazione cristiana permette di scoprirvi una ricchezza inesauribile che continua, attraverso i secoli e le culture, a trovare approfondimenti e a manifestarsi sotto aspetti sempre più belli e più nuovi. Queste diverse sfaccettature sono messe in luce specialmente dalla rilettura orante e teologica che la maggior parte delle tradizioni cristiane fanno del Simbolo, ciascuna sulla base di un diverso rapporto col fatto che esista un Simbolo di fede. Si tratta anche dell’occasione, per tutti e per ciascuno, di riscoprire o anche di scoprire la sua ricchezza e il legame di comunione tra tutti i cristiani che tale Simbolo può costituire. «Come non ricordare l’importanza straordinaria di una simile commemorazione al servizio della ricerca dell’unità piena dei Cristiani?»,[3] sottolinea Papa Francesco. 

3. Il Concilio di Nicea fu il primo concilio designato come “ecumenico”, poiché per la prima volta i vescovi di tutta l’Oikoumenē vi sono stati invitati.[4]Le sue decisioni dovevano quindi avere una portata ecumenica, cioè universale: esse sono state recepite come tali dai credenti e dalla tradizione cristiana, nel corso di un lungo e laborioso processo. La posta in gioco a livello ecclesiologico è decisiva. Il Simbolo si inscrive nel movimento di progressiva assunzione da parte della dottrina cristiana della lingua e degli schemi di pensiero greci, che però se ne trovarono essi stessi, per così dire, trasfigurati, proprio in virtù del loro venire in contatto con la Rivelazione. Il Concilio ha suggellato inoltre l’importanza sempre crescente dei sinodi e dei modi di governo sinodale nella Chiesa dei primi secoli, realizzando una svolta di prima grandezza: nella linea dell’exousìa conferita agli apostoli da Gesù e dallo Spirito Santo (Lc 10,16; At 1,14; 2,1-4), l’evento di Nicea ha in effetti aperto la via ad una nuova espressione istituzionale dell’autorità nella Chiesa, un’autorità di portata universale, d’ora in poi riconosciuta ai concili ecumenici, riguardo sia alla dottrina che alla disciplina. Questa svolta decisiva nel modo di pensare e di governare in seno alla comunità dei discepoli del Signore Gesù avrebbe messo in luce elementi essenziali della missione d’insegnamento della Chiesa e quindi della sua natura. 

4. Una precisazione s’impone prima di procedere oltre nella riflessione. Ci basiamo sul Simbolo di Nicea-Costantinopoli (381) e non in senso stretto sul Simbolo composto a Nicea (325). In effetti, fu necessaria una cinquantina di anni perché il vocabolario del Simbolo di Nicea fosse accettato e vi fosse consenso sulla portata universale del Concilio. Il processo di ricezione del Concilio di Nicea si è prolungato durante il conflitto con gli Pneumatomachi tra Nicea e Costantinopoli, portando a introdurre alcune modificazioni testuali significative, in particolare nel terzo articolo di fede. Secondo l’opinione dei Padri, tuttavia, questo processo, che giunge a compimento nel Simbolo Niceno-Costantinopolitano, non implicava alcuna alterazione della fede nicena, ma la sua autentica preservazione. In questo senso, il preambolo della definizione dogmatica di Calcedonia, che era stata preceduta dalla trascrizione del Simbolo di Nicea e del Simbolo Niceno-Costantinopolitano, “conferma” ciò che è stato detto nel Simbolo dei “150 Padri” (Costantinopoli), poiché il suo senso risiede, secondo i suoi stessi termini, nella precisazione di ciò che riguarda lo Spirito Santo contro coloro che negano la sua signoria.[5]L’ampiezza di ciò che è successo a Nicea si manifesta nella proibizione fatta al Concilio di Efeso di promulgare qualunque altra formula di fede,[6]perché, nei momenti successivi a Nicea, i sostenitori dell’ortodossia hanno pensato che il discernimento cristallizzato nel Simbolo Niceno sarebbe stato sufficiente a garantire la fede della Chiesa per sempre. Atanasio, ad esempio, dirà di Nicea che si tratta della «parola del nostro Dio che dura per sempre» (Is 40,8).[7]Questo processo di Tradizione vivente e normativa si prolunga tra il IV e il IX secolo, attraverso l’adozione di questo Simbolo nelle liturgie battesimali, soprattutto in Oriente, e poi nelle liturgie eucaristiche. Notiamo che il Filioque, che si trova nelle versioni occidentali attuali del Simbolo, non fa parte del testo originale del Simbolo Niceno-Costantinopolitano, sul quale questo Documento intende appoggiarsi.[8]Questo punto continua a essere oggetto di malintesi tra le confessioni cristiane, di modo che il dialogo tra Oriente e Occidente deve proseguire ancora oggi. 

5. In un primo capitolo proporremo una lettura dossologica del Simbolo, per metterne in evidenza le risorse soteriologiche e quindi cristologiche, trinitarie e antropologiche. Sarà l’occasione per sottolinearne la portata e ricevere nuovo slancio nel cammino verso l’unità dei cristiani. Ma accogliere la ricchezza del Concilio di Nicea dopo 1700 anni porta anche a percepire come il Concilio nutre e guida la vita cristiana quotidiana: in un secondo capitolo, di tenore patristico, esploreremo come la vita liturgica e la vita di preghiera è stata fecondata nella Chiesa dopo il Concilio. Nicea costituisce una svolta tale per la storia del cristianesimo che, nel terzo capitolo, ci soffermeremo sul modo in cui il Simbolo e l’evento del Concilio rendono testimonianza dello stesso avvenimento di Gesù Cristo, la cui irruzione nella storia offre un accesso inaudito a Dio e introduce una trasformazione del pensiero umano, in altre parole un evento di Sapienza. Il Simbolo e il Concilio testimoniano anche una novità nel modo in cui la Chiesa di Cristo si struttura e adempie alla sua missione: essi traducono ciò che fu un evento di Chiesa. Infine, nel quarto capitolo, analizzeremo le condizioni di credibilità della fede professata a Nicea in una tappa di teologia fondamentale, che metterà in luce la natura e l’identità della Chiesa in quanto essa è interprete autentica della verità normativa della fede mediante il Magistero, e custode dei credenti, in special modo dei più piccoli e dei più vulnerabili. 

6. «Non si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa» (Mt 5,15). Questa luce è il Cristo, «luce da luce». Lasciarsene stupire significa trovare anche un nuovo slancio per presentare questa buona notizia con maggiore forza e creatività nello Spirito Santo. Questa luce rischiara in modo vivo la nostra epoca segnata da fermenti di violenza e di ingiustizia, piena di incertezza, che intrattiene un rapporto complesso con la verità, motivo per cui sembrano messe in difficoltà la fede e l’appartenenza alla Chiesa. La luce è tanto più viva e irraggiante quanto più è condivisa da tutti i cristiani, che così possono confessare la propria fede in una medesima marty̆ria, con una stessa testimonianza, così da contribuire ad attirare gli uomini e le donne di oggi a Gesù Cristo, Figlio di Dio e Salvatore: 

L’essenziale per noi, la cosa più bella, la più attraente e ad un tempo la più necessaria, è la fede in Gesù Cristo. Tutti insieme, se Dio lo vuole, la rinnoveremo solennemente nel corso del prossimo Giubileo e ciascuno di noi è chiamato ad annunciarla ad ogni uomo e donna della terra. È il compito fondamentale della Chiesa.[9] 


Capitolo 1

Un Simbolo per la salvezza:
dossologia e teologia del dogma di Nicea
 

7. Celebrare Nicea nel suo 1700o anniversario, significa anzitutto meravigliarsi del Simbolo che il Concilio ci ha lasciato e della bellezza del dono offerto in Gesù Cristo, di cui è come l’icona in parole. Cominciamo dunque il nostro studio di Nicea percorrendo questo Simbolo in modo da ritrovare in esso la straordinaria immensità della fede trinitaria, della cristologia e della soteriologia che esprime, come anche le sue implicazioni antropologiche ed ecclesiologiche, prima di concludere con la sua portata ecumenica. Si tratta, per così dire, di un atto di teologia dossologica. Essa non mira a un approfondimento di ogni tema di questo concentrato della fede che è il Simbolo – compito che sarebbe stato comunque di poca utilità e anche impossibile nel quadro del presente lavoro –, ma cerca di mettere in luce la ricchezza degli enunciati e delle verità offerte dal credo niceno sul piano dogmatico, in particolar modo quelli che presentano maggior rilevanza e fecondità per questo periodo della storia della Chiesa e del mondo, proprio nel momento in cui celebriamo l’anniversario di Nicea. 

1. Cogliere l’immensità delle tre Persone divine che ci salvano: «Dio è Amore», infinitamente

8. Il Simbolo di Nicea-Costantinopoli è strutturato attorno all’affermazione della fede trinitaria: 

Crediamo in un solo Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra,
E di tutte le cose visibili e invisibili,
E in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, Unigenito,
generato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce,
Dio vero da Dio vero, generato non creato, consustanziale al Padre
Per mezzo di Lui tutte le cose sono state create; […]
E nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, che procede dal Padre,
E con il Padre e il Figlio è coadorato e conglorificato,
E ha parlato per mezzo dei profeti […]
.[10]

1.1. La grandezza della paternità di Dio Padre, fondamento della grandezza del Figlio e dello Spirito

9. Al punto di partenza della fede di Nicea si trova l’affermazione dell’unità di Dio. Il cristianesimo è fondamentalmente un monoteismo, che si pone in continuità con la rivelazione fatta a Israele. Ciononostante, il Simbolo non pone all’inizio semplicemente “Dio”, e ancor meno la natura divina una, bensì la Prima ipostasi divina che è il Padre. In quanto «creatore del cielo e della terra» (cf. Gn 1,1; Ne 9,6; Ap 10,6), Egli è Padre di tutte le cose.[11]Inoltre, il Cristo rivela l’inaudita paternità intra-divina di Dio, fondamento della sua paternità ad extra. Se il Cristo è Figlio divino, in una maniera unica, ciò implica una generazione in Dio: Dio il Padre dona tutto ciò che ha e tutto ciò che è. Dio non è un principio povero ed egoista: Egli è sine invidia.[12]La sua paternità, come la sua onnipotenza, è capacità di donarsi interamente. Questo dono paterno non è solamente un aspetto tra altri, ma definisce il Padre, che è interamente paternità.[13]Dio è Padre da sempre, e non è mai stato un Dio “solitario”.[14]Questa paternità del Dio Uno è il primo aspetto della fede cristiana che provoca lo stupore e di cui si tratta di celebrare l’immensità, riscoprendo Nicea 1700 anni dopo. Si tratta dunque di esplorarne le implicazioni per la comprensione del mistero trinitario. 

10. La fede nel Padre testimonia la pienezza sovrabbondante di Dio. Il primo articolo non è semplicemente una definizione di Dio, ma anzitutto una lode che si inscrive nella tradizione dossologica della liturgia giudaica e delle prime liturgie cristiane.[15]Il Dio “onnipotente (pantokratōr)” fa eco a diverse espressioni veterotestamentarie, come, ad esempio, “Signore Sabaoth”, ripresa nel Nuovo Testamento nel quadro delle liturgie celesti (Ap 4,8; 11,17; 15,3; 16,14; 19,6). 

11. La rivelazione nel Cristo della paternità di Dio manifesta anche l’immensità del Figlio e dello Spirito. Se Dio Padre dona tutto, tranne la sua paternità, ciò significa che il Figlio e lo Spirito sono pienamente uguali al Padre nella loro divinità. Nel Simbolo il Figlio è “uno solo”, Egli è “Signore” (Kyrios, che traduce il Tetragramma nella Settanta), “Figlio di Dio”, “l’uni-genito” (ho monogenēs) nell’intimità del Padre, “Dio nato da Dio”, “luce nata dalla luce”, “Dio vero nato da Dio vero”, consustanziale (homooúsios) al Padre. Notiamo, ad esempio, che nel Quarto Vangelo, il Figlio è più volte chiamato theos: Gv 1,1; 5,18; 20,28. Il Figlio è generato “prima di tutti i secoli”, il che significa nel Simbolo che Egli è co-eterno col Padre (cf. Gv 1,1). Ciò prende di mira alcune posizioni di Ario, secondo il quale «c’era un tempo in cui [il Figlio] non era», «prima di essere nato Egli non era» e «Egli è divenuto a partire da ciò che non era»,[16] o ancora «il Figlio deriva dal nulla», in virtù del «volere e decisione del Padre».[17]È per questo che il Figlio può essere confessato come colui «per [il quale] tutto è stato fatto» (cf. 1Cor 8,6; Gv 1,3). Dio è così grande che il Padre è capace di generare un altro, che è uguale a lui secondo la divinità. Dio eccede tutto ciò che noi possiamo concepire e immaginare di Lui, dal momento che la sua unità assume una pluralità reale, che non rompe l’unità. 

12. Il Padre dona ugualmente tutto allo Spirito, che è definito nei termini specifici e riservati alla divinità: “Spirito”, “Santo” e “Signore” (ancora un’evocazione del Tetragramma). Così come il Padre è creatore e il Figlio è la Parola mediante la quale il Padre crea tutte le cose, lo Spirito è confessato come “datore di vita”. E come il Figlio è generato dal Padre, lo Spirito “procede dal Padre”. Le affermazioni sullo Spirito fanno intenzionalmente eco all’articolo sul Figlio.[18]Di conseguenza, lo Spirito può e deve essere adorato col Padre e col Figlio – a conferma del carattere dossologico del Simbolo.  

13. È essenziale tenere insieme a un tempo la divinità dello Spirito come “terzo” in Dio e il suo legame col Padre così come col Figlio. In effetti, ancora oggi persistono delle difficoltà a considerarlo come una Persona divina a sé e non come una semplice forza divina, magari cosmica. Si potrebbe perfino pensare di pregare il Padre e il Figlio lasciando fuori lo Spirito, contrariamente alla preghiera della Chiesa che si rivolge sempre al Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo. Si riconoscerà una legittima importanza all’Eucaristia, alla Vergine Maria o alla Chiesa – senza tuttavia misurare quanto queste ultime realtà siano preziose precisamente perché sono vivificate dallo Spirito.[19]Al contrario, altri attribuiranno un posto centrale, se non esclusivo, allo Spirito Santo, fino a lasciare in secondo piano il Padre e il Figlio, cosa che ricade, paradossalmente, in una forma di riduzionismo pneumatologico, dal momento che Egli è Spirito del Padre e Spirito del Figlio (Gal 4,6; Rm 8,9). La grandezza sovrabbondante dello Spirito Santo espressa nella fede di Nicea è una protezione sicura contro questi riduzionismi. 

14. Così, dalla pienezza fontale della paternità di Dio, discende la pienezza sovrabbondante di Dio Padre, del Figlio e dello Spirito semper major. Ora, la pienezza fontale del Padre implica una tàxis (un ordine) nella vita del Dio trinitario. Il Padre è la fonte di tutta la divinità.[20] La seconda persona è certo Dio e luce, ma lo è in quanto è “Dio da Dio”, “luce da luce”. Pur essendo confessato come uguale al Padre e al Figlio quanto alla divinità, lo Spirito è presentato in una maniera molto diversa dagli altri due. Abbiamo appena visto (cf. supra § 12) che egli è descritto con caratteristiche divine e che deve essere adorato col Padre e col Figlio. Detto questo, le differenze di espressione sono notevoli: ciò che è detto del Padre e del Figlio, cioè “un solo”, o del Figlio, cioè “consustanziale”, non è ripetuto a proposito dello Spirito. Senza nulla togliere alla sua co-divinità, la maniera di menzionare lo Spirito nel Simbolo sottolinea la sua distinzione personale. Così, ciò che è proprio nel parlare dello Spirito Santo mette in luce l’unicità di ciascuna persona divina. In un certo modo, in Dio, “ipostasi” o “persona” è un termine analogico, nel senso che ciascuno dei tre “nomi” divini è pienamente persona, ma lo è in una maniera unica. Questa unicità mostra anche che l’uguaglianza, da una parte, e la differenza e l’ordine, dall’altra, non si contraddicono. Anche questo è frutto della sovrabbondante paternità del Padre. Recepire Nicea significa ricevere la ricchezza della paternità divina che stabilisce l’uguaglianza ma anche la differenza e l’unicità. 

1.2. Riflessione sul ricorso all’espressione homooúsios

15. Uno dei contributi centrali di Nicea è la definizione della divinità del Figlio nei termini di una consustanzialità: il Figlio è “consustanziale” (homooúsios) al Padre, “generato dal Padre”, “cioè della stessa sostanza del Padre”.[21]La generazione del Figlio è altra cosa rispetto alla creazione, perché si tratta di una comunicazione dell’unica sostanza del Padre. Il Figlio è non solo pienamente Dio come il Padre, ma anche di una sostanza numericamente identica alla sua, poiché non vi è alcuna divisione nel Dio Uno.[22]Ripetiamolo: il Padre dona tutto al Figlio, secondo la logica di una vita divina che è agapē e che eccede sempre ciò che lo spirito umano può concepire. 

16. Per la prima volta termini non scritturistici vengono impiegati in un testo ecclesiale ufficiale e normativo – vi torneremo nei capitoli III e IV. L’intenzione dei Padri del Concilio non era quella di introdurre una novità nella fede apostolica, ma di proteggerla esplicitando ciò che realmente è la generazione in Dio. É per questo che nel Simbolo del 325, homooúsios viene introdotto con l’espressione “cioè”: la terminologia greca ontologica è al servizio delle espressioni tradizionali della Scrittura.[23]Il termine, di origine gnostica e condannato dal Sinodo regionale di Antiochia (264-269), sarà molto discusso nei decenni che seguiranno Nicea. Ma a partire dagli anni 360 le adesioni si moltiplicarono, fino alla sua piena e pacifica ratifica a Costantinopoli (381). Viene così riconosciuto il suo ruolo di esplicitazione e protezione della fede, come pure la capacità creativa della ragione umana, della filosofia e della cultura, nell’accogliere la Rivelazione. Come già accade con le Sacre Scritture, ciò sottolinea che la Rivelazione implica un dialogo tra Dio e l’uomo, un dialogo che si fa da entrambe le parti attraverso parole umane, situate, limitate, e dunque sempre da interpretare. Non soltanto la vita divina si rivela come sovrabbondanza, ma la forma stessa della Rivelazione, capace di esprimersi in parole umane, e di tradursi ben presto in tutte le lingue, si mostra qui semper major

17. Questa espressione non è però la sola utilizzata nel Simbolo per esprimere la divinità salvifica del Figlio. Essa si trova inserita in una serie di termini di origine scritturistica e liturgica: “Dio vero da Dio vero”, “Dio da Dio”[24] e “luce da luce”. Nessuno di questi termini può da solo esaurire la sovrabbondante pienezza della Rivelazione. La fede ha bisogno dell’articolazione di espressioni scritturistiche, filosofiche e liturgiche, di concetti, di immagini e di nomi divini (Padre, Figlio e Spirito Santo) per esprimersi nel modo più giusto e più completo. I modi di espressione delle diverse Chiese e comunità ecclesiali possono sostenersi mutuamente in questa riscoperta, dato che alcuni insistono di più sull’una o sull’altra: così, la tradizione orientale mette l’accento sulla comprensione di Cristo come “luce da luce”.[25] La pluralità del suo vocabolario contribuisce senz’altro a rendere la fede che vi è espressa accessibile a differenti culture e secondo la forma mentis di ciascun essere umano. 

1.3. L’unità della storia della salvezza

18. Per comprendere bene la portata del Simbolo di Nicea-Costantinopoli, è importante comprendere l’unità del quadro della storia della salvezza che informa la professione di fede. In effetti, l’attribuzione della creazione o del “dono della vita” alle tre persone divine sottolinea l’unità tra l’ordine della creazione e l’ordine della salvezza. La divinizzazione comincia già con l’atto creatore, la storia della salvezza comincia già con la creazione. Contro il marcionismo e le diverse forme di gnosticismo, bisogna tener fermo che è lo stesso Dio che crea e che salva, ed è la medesima realtà creata, buona perché voluta da Dio, che viene restaurata nella redenzione. Così, la grazia non introduce una frattura ma offre un compimento, dal momento che è già all’opera nella creazione che ad essa è ordinata. 

19. Allo stesso modo, l’economia della salvezza che si compie in Cristo non è presentata nel suo vero e pieno significato se non a condizione che si sottolinei la sua fedeltà alla rivelazione fatta al popolo di Israele, senza la quale la fede espressa a Nicea perderebbe la sua legittimità e la pienezza della sua dimensione storica. Evidentemente, la dimensione trinitaria e cristologica della fede nicena non è accettata dalla tradizione rabbinica ma, da un punto di vista cristiano, essa è compresa in maniera essenziale come una novità che si inscrive però in una continuità con la rivelazione affidata al popolo eletto. La dottrina della Trinità non significa certo una relativizzazione, quanto piuttosto un approfondimento della fede nel solo e unico Dio di Israele.[26]Abbiamo già sottolineato che i rimandi al Dio “uno” e “creatore del cielo e della terra” fanno eco all’Antico Testamento, dove Dio si rivela come Colui che crea per amore, entra in relazione per amore e chiede di essere amato a sua volta. Dio chiama Abramo suo “amico”, “colui che lo ama” (Is 41,8; 2Cr 20,7; Gc 2,23), e si intrattiene con Mosè «faccia a faccia, come uno parla con il proprio amico» (Es 33,11). Allo stesso modo, la scelta dell’homooúsios è fatta precisamente per proteggere il carattere monoteista della fede cristiana: in Dio, non c’è altra realtà che la realtà divina. Il Figlio e lo Spirito non sono altro che Dio stesso e non degli esseri intermediari tra Dio e il mondo o semplici creature. Inoltre, la rivelazione fatta a Israele è testimonianza del Signore come dell’Uno e Unico che si mette in gioco, si dona e si comunica nella storia degli uomini. Il cristianesimo comprende l’Incarnazione come la pienezza inaudita del modo di fare (l’economia) del Dio di Israele, che scende ad abitare in mezzo al suo popolo, un modo di fare che si realizza nell’unione di Dio con un’umanità singolare, Gesù.[27] 

20. Per di più, lo sviluppo della fede trinitaria quale è espressa a Nicea non è senza un retroterra ebraico. Il Simbolo è strutturato da una triplice ripetizione: «Crediamo in un solo Dio Padre… e in un solo Signore Gesù Cristo… e nello Spirito Santo». In effetti, la fede trinitaria nascente dei primi secoli sviluppa l’unità dei nomi divini, Padre, Figlio e Spirito, a partire dalla fede monoteista di Israele espressa all’inizio dello Sh’ma Israel, «il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore» (Dt 6,4), mediante la ripetizione di questa preghiera centrale del giudaismo, estendendo l’attributo dell’unità-unicità del Dio uno al Figlio: «Credo in un solo Dio... e in un solo Signore...». É ciò che troviamo già negli abbozzi di espressione della fede trinitaria propri del Nuovo Testamento: «Per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene, e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, per mezzo del quale sono tutte le cose e noi siamo per lui» (1Cor 8,6 sottolineature nostre). Queste formule, “binitarie”, co-esistono con formule “trinitarie”: «Un solo corpo e un solo spirito […]; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,4-6 sottolineature nostre; cf. anche 1Cor 12,4-6). Evidentemente, il contenuto di tali formule va evolvendo rapidamente verso concezioni che non potranno essere accettate dal rabbinismo, ma è a partire dalle predisposizioni e dall’interno delle strutture liturgiche giudaiche che si sviluppa la fede cristiana. D’altronde, si deve sottolineare la ricchezza poliedrica del monoteismo di Israele così come si manifesta attraverso la Bibbia ebraica e gli scritti dell’epoca del secondo Tempio.[28]Vi è l’idea di una ricchezza sovrabbondante in Dio che non contraddice la sua unicità e unità. Ciò è testimoniato nella molteplicità delle figure di Dio, come la dimensione “binitaria”, in un certo senso, che alcuni specialisti percepiscono nella dualità tra «l’Antico dei giorni» e colui che è «simile a un figlio d’uomo» (Dn 7,9-14).[29]Questa ricchezza si manifesta anche nelle differenti figure di Dio nel corso della sua azione nel mondo: l’Angelo del Signore, la Parola (dābār), lo Spirito (rûaḥ) e la Sapienza (ḥākmâ).[30]Alcuni esegeti contemporanei sostengono d’altronde che ci fu una prima tappa binitaria nella confessione di fede cristiana, la quale inscriveva in modo naturale la confessione di fede in Gesù di Nazareth come Kyrios glorificato dopo la morte, con un rango propriamente divino, in continuità col monoteismo espresso nella Bibbia.[31]Così, anche se è fondamentale non retroproiettare la fede trinitaria sull’Antico Testamento, è nondimeno possibile percepire tra l’Antico e il Nuovo Testamento un processo di sviluppo, anche se non lineare, una sorta di concentrazione di queste differenti realtà in due figure: il Figlio-Logos e lo Spirito. Quando invece si è giunti a considerare l’affermazione di due altre persone divine come un’associazione estrinseca al Dio unico, è venuto meno il riconoscimento dell’idea cristiana di una fecondità intrinseca del Padre nel seno della sostanza unica e indivisibile delle tre persone coeterne. 

2. Cogliere l’immensità di Cristo Salvatore e del suo atto salvifico

21. Al cuore del secondo articolo del Simbolo di Nicea-Costantinopoli si trova la confessione dell’Incarnazione e dell’atto redentore del Figlio. Dopo aver professato la divinità di Cristo, Figlio di Dio, noi confessiamo anche che: 

[Noi crediamo in un solo Signore Gesù Cristo]
che per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo,
e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria
[32] e si è
fatto uomo;
fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto,
e il terzo giorno è risuscitato secondo le Scritture, è salito al cielo,
siede alla destra del Padre e di nuovo verrà nella gloria
a giudicare i vivi e i morti;
e il suo regno non avrà fine.

2.1. Vedere Cristo in tutta la sua grandezza 

22. Nicea ci permette di «concepire il Cristo in tutta la sua grandezza».[33] Le due dimensioni che fanno di lui l’unico mediatore tra Dio e gli uomini sono evidenziate mediante la menzione dei due attori dell’Incarnazione: «Egli si è incarnato per opera dello Spirito Santo da Maria Vergine». É pienamente Dio, lui che proviene da una Vergine per la potenza dello Spirito di Dio; è pienamente uomo, lui che nasce da una donna. É homooúsios al Padre ma anche a noi secondo il duplice enunciato affermato più tardi a Calcedonia[34] – laddove il termine homooúsios non può avere un senso univoco quando si tratta di rapportare il Figlio incarnato al Padre piuttosto che agli esseri umani. Il Verbo che si fa carne è la stessa Parola di Dio, che assume in maniera unica e irreversibile un’umanità singolare e finita. Proprio perché Gesù era personalmente (ipostaticamente) identico al Figlio eterno ha potuto, patendo la morte umana in modo tragico, rimanere in relazione vivente col Padre e trasformare la separazione da Dio, cioè il peccato e la morte (cf. Rm 6,23), in accesso a Dio (cf. 1Cor 15,54-56; Gv 14,6b). Proprio perché Gesù era veramente uomo – «in tutto simile a noi, tranne che nel peccato» (Eb 4,15) – ha potuto assumere il nostro peccato e passare attraverso la morte. Questa duplice consustanzialità fa sì che solo Cristo possa salvare. Lui solo può operare la salvezza. Lui solo è la comunione degli esseri umani col Padre.[35]Lui solo è il Salvatore di tutti gli esseri umani di tutti i tempi. Nessun altro essere umano lo potrebbe essere prima di lui o dopo di lui. L’inaudito della perfetta comunione tra Dio e l’uomo si è realizzato in Cristo, al di là di qualsiasi forma di realizzazione che l’essere umano possa immaginare a partire da sé. 

23. Non possiamo ignorare l’attuale difficoltà a credere nella piena divinità e nella piena umanità di Cristo. Esiste in tutta la storia del cristianesimo, e ancora oggi, una vera e propria resistenza a riconoscere la piena divinità di Cristo. Gesù può essere più facilmente considerato come un maestro spirituale iniziatico o come un messia politico che predica la giustizia, mentre invece, nella sua umanità, vive la sua relazione eterna col Padre.  Ma esiste anche una grande difficoltà ad ammettere la piena umanità di Cristo, proprio lui che può provare la fatica (Gv 4,6), sentimenti di tristezza e d’abbandono (Gv 11,35; Getsemani), come pure la collera (Gv 2,14-17), e che, misteriosamente ma realmente, ignora alcune cose («solo il Padre conosce l’ora…», cf. Mt 24,36). Il Figlio eterno ha scelto di vivere tutto ciò che egli è nell’infinito della natura divina, che rimane nella finitudine della sua natura umana e attraverso di essa. 

24. Notiamo tuttavia che, anche se la parte del Simbolo consacrata alla seconda persona è la più sviluppata, la prospettiva cristologica contenuta nella fede di Nicea è necessariamente trinitaria. Cristo è semper major proprio perché là dove egli è c’è sempre più di lui: il Padre rimane il Padre, il “Santo d’Israele”. Certo, «colui che ha visto [il Cristo] ha visto il Padre» (Gv 14,9), ma, come dice Gesù, «il Padre è più grande di me» (Gv 14,28). Lo stesso Ario l’aveva visto quando citava il Vangelo: «Uno solo è buono» (Mt 19,17).[36]Di più, Cristo non può essere compreso senza il Padre e lo Spirito Santo: prima di essere concepito come l’Uomo-Dio e lo Sposo, è presentato nel Nuovo Testamento come Figlio del Padre e Unto dallo Spirito. Allo stesso modo, egli non salva gli uomini senza il Padre che è la fonte e il fine di tutte le cose – dal momento che egli è unione filiale con il Padre. Egli non salva gli uomini senza lo Spirito, che fa gridare «Abbà, Padre» (Rm 8,15) e la cui azione interiore permette all’essere umano di essere trasformato e di entrare attivamente nel movimento che lo conduce al Padre. 

2.2. L’immensità dell’atto salvifico: la sua consistenza storica

25. La grandezza del Salvatore si svela anche nella pienezza sovrabbondante dell’economia di salvezza.  Nicea presenta il realismo dell’opera di redenzione. Nel Cristo, Dio ci salva entrando nella storia. Non invia un angelo o un eroe umano, ma viene lui stesso nella storia degli uomini, nascendo da una donna, Maria, nel popolo d’Israele («nato da donna, nato sotto la Legge», Gal 4,4), e morendo in un periodo storico preciso, «sotto Ponzio Pilato» (cf. 1Tim 6,13; si veda anche At 3,13).[37]Se Dio è entrato lui stesso nella storia, l’economia della salvezza è il luogo della sua Rivelazione: nella storia, Cristo rivela autenticamente il Padre e lo Spirito e dona pienamente accesso al Padre nello Spirito. Di più, poiché Dio entra nella storia, non si tratta solo di un insegnamento da mettere in pratica, come nel marcionismo o nella gnosi «dal nome menzognero», ma di un’azione efficace di Dio. L’economia sarà il luogo dell’opera salvifica di Dio. Noi confessiamo che un avvenimento storico ha radicalmente cambiato la situazione di tutti gli esseri umani. Confessiamo che la Verità trascendente si è inscritta nella storia e agisce in essa. É per questo che il messaggio di Gesù non può essere dissociato dalla sua persona: egli è per tutti «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6) e non un maestro di sapienza tra altri. 

26. Malgrado la sua insistenza sulla storia, il Simbolo non menziona né evoca esplicitamente una gran parte del contenuto dell’Antico Testamento né, in particolare, l’elezione e la storia di Israele. Evidentemente, un Simbolo non deve essere esaustivo. Ciononostante, è utile sottolineare che questo silenzio non significa in alcun modo la caducità dell’elezione del popolo dell’antica alleanza.[38]Ciò che rivela la Bibbia ebraica non è unicamente una preparazione ma è già storia di salvezza, che proseguirà e si compirà nel Cristo: «La Chiesa di Cristo riconosce che gli inizi (initia) della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei Patriarchi, in Mosè e nei Profeti».[39] Il Dio di Gesù Cristo è il “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, è il “Dio d’Israele”. Del resto, il Simbolo sottolinea con discrezione la continuità tra il popolo d’Israele e il popolo della nuova alleanza attraverso la menzione della “Vergine Maria”, che colloca il Messia nel contesto di una famiglia ebrea e di una genealogia ebrea e che riecheggia ugualmente un testo veterotestamentario (Is 7,14 LXX). Ciò crea un ponte tra le promesse dell’Antico Testamento e del Nuovo, come lo farà anche l’espressione «egli è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture» nel seguito dell’articolo, laddove “Scritture” significa l’Antico Testamento (cf. 1Cor 15,4). La continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento si incontra di nuovo laddove l’articolo sullo Spirito indica che questi «ha parlato per mezzo dei profeti», cosa che rappresenta forse una nota anti-marcionita.[40]Comunque sia, per essere pienamente compreso, questo Simbolo nato dalla liturgia assume tutto il suo significato quando è proclamato nella liturgia e articolato con la lettura dell’insieme delle Sacre Scritture, Antico Testamento e Nuovo Testamento. Ciò situa la fede cristiana nel quadro dell’economia salvifica che include in modo sorgivo e strutturale il popolo eletto e la sua storia. 

2.3. La grandezza dell’atto salvifico: il mistero pasquale

27. Il realismo e la dimensione trinitaria della salvezza in Cristo trovano il loro compimento nel mistero pasquale. Il Figlio, luce di Dio e vero Dio, s’incarna, soffre, muore, discende allo sheol e risuscita. Si tratta ancora qui di una novità inaudita. La difficoltà di Ario non riguardava solo l’unità di Dio, incompatibile con la generazione di un Figlio, ma anche la comprensione della sua divinità, incompatibile con la passione di Cristo. Eppure, è proprio nel Cristo e soltanto nel Cristo che noi comprendiamo ciò di cui Dio stesso è capace, al di là di tutti i limiti posti dalle nostre precomprensioni. Si tratta di prendere sul serio il grido di Gesù come grido del Figlio di Dio, espresso nel sudore di sangue e nella paura: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice» (Mt 26,39b). La stessa parola homooúsios aiuta a realizzare l’inaudito della kenosi dell’Incarnazione: solo l’affermazione del Figlio “consustanziale” al Padre permette di realizzare la radicalità e la profondità di ciò a cui questo stesso Figlio ha acconsentito assumendo la condizione umana. In un certo senso, si potrebbe dire che il Figlio, semper major, si fa veramente minor e che il Dio Altissimo discende quanto più in basso in Gesù Cristo (cf. Fil 2,5-11). Ora, anche se solo il Cristo nasce, soffre la passione e muore, noi possiamo dire che «unus de Trinitate passus est».[41] Tutta la Trinità è coinvolta, ciascuna persona in maniera singolare, nella passione salvifica di Cristo. Così, la passione ci rivela il senso realmente divino della “onnipotenza”. L’onnipotenza del Dio trinitario è identica al dono di sè e all’amore. Il Redentore crocifisso non è quindi la dissimulazione, ma la rivelazione dell’onnipotenza del Padre. 

28. La pienezza dell’atto redentore di Cristo non si manifesta interamente se non con la sua risurrezione, compimento della salvezza, in cui si trovano confermati tutti gli aspetti della nuova creazione. La risurrezione testimonia la piena divinità di Cristo, che sola è capace di attraversare e di vincere la morte, ma anche la sua umanità, dal momento che è proprio la stessa umanità, numericamente identica a quella della vita terrena, ad essere trasfigurata e glorificata. Non si tratta di un simbolo o di una metafora: il Cristo risuscita nella sua umanità e nel suo corpo. La risurrezione trascende la storia ma è accaduta al cuore della storia degli esseri umani e di questo uomo Gesù. Per di più, essa è profondamente trinitaria: il Padre ne è la fonte, lo Spirito ne è il soffio vivente e il Cristo glorificato vive – sempre nella sua umanità – nel seno della gloria divina e in comunione inalterabile col Padre e lo Spirito. Notiamo che è la risurrezione di Cristo, «primogenito di quelli che risorgono dai morti» (Col 1,18; cf. Rm 8,29), che rivela la generazione eterna del Figlio, «primogenito di tutta la creazione» (Col 1,15). Così, la paternità e la filiazione divine non sono anzitutto degli sviluppi di modelli umani, anche se sono espressi con parole umane culturalmente connotate, ma sono realtà sui generis della vita divina.  

29. Il Simbolo sottolinea che la risurrezione di Gesù Cristo si dispiega fino alla fine dei tempi, quando il Cristo «ritornerà nella gloria per giudicare i vivi e i morti; e il suo regno non avrà mai fine». Con la risurrezione, la vittoria è definitivamente acquisita, ma dovrà realizzarsi pienamente nella Parusia. La speranza cristiana è piena: non si appoggia unicamente sull’ephàpax della passione e risurrezione o sul dono attuale della grazia, ma anche sull’avvenire del ritorno glorioso di Cristo e del suo Regno. Notiamo che questo aspetto della fede di Nicea si comprende meglio e riceve una forza accresciuta se viene letto in un contesto in cui la Chiesa si mette all’ascolto dell’Antico Testamento e della fede del popolo ebreo di oggi. L’attesa messianica attuale del popolo d’Israele mette in luce l’integralità delle promesse messianiche di pace su tutta la terra e di giustizia per tutti, in un mondo completamente rinnovato (Is 2,4; 61,1-2; Mi 4,1-3), che i cristiani attendono con la Parusia. Ciò può e deve risvegliare la speranza cristiana del ritorno del Risorto poiché solo allora sarà pienamente visibile la sua opera redentrice.[42] 

3. Cogliere l’immensità della salvezza offerta agli uomini e l’immensità della nostra vocazione umana 

30. Celebrare Nicea non consiste solo nel meravigliarsi davanti alla pienezza sovrabbondante di Dio e del Cristo Salvatore, ma anche davanti alla grandezza sovrabbondante del dono offerto agli esseri umani e della vocazione umana che in essa è svelata. Il mistero di Dio nella sua immensità è rivelazione della verità sull’uomo, anche lui semper major. Si tratta qui di sviluppare le implicazioni soteriologiche e antropologiche delle affermazioni trinitarie e cristologiche del Simbolo di Nicea, ma anche di tenere in considerazione l’insegnamento contenuto nella finale del terzo articolo sullo Spirito Santo, che presenta la fede nella Chiesa e nella salvezza: 

[Noi crediamo] una sola Chiesa santa, cattolica e apostolica.
Confessiamo un solo battesimo per la remissione dei peccati;
Aspettiamo la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.

3.1. La grandezza della salvezza: l’ingresso nella vita di Dio

31. Poiché Cristo ci salva, la fede di Nicea confessa la “remissione dei peccati” e “la risurrezione dei morti”. Il Simbolo menziona il peccato poiché noi abbiamo bisogno di sapere da quale male siamo liberati. Il peccato, in senso teologico stretto, non è soltanto il vizio o la colpa che offende le intenzioni del Creatore nella creatura (cf. Rm 2,14-15), ma è anche una frattura deliberata nei confronti di Dio nell’ambito di una relazione teologale con lui. In questo senso pieno, il peccatore prende coscienza del suo peccato nella luce dell’amore misericordioso di Dio: il peccato deve essere “scoperto” per opera della grazia stessa in modo che essa possa convertire i cuori.[43] Così, la rivelazione del peccato è il primo passo della redenzione e deve essere confessato come tale.

32. Con l’esorbitante pretesa della risurrezione dei morti, la fede di Nicea professa che la salvezza è completa e piena. L’uomo è liberato da ogni male, compreso “l’ultimo nemico” che deve essere distrutto da Cristo perché tutto sia sottomesso a Dio (cf. 1Cor 15,25-26). La fede nella risurrezione implica non semplicemente la sopravvivenza dell’anima ma anche la vittoria sulla morte.[44]Di più, l’uomo non è salvato solo quanto alla sua anima ma anche nel suo corpo. Nulla di ciò che fa l’identità e l’umanità dell’uomo rimane al di fuori della creazione nuova offerta da Cristo. Infine questo dono sarà acquisito per sempre, dal momento che si dispiega nella “vita del mondo che verrà”, l’eschaton pienamente realizzato. A partire dalla Pasqua, nessun peccato ha più il potere di separare il peccatore da Dio – perlomeno se questi afferra la mano del Crocifisso Risuscitato, che si protende fino al più profondo dell’abisso per offrirsi alle pecorelle smarrite: «Sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né potestà, né presente né futuro, né altezze né profondità, né qualunque altra cosa creata potrà separarci dall’amore che Dio ha per noi in Cristo Gesù nostro Signore» (Rm 8,38-39). 

33. Poiché Cristo ci salva in quanto vero Dio, la risurrezione significa per noi l’ingresso nella vita divina, umanizzazione e divinizzazione a un tempo, come testimonia il commentario fatto da Gesù del salmo 81,6 in Gv 10,14: «Voi siete dèi».[45]E poiché egli ci salva in quanto Figlio, generato dal Padre, questa divinizzazione è una filiazione adottiva e una conformazione al Cristo; è l’ingresso per opera dello Spirito Santo nell’amore del Padre. Noi siamo amati e rigenerati dallo stesso amore col quale il Padre ama e genera eternamente il Figlio. Tale è l’implicazione soteriologica della paternità di Dio professata a Nicea. Infine, poiché il Cristo ci salva in quanto Figlio, con il Padre e lo Spirito Santo, questa filiazione è un’immersione reale nelle relazioni trinitarie. Ecco perché il Simbolo nasce dalla professione di fede battesimale trinitaria e il battesimo si compie «nel nome del Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo». L’immensità del dono così rivelato si attualizza nel mistero dell’Ascensione di Cristo: “è salito al cielo”, manifestando che lo stesso Cristo è il “nostro cielo”.[46] Il Figlio esaltato invierà il dono di Dio promesso, lo Spirito di Pentecoste. Nessuna visione più limitata della salvezza potrà essere realmente cristiana. 

3.2. L’immensità della vocazione umana all’Amore divino

34. Tutto ciò che precede non può non avere conseguenze sulla visione cristiana dell’essere umano. Anche egli è rivelato nella grandezza sovrabbondante della sua vocazione come homo semper major. Il Simbolo di Nicea non comprende un articolo antropologico in senso stretto ma l’essere umano, nella sua vocazione alla filiazione divina in Gesù, potrebbe essere descritto come oggetto della fede. Conformemente alle Sacre Scritture, la sua vera identità è rivelata dal mistero di Cristo e dal mistero della salvezza come mistero in senso stretto, analogo a quello di Dio e di Cristo, benché essi lo superino incomparabilmente.

35. Questo grande mistero è anzitutto legato a quello del Dio trinitario e di Cristo. La rivelazione della paternità di Dio è la rivelazione del mistero della paternità tout court: «Io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ha origine ogni discendenza in cielo e sulla terra» (Ef 3,14). La rivelazione del Figlio Unico, in particolare nel Vangelo di Giovanni, è la manifestazione della filiazione in senso proprio, che scaturisce ontologicamente dalla Prima Generazione e proviene dal mistero stesso della Trinità. In una sorta di inversione del rapporto di analogia, sono la paternità e la filiazione trinitarie che illuminano e purificano la paternità, la maternità, la filiazione e la fraternità umane, culturalmente situate e segnate dal peccato. La paternità divina manifesta innanzi tutto che la filiazione è la caratteristica più profonda dell’essere umano: che è un dono donato a se stesso da Dio Padre ed è chiamato a riceversi da Dio e, in Lui, dagli altri e dal mondo creato che lo circonda per diventare sempre più se stesso. Per questa ragione, la sua identità e la sua vocazione sono rivelate in modo speciale nel Cristo, Figlio incarnato, “uomo perfetto” che, «nella rivelazione del mistero del Padre e del suo amore, manifesta pienamente l’uomo a se stesso e gli svela la sublimità della sua vocazione».[47] D’altra parte, gli esseri umani sono anche chiamati a partecipare del mistero della paternità, essendo padri e madri carnali e spirituali. A immagine della paternità divina, le paternità e maternità umane implicano il dono di sé, una piena uguaglianza tra genitori e figli, tra coloro che donano e coloro che ricevono, ma anche una differenza e una tàxis tra di loro. Infine, non vi è antropologia realmente cristiana che non sia pneumatologica. Solo lo Spirito “che dona la vita” umanizza interamente l’essere umano, lo rende figlio e figlia, padre e madre. Analogicamente, si può senza dubbio parlare di una forma di co-spirazione dello Spirito, o d’ispirazione congiunta,[48]poiché i nostri atti e le nostre parole più feconde sono tali nella misura della cooperazione che offrono allo Spirito, il quale attraverso di loro consola, rialza e guida. Così, la verità e il senso della paternità, della filiazione e della fecondità umane devono essere rivelate, perché non sono soltanto realtà naturali o culturali ma una partecipazione al modo di essere del Dio trinitario. Esse non possono venir comprese in profondità senza la Rivelazione e, allo stesso modo, non possono essere esercitate senza la grazia. Ecco un’altra buona notizia da riscoprire oggi a partire da Nicea.  

36. In un certo senso, l’homooúsios stesso può avere una portata antropologica. Un uomo ha donato l’accesso a Dio. Beninteso, Cristo dice in maniera unica e propria: «Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14,9) in ragione del mistero dell’unione ipostatica. Tuttavia, questa unione unica in lui si realizza in coerenza col mistero dell’essere umano «creato a immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1,27). In questo senso, e realmente, ogni essere umano riflette Dio, fa conoscere e dona accesso a Dio. Il Papa Paolo VI esprimeva questo paradosso sottolineando da una parte che «per conoscere l’uomo, l’uomo vero, l’uomo integrale, bisogna conoscere Dio», ma d’altra parte affermava anche che «per conoscere Dio, bisogna conoscere l’uomo».[49]Queste parole devono essere comprese in senso forte: non solamente ogni essere umano fa vedere l’immagine di Dio, ma non è possibile conoscere Dio senza passare per l’essere umano. Per di più, come abbiamo visto sopra (§ 22), la Chiesa farà ricorso all’espressione homooúsios per esprimere la comunità di natura del Cristo in quanto vero uomo, «nato da donna» (Gal 4,4), la Vergine Maria, con tutti gli esseri umani.[50]I due versanti di questa duplice “consustanzialità” del Figlio incarnato si rafforzano l’un l’altro per fondare in maniera profonda, efficace, la fraternità di tutti gli esseri umani. Noi siamo in certo senso fratelli e sorelle di Cristo per l’unità della medesima natura umana: «Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli» (Eb 2,17; cf. 2,11-12). É questo legame nell’umanità che permette a Cristo, consustanziale al Padre, di coinvolgerci nella sua filiazione dal Padre, e di fare di noi dei figli di Dio, suoi fratelli e sorelle e, di conseguenza, fratelli e sorelle gli uni degli altri in un senso nuovo, radicale e indistruttibile. 

37. Il mistero dell’uomo nella sua grande dignità è ugualmente rischiarato dalla dimensione escatologica del Simbolo di Nicea. La fede nella “risurrezione dei morti”, espressa anche come “risurrezione della carne”,[51] afferma la bellezza del corpo e la bellezza di ciò che si vive nel mondo attraverso il corpo, malgrado la fragilità e i limiti umani. Essa afferma il valore di questo corpo personale e concreto che sarà risuscitato, trasfigurato, ma si manterrà numericamente identico.[52] Tale fede pone dunque una richiesta etica: se gli atti di amore vero posti nel e mediante il corpo in questa vita sono in qualche modo i primi passi della vita risorta, il rispetto del corpo implica che si viva rettamente e con purezza tutto ciò che lo riguarda. Notiamo che le cristologie che non affermano una piena umanità del Cristo rischiano di indurre una concezione della salvezza come fuga dal corpo e dal mondo, piuttosto che come piena umanizzazione dell’uomo. Ora, questo ancoraggio nel mondo e nei corpi, creati buoni e portati a compimento nella nuova creazione, è una delle caratteristiche del cristianesimo. Ritroviamo qui il legame profondo tra creazione e salvezza: tutti i tratti umani di Gesù, ricevuti da Maria, sua madre, sono delle buone notizie e invitano ogni essere umano a prendere in considerazione ciò che fa della sua umanità concreta una buona notizia. 

38. Inoltre, la speranza della risurrezione come anche quella della “vita eterna del mondo che verrà”, attesta l’immenso valore della persona individuale, che non è destinata a sparire nel nulla o nel tutto, ma è chiamata a una relazione eterna con quel Dio che ha eletto ciascuno prima della fondazione del mondo (cf. Ef 1,4). Già l’elezione di Abramo, Isacco e Giacobbe e l’alleanza irrevocabile col popolo d’Israele rivelano l’alleanza che Dio vuole stringere con tutte le nazioni e con ogni essere umano in una indistruttibile fedeltà. Allo stesso modo, l’incarnazione del Figlio eterno in un essere umano singolare conferma, fonda e compie la dignità insopprimibile della persona in quanto fratello e sorella di Gesù Cristo. 

39. Il nostro mondo ha oggi un immenso bisogno di riscoprire questi aspetti del mistero dell’uomo che lo presentano nella sua grandezza senza ignorare la sua miseria. «L’uomo sorpassa infinitamente l’uomo», ha detto Blaise Pascal.[53]Questa convinzione cristiana lancia una sfida a tutte le forme di riduzionismo antropologico. La fede nella paternità, nella filiazione e nell’ispirazione feconda (“pneumatica”) delle persone umane fonda e orienta ogni autentica concezione dell’autonomia, della libertà e della creatività umane.  Queste trovano la loro origine in Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo, per i quali l’onnipotenza, la sapienza e l’amore fanno una cosa sola nel dono di sé. Al contrario, la perdita della fede nella risurrezione e nella vita eterna si trasformerà nel rifiuto di attribuire il suo vero posto al corpo e al valore sacro di ciascun individuo nella sua unicità e trascendenza. Ora, il Creatore ci ha rivelato le sue intenzioni: «L’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato» (Sal 8,6). 

3.3. La bellezza del dono della Chiesa e del battesimo

40. I diversi fili tessuti fino ad ora si annodano nelle affermazioni ecclesiologiche e sacramentali del Simbolo. La fede di Nicea significa anche credere la Chiesa “una, santa, cattolica e apostolica” e credere il battesimo “per la remissione dei peccati”. La Chiesa e il battesimo vanno celebrati come doni che sono anch’essi semper majora. Dal momento che confermano e manifestano la pienezza sovrabbondante di tutto ciò che è esposto nel resto del Simbolo, essi sono oggetti paradossali di fede: si tratta di riconoscere in essi molto più di ciò che si vede. La Chiesa è una al di là delle sue divisioni visibili, santa al di là dei peccati dei suoi membri e degli errori commessi dalle sue strutture istituzionali, cattolica e apostolica al di là dei ripiegamenti identitari e culturali e dei tormenti dottrinali ed etici che la agitano senza tregua. In questo senso, si tratta di evitare sia il “monofisismo” che “l’arianesimo” ecclesiologici: il primo sottovaluta, quando non nasconde, la dimensione umana della Chiesa, mentre il secondo elude la dimensione divina della Chiesa a vantaggio di una visione puramente sociologica e funzionale. Allo stesso modo, nella fede, il battesimo è compreso come sorgente di una vita nuova e della purificazione dal peccato al di là di ciò che è visibile nella vita imperfetta e talvolta lontana da Dio degli stessi battezzati. Esso manifesta ed eleva la dignità inviolabile di ogni essere umano conformandolo a Cristo sacerdote, re e profeta. 

41. “Credere” la Chiesa e “confessare” il battesimo significa ricevere un dono di fede che permette di discernere al cuore stesso della loro dimensione umana e fragile la presenza attiva e santificante dello Spirito Santo. É lo Spirito che rende la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica e che dona la sua efficacia al battesimo. “Credere la Chiesa e il battesimo, significa ugualmente percepire in essi e attraverso di essi l’azione salvifica di Cristo. Come Cristo è il sacramento fondamentale di Dio, la sua presenza reale e agente nel simbolo reale della sua umanità, allo stesso modo la Chiesa è «sacramento universale di salvezza».[54]Infine, “credere” la Chiesa e il battesimo, significa discernere in essi la presenza del Dio trinitario. La Chiesa è semper major, poiché essa trova la sua fonte e i suoi fondamenti nel Dio trino e in lei vivono il Padre, il Figlio incarnato e lo Spirito. Proprio in questa Chiesa, la fede di Nicea è proclamata e celebrata – nel battesimo e negli altri sacramenti: «Gloria al Padre e al Figlio con lo Spirito Santo nella santa Chiesa».[55] 

42. Al crocevia tra soteriologia e antropologia, credere la Chiesa e confessare il battesimo conferma e dispiega l’immensità della salvezza e del mistero dell’essere umano. La salvezza non è un processo semplicemente individuale, bensì comunitario e soprannaturale, recepito in virtù della collaborazione di altri uomini e donne che ci sono prossimi, e generatore di un frutto spirituale per altri che pure ci sono prossimi.[56]Questo processo illumina la natura dell’essere umano che non è una monade isolata, ma un essere sociale, inserito in una famiglia, in una nazione, in una comunità di fede e nell’umanità intera.[57]Di conseguenza, la fede nella Chiesa e nel battesimo implica che la redenzione s’inscriva in azioni e strutture visibili, legati alla dimensione corporea dell’individuo e del corpo sociale, che si dispiegano nella storia. Sono questi i luoghi dello Spirito vivificante e ispiratore, che opera nei loro limiti e al di là di essi per raggiungere ogni essere umano. In fondo, testimoniando l’articolazione dell’individuo e del tutto, la corporeità e l’iscrizione in una storia, la Chiesa si inserisce nell’opera di Cristo che «manifesta pienamente l’uomo all’uomo».[58]In modo particolare, come «sacramento di unità»,[59] la Chiesa confessata dalla fede di Nicea è il segno e lo strumento di unità di tutti questi aspetti dell’umano e dell’umanità intera: la visione cristiana dell’uomo fa esplodere la chiusura di quelle forme di riduzionismo che o rifiutano la comunità a favore dell’individuo o l’individuo a vantaggio della collettività, e che non tendono all’unità.

4. Celebrare insieme l’immensità della salvezza: la portata ecumenica della fede di Nicea e la speranza di una data comune per la celebrazione della Pasqua 

43. La fede di Nicea, nella sua bellezza e nella sua grandezza, è la fede comune a tutti i cristiani. Tutti sono uniti nella professione del Simbolo di Nicea-Costantinopoli, anche se non tutti riconoscono a questo Concilio e alle sue decisioni un identico statuto. L’anno 2025 è dunque un’occasione inestimabile per sottolineare che ciò che abbiamo in comune è molto più forte, quantitativamente e qualitativamente, di ciò che ci divide: tutti insieme, noi crediamo nel Dio trinitario, nel Cristo vero uomo e vero Dio, nella salvezza in Gesù Cristo, secondo le Scritture lette nella Chiesa e sotto la mozione dello Spirito Santo. Insieme, noi crediamo la Chiesa, il battesimo, la risurrezione dei morti e la vita eterna. Il Concilio di Nicea è in modo speciale venerato dalle Chiese d’Oriente, non semplicemente come un concilio tra altri o come il primo di una serie, ma come il Concilio per eccellenza, che ha promulgato la confessione di fede dei “318 padri ortodossi”. 

44. Di conseguenza, il 2025 è l’occasione per tutti i cristiani di celebrare insieme questa fede e il Concilio che ha permesso di esprimerla. L’ecumenismo teologico, legittimamente, concentra la sua attenzione e i suoi sforzi sui nodi irrisolti delle nostre differenze, ma senza dubbio non è meno fecondo, se non più fecondo, celebrare insieme questo anniversario, per avanzare verso il ristabilimento della piena comunione tra tutti i Cristiani, affinché il mondo creda. Abbiamo già sottolineato come l’insistenza delle differenti tradizioni cristiane permetta di valorizzare le ricchezze del testo del Simbolo (cf. supra § 17). La celebrazione comune di Nicea potrà essere un percorso ecumenico di arricchimento mutuo che offrirà, cammin facendo, una migliore comprensione del mistero, una più grande comunione tra le tradizioni ecclesiali e un attaccamento più forte alla comune professione della fede cristiana. 

45. Una delle finalità di Nicea fu di stabilire una data comune della Pasqua, per esprimere l’unità della Chiesa in tutta l’Oikoumenē. Sfortunatamente nessuna data fino ad oggi ha trovato un consenso unanime. La divergenza dei cristiani a proposito della festa più importante del loro calendario crea dei disagi pastorali all’interno delle comunità, al punto da dividere le famiglie, e suscita scandalo presso i non cristiani, danneggiando così la testimonianza resa al Vangelo. Per questo Papa Francesco, il Patriarca Ecumenico Bartolomeo e altri capi di Chiese hanno molte volte espresso il desiderio che si stabilisca una data comune per la celebrazione della Pasqua. Ora, proprio nel 2025 la Pasqua sarà nella medesima data sia per l’Oriente che per l’Occidente. Non è questa un’occasione provvidenziale da cogliere, per continuare a celebrare la passione e risurrezione di Cristo, la “festa di tutte le feste” (Mattutino bizantino di Pasqua), in comunione in tutte le comunità cristiane? Esistono già numerose proposte di data indivisa abbastanza realistiche. Su questa questione la Chiesa cattolica rimane aperta al dialogo e a una soluzione ecumenica. Già nell’appendice della Costituzione Sacrosanctum Concilium, il Concilio Vaticano II non aveva obiezioni all’introduzione di un nuovo calendario e sottolineava che ciò avrebbe dovuto realizzarsi «con l’assenso di coloro che ne sono interessati, soprattutto i fratelli separati dalla comunione con la Sede Apostolica».[60]Va notata l’importanza assegnata dal mondo orientale agli elementi posti successivamente a Nicea per determinare la data di Pasqua: la Pasqua deve essere celebrata «la prima domenica dopo la luna piena che segue o coincide con l’equinozio di primavera».[61]La domenica evoca la risurrezione di Cristo il primo giorno della settimana, mentre la luna piena che segue l’equinozio di primavera richiama l’origine ebraica della festa, il 14 di Nissan, ma richiama anche la dimensione cosmica della risurrezione, dal momento che l’equinozio di primavera evoca il momento in cui la durata del giorno supera quella della notte e in cui la natura riprende vita dopo l’inverno. 

46. Notiamo che è nel quadro del Concilio di Nicea che la Chiesa sceglie in modo decisivo di separarsi dalla data della Pasqua ebraica. L’argomento secondo cui il Concilio ha voluto smarcarsi dall’ebraismo è stato avanzato basandosi sulle lettere dell’Imperatore Costantino riportate da Eusebio, che presentano in particolare delle giustificazioni anti-ebraiche per la scelta di una data di Pasqua che non fosse legata al 14 di Nissan.[62]Tuttavia, bisogna distinguere le motivazioni attribuite all’Imperatore da quelle dei Padri del Concilio. In ogni caso, nulla nei canoni del Concilio esprime un simile rifiuto del modo di fare degli ebrei. Non si può ignorare l’importanza per la Chiesa dell’unità del calendario e della scelta della domenica per esprimere la fede nella risurrezione. Oggi, nel momento in cui la Chiesa festeggia il 1700o anniversario di Nicea, rimangono questi gli scopi di una riflessione sulla data di Pasqua. Al di là della questione del calendario, sarebbe auspicabile sottolineare sempre meglio il rapporto tra Pasqua e Pesaḥ, sia in teologia che nelle omelie come anche nella catechesi, al fine di raggiungere una comprensione più ampia e più profonda del significato della Pasqua. 

47. Alla vigilia di Pasqua e in ogni liturgia battesimale il Simbolo di Nicea-Costantinopoli è proclamato nella sua forma più solenne che è quella dialogata. Questa professione di fede, che fonda la vita cristiana individuale e la vita della Chiesa, troverà tutta la sua forza se rimane radicata nella rivelazione fatta ai nostri “fratelli maggiori” e ai nostri “padri nella fede”[63] e se sarà vissuta nella comunione visibile da tutti i discepoli di Cristo.

Capitolo 2

Il Simbolo di Nicea nella vita dei credenti:
«Noi crediamo come battezziamo;
e preghiamo come crediamo»

 

Preludio: la fede confessata nella fede vissuta 

48. La fede professata a Nicea ha un ricco contenuto dogmatico che è stato determinante nello stabilire la dottrina cristiana. Tuttavia, l’intento di questa dottrina era e rimane quello di nutrire e guidare la vita del credente. In questo senso, è possibile mettere in luce un vero e proprio tesoro spirituale del Concilio di Nicea e del suo Simbolo, una “fonte d’acqua viva” alla quale la Chiesa è chiamata ad attingere oggi e sempre. É per proteggere l’accesso a quest’acqua viva che sant’Antonio accettò di lasciare il suo eremitaggio per andare a rendere testimonianza contro gli ariani ad Alessandria.[64]Questo tesoro si manifesta direttamente nel modo in cui la fede di Nicea nasce dalla lex orandi e a sua volta la nutre.[65] D’altronde, i sinodi non si proponevano mai di limitare i loro dibattiti all’ambito speculativo degli enunciati di fede. Al contrario, coloro che partecipavano a questi sinodi avevano a cuore di confrontarsi sulla totalità della vita ecclesiale, sul modo migliore di impregnarsi nel quotidiano delle verità di fede e di praticarle e, viceversa, di regolare il loro insegnamento sull’ortoprassi liturgica, sacramentale e anche etica.[66]I vescovi, insomma, portavano con sé spiritualmente nei concili i membri del corpo della Chiesa, coi quali condividevano la vita di fede e di preghiera e coi quali cantavano la lode e la gloria del Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo, un solo Dio. Così, per cogliere la portata spirituale e teologale del dogma di Nicea, conviene esplorare la sua ricezione nella pratica liturgica e sacramentale, nella catechesi e nella predicazione, nella preghiera e negli inni del IV secolo. 

1. Battesimo e fede trinitaria 

49. Prima che la dottrina della Trinità si sviluppasse teologicamente, la fede nella Trinità era già al fondamento della vita cristiana celebrata nel battesimo. La professione di fede battesimale pronunciata nella formula sacramentale del battesimo non esprimeva solo un mistero teorico quanto piuttosto la fede vivente riferita alla realtà della salvezza donata da Dio e quindi a Dio stesso. La fede battesimale dona una “conoscenza” di Dio che è allo stesso tempo accesso al Dio vivente. In tal senso, l’apologista Atenagora assicura: «Noi […] uomini […] che siamo spinti dal solo (desiderio) di conoscere Dio e il Verbo che è presso di lui, qual è l’unione del Figlio con il Padre, qual è la comunione del Padre con il Figlio, che cosa è lo Spirito, quale l’unione di questi esseri così grandi e la distinzione di loro così uniti, dello Spirito, del Figlio, del Padre».[67] 

50. Per questo la formula battesimale, nella quale il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono posti su un gradino di eguaglianza, costituisce l’argomento centrale contro Ario e suoi discepoli, molto più che il ricorso a ragionamenti teologici. É ciò che si trova anche in Ambrogio[68] e Ilario,[69] come pure in Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa o Efrem il Siro.[70]Allo stesso modo, Atanasio insiste: il Figlio non è nominato nella formula battesimale perché il Padre non sia sufficiente, e neppure per caso, ma perché:

È il Logos di Dio e la sua propria Sapienza ed in quanto sua irradiazione (apaugasma) è sempre insieme al Padre; per questa ragione è impossibile che, pur essendo il Padre ad offrirla, la grazia non sia conferita nel Figlio: il Figlio è infatti nel Padre come lo splendore nella luce […]. Colui che il Padre battezza anche il Figlio lo battezza, e colui che il Figlio battezza viene iniziato nello Spirito Santo.[71]

51. Detto questo, per Atanasio e per i Padri Cappadoci, non si tratta semplicemente di pronunciare la formula trinitaria, ma il battesimo presuppone la fede nella divinità di Gesù Cristo. Così, l’insegnamento della retta fede è necessario e fa parte della pratica conforme al battesimo. Atanasio cita come fondamento la formulazione del comando in Mt 28,19: «Andate... insegnate... e battezzate».[72]Per questo Atanasio – come Basilio e Gregorio di Nissa[73] negano ogni efficacia al battesimo ariano, perché coloro che considerano il Figlio come una creatura non hanno una giusta concezione di Dio Padre: colui che non riconosce il Figlio non comprende nemmeno il Padre e non “possiede” il Padre, dal momento che il Padre non ha mai cominciato ad essere Padre.[74]

2. Il Simbolo di Nicea come confessione di fede

52. Non soltanto la confessione di fede di Nicea è espressione della fede battesimale ma è possibile che provenga direttamente da un Simbolo battesimale della Chiesa di Cesarea in Palestina (se si dà credito a ciò che dice Eusebio).[75]Sarebbero state fatte tre aggiunte: “…cioè della sostanza del Padre”, “generato, non creato”, e “consustanziale al Padre (homooúsios)”. In questo modo, è stabilito con una impressionante chiarezza che colui che “ha preso carne per noi uomini... e ha sofferto” è Dio, homooúsion tō Patri. Eppure, pur essendo “da la sostanza del Padre” (ek tēs ousias tou Patros), Egli è distinto dal Padre nella misura in cui è suo Figlio. Grazie a lui, che «si è fatto uomo per la nostra salvezza», noi sappiamo che cosa significa il fatto che il Dio trinitario «è amore» (1Gv 4,16). Queste aggiunte sono essenziali e dicono l’originalità propria e l’apporto determinante di Nicea, ma conviene allo stesso tempo sottolineare senza posa che il Simbolo in quanto simbolo di fede si radica in modo originale nel contesto liturgico, che è il suo ambito vitale e dunque il contesto nel quale riceve tutto il suo senso. Non si tratta certo di un’esposizione teorica ma di un atto di celebrazione battesimale, che si arricchisce dal resto della liturgia e a sua volta la illumina. I nostri contemporanei possono avere talvolta l’impressione che il credo sia un’esposizione molto teorica proprio perché ne ignorano il radicamento liturgico e battesimale.  

53. In tal senso, la fede di Nicea resta e si propone come un “symbolon” (“ekthesis”, “pistis”), cioè una confessione di fede. Essa può distinguersi da un’interpretazione o da una definizione teologica tecnica più precisa, che mira a proteggere la fede (“oros”, “definitio”), come l’ha proposta ad esempio il Concilio di Calcedonia. In quanto Simbolo, la Confessione di Nicea è una formulazione positiva e un’esplicitazione della fede biblica.[76]Non pretende di offrire una nuova definizione, ma piuttosto un’evocazione della fede degli apostoli: «Questa fede, il Cristo l’ha donata, gli apostoli l’hanno annunciata, i Padri di tutta la nostra Oikoumenē riuniti a Nicea l’hanno trasmessa (paradosis)».[77] 

54. Ugualmente, è a motivo del suo statuto di confessione di fede e precisamente di fede apostolica, e non in quanto definizione o insegnamento, che il Simbolo di Nicea è considerato nel periodo successivo (almeno fino alla fine del V secolo) come la prova decisiva dell’ortodossia.[78]Per questo è utilizzato come testo base nei concili successivi. Così, Efeso e Calcedonia si vogliono interpreti del Simbolo niceno: essi sottolineano il loro accordo con Nicea e si oppongono alle prese di posizione dissidenti rispetto a Nicea. Quando la Confessione di fede di Nicea-Costantinopoli è stata letta al Concilio di Calcedonia, i vescovi riuniti hanno esclamato: «Ecco la nostra fede. É in questa fede che siamo stati battezzati, è in questa fede che noi battezziamo! Il papa Leone crede così, Cirillo credeva così».[79] Notiamo che la professione di fede può essere espressa al singolare – “io credo” – ma che spesso è al plurale: “noi crediamo”; allo stesso modo, la preghiera del Signore è al plurale: “Padre nostro…”. La mia fede, radicalmente personale e singolare, si inscrive altrettanto radicalmente in quella della Chiesa, intesa come comunità di fede. Il Simbolo di Nicea e l’originale greco del Simbolo di Nicea-Costantinopoli si aprono col plurale “noi crediamo”, «per testimoniare che in questo “Noiˮ, tutte le Chiese erano in comunione, e che tutti i cristiani professavano la stessa fede».[80] 

55. Come evocato nel capitolo precedente, fino ad oggi “Nicea” – “la confessione di fede dei 318 padri ortodossi”[81] – è considerato nelle Chiese orientali come il Concilio per eccellenza, cioè non come “un concilio tra altri”, e neanche come “il primo di una serie”, ma come la norma della retta fede cristiana. I “318 Padri” sono esplicitamente menzionati nella liturgia di Gerusalemme. Inoltre, nelle Chiese orientali, contrariamente alle Chiese occidentali, Nicea ha ricevuto una sua propria commemorazione nel calendario liturgico. É opportuno notare che le questioni disciplinari trattate a Nicea ricevettero da subito un peso differente rispetto alla confessione di fede. Mentre per le questioni disciplinari valgono le decisioni maggioritarie, per le questioni di fede è la tradizione apostolica a essere determinante: «Per ciò che riguarda la Pasqua, [i Padri] hanno scritto: “È stato decisoˮ. […] Per ciò che riguarda la fede, hanno scritto non: “È stato decisoˮ, ma: “Così crede la Chiesa cattolica!ˮ».[82] 

3. Approfondimento nella predicazione e nelle catechesi 

56. I Padri d’Oriente e d’Occidente non si accontentavano di argomentare con l’aiuto dei trattati teologici, ma illustravano ugualmente la fede nicena nelle prediche destinate al popolo, al fine di premunire i fedeli contro le interpretazioni errate, generalmente designate col termine “ariano” – anche se gli “homei”d’Occidente all’epoca di Agostino si distinguevano nettamente dai “neo-ariani” d’Oriente nelle loro argomentazioni. La concezione teologica secondo la quale il Figlio non è “Dio vero da Dio vero”, ma solo la creatura più eminente del Padre e non è coeterno col Padre, è stata riconosciuta dai Padri come una minaccia persistente e combattuta anche indipendentemente dalla presenza di avversari concreti. Il prologo del Vangelo di Giovanni offriva in proposito l’occasione di spiegare la relazione tra Padre e Figlio ovvero tra “Dio” e la sua “Parola”, in modo conforme alla confessione di Nicea.[83]Cromazio di Aquileia (ordinato vescovo nel 387/388, morto nel 407), ad esempio, trasmette ai suoi fedeli la fede nicena senza utilizzare la terminologia tecnica.[84]Perfino i Padri della Chiesa che nutrivano un certo scetticismo di principio riguardo alle “dispute teologiche”, presero una posizione molto chiara contro “l’empietà ariana” (“asebeia”, “impietas”): gli Ariani non comprendono “la generazione eterna del Figlio”, né “l’uguaglianza-eternità originale” del Padre e del Figlio.[85]Essi si sbagliano anche sul monoteismo, accettando una seconda divinità subordinata. Il loro culto è quindi perverso ed erroneo. 

57. Così, nelle sue catechesi, Giovanni Crisostomo spiega la fede battesimale validamente formulata a Nicea,[86]e distingue la retta fede non soltanto rispetto alla dottrina omea, ma anche nei confronti della dottrina sabelliana: i cristiani credono in un Dio che è “una essenza, tre ipostasi”. Agostino argomenta in maniera simile nelle istruzioni dei candidati al battesimo.[87]L’Oratio catechetica magna di Gregorio di Nissa, le cui parti più voluminose sono dedicate al Verbo di Dio eterno e incarnato, può essere considerata come il capolavoro di una catechesi chiaramente destinata a coloro che dovrebbero diffonderla, cioè i vescovi e i catechisti. A tema non c’è solo la relazione tra il Figlio-Parola e il Padre (cap. 1.3.4.), ma anche il significato dell’incarnazione in quanto azione redentrice (cap. 5). Gregorio vuole far comprendere che la nascita e la morte non sono qualcosa di indegno di Dio o di incompatibile con la sua perfezione (cap. 9 e 10), e spiega l’incarnazione col motivo dell’amore di Dio per gli uomini. Ma insiste soprattutto sul fatto che il battesimo cristiano è compiuto nella “Trinità increata”, cioè nelle tre Persone coeterne. È solo così che il battesimo conferisce la vita eterna e immortale: «Poiché chi si sottomette a qualche essere creato (e cioè se pensa che il Figlio e lo Spirito Santo sono creati) non si accorge che ripone in quello, e non in Dio, la propria speranza di salvezza».[88]

58. Il cuore del dibattito è piuttosto una questione esistenziale che un problema teorico: il battesimo è connesso a «l’instaurazione nella filiazione» (Basilio), all’«inizio in noi della vita eterna» (Gregorio di Nissa), alla «salvezza dal peccato e dalla morte» (Ambrogio)?[89]Tutto ciò non è possibile se non a condizione che il Figlio (e lo Spirito Santo) sia Dio. Solo quando Dio stesso diventa “uno di noi” esiste una reale possibilità per l’uomo di partecipare alla vita della Trinità, cioè di essere “divinizzato”.

4. La preghiera al Figlio e le dossologie  

59. La fede di Nicea serve da regola per la preghiera personale e liturgica[90]e quest’ultima è segnata da Nicea. Benché l’“invocazione del nome del Signore (Gesù)” sia già attestata negli scritti del Nuovo Testamento[91]e benché soprattutto gli inni a Cristo[92]testimonino l’offerta di lode e di adorazione, la preghiera al Figlio diventa oggetto di controversia nella crisi ariana.

60. Nel rimando a certi testi di Origene,[93]alcuni ariani del IV secolo, ma anche alcuni seguaci di Origene dei secoli V e VII, si oppongono particolarmente alla preghiera liturgica al Figlio. Gli ariani avevano interesse a mettere in evidenza i passaggi delle Scritture che mostravano Gesù stesso in preghiera, al fine di sottolineare la sua inferiorità in rapporto al Padre. In combinazione con la concezione (apollinarista), ugualmente diffusa presso gli ariani, secondo la quale il Logos prende il posto dell’anima di Gesù, la subordinazione del Logos al Padre sembrava così provata. Per essi, quindi, la preghiera rivolta al Figlio era inappropriata. A favore del loro punto di vista, gli ariani argomentavano utilizzando la formulazione tradizionale della dossologia, che riveste una grande importanza, particolarmente nelle liturgie orientali: «Gloria e adorazione al Padre per (dia / per) il Figlio nello (en / in) Spirito Santo».[94] La differenza delle preposizioni veniva invocata come prova di una differenza essenziale delle persone. Gli ariani cercavano di ricorrere alla liturgia – riconosciuta come istanza di testimonianza della fede della Chiesa – per provare ciò che essi consideravano in tal modo teologicamente giustificato. 

61. I difensori di Nicea hanno affermato invece che la pratica della preghiera doveva sì corrispondere alla fede, ma che questa corrispondeva a sua volta al battesimo. Ora, la formula battesimale manifesta l’uguaglianza in dignità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ne risulta che la preghiera – che sia personale o liturgica – può e deve ugualmente rivolgersi al Figlio. Anche se i niceni non hanno rigettato l’antica formula dossologica, ma ne hanno difeso il senso ortodosso,[95]essi hanno preferito altre formulazioni e preposizioni: “tō Patri, kai…kai”, “tō Patri, dia… sun”, che sono ugualmente attestate nella tradizione biblica e liturgica.[96]Basilio si riferisce in tal senso, tra l’altro, all’inno molto antico “Phōs hilăron” (forse del II secolo), nel quale il Padre, il Figlio e lo Spirito sono oggetto di un canto di adorazione.[97] 

62. Il principio: «Come siamo battezzati così anche crediamo, come crediamo così anche glorifichiamo»,[98] si applica ugualmente alla preghiera personale. L’invocazione di Gesù – quale è stata praticata sotto forma di preghiera a Gesù, soprattutto in ambiti monastici – è esplicitamente giustificata dall’invocazione dell’“homooúsios tôi Patri”. «Quando noi diciamo “Gesù” – spiega Shenuda, un padre copto del V secolo – è insieme nominata la santissima Trinità». Quando è invocato il Figlio incarnato, egli non è invocato separatamente dal Padre e dallo Spirito Santo. Chi non vuole pregare Gesù segue la “nuova empietà”; egli non comprende nulla della Trinità, ma non comprende nulla nemmeno di “Gesù”.[99]Il modo in cui uno prega mostra ciò che crede. 

63. La correttezza nella preghiera possiede un’implicazione soteriologica. È Gregorio di Nissa a lanciare l’avvertimento più incisivo: la speranza del credente è più di una morale nel senso attuale del termine, ma si esprime anche nella preghiera. La speranza è rivolta verso la divinizzazione operata da Dio: se «la prima grande speranza non è più presente presso coloro che si lasciano coinvolgere in un errore di dottrina», ciò ha per conseguenza «che non c’è alcun vantaggio a comportarsi correttamente col sostegno dei comandamenti». E Gregorio prosegue:

Noi siamo dunque battezzati come l’abbiamo ricevuto, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; ma noi crediamo come siamo battezzati; conviene, in effetti, che la fede sia in accordo con la confessione; noi glorifichiamo così come crediamo, perché non è naturale che la glorificazione si opponga alla fede. Ma ciò in cui crediamo, anche lo glorifichiamo. Di modo che, poiché la fede è nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, la fede, la gloria e il battesimo si tengono reciprocamente, a causa di ciò non si distingue la gloria del Padre, da quella del Figlio e dello Spirito Santo.[100] 

64. L’aggiunta della dossologia trinitaria alla fine di ogni salmo, il cui ordine è attribuito al Papa Damaso (morto nel 384 dopo Cristo), può essere compresa in questa direzione. Cassiodoro rimarca che in questo modo tutte le eresie vengono ridotte al nulla: 

La Madre Chiesa aggiunge la lode della Trinità a tutti i salmi e cantici. Rende omaggio a Colui dal quale provengono queste parole e taglia così l’erba sotto i piedi alle eresie di Sabellio, Ario, Mani e altri.[101] 

È soprattutto il caso dell’aggiunta “sicut erat in principio...”, che è stato compreso, in modo inequivocabile, come una professione di fede antiariana.[102]

5. La teologia negli inni 

65. Gli inni, infine, sono un luogo di espressione della fede di Nicea che ha trovato posto nella vita del credente e che è stata influenzata da Nicea. Così numerosi inni terminano con la dossologia trinitaria. Peraltro, il confronto con l’eresia ariana ha giocato un ruolo importante nello sviluppo della poesia cristiana. È anzitutto in Oriente che sono stati composti inni e canti,[103]che volevano rispondere ai poemi di propaganda dei gruppi eterodossi. Quanto all’Occidente, si può perfino dire che il suo contributo teologico più importante nel IV secolo è consistito nella composizione degli inni. 

66. Oltre a Giovanni Crisostomo, è soprattutto Efrem il Siro (306-373) che, nella sua poesia teologica (che ha segnato in seguito tutta la letteratura siriaca classica) e in particolare negli inni De fide e De nativitate, ha cantato il mistero di Cristo: il Cristo è Dio, malgrado la debolezza della sua natura umana; la kenosi del Cristo non è un miracolo così grande se non per il motivo che Egli è Dio e che rimane Dio nella sua spogliazione.[104]È con una profonda pietà che Efrem descrive le relazioni intra-trinitarie: il Figlio è nel Padre «prima di tutti i tempi», Egli è «uguale al Padre eppure distinto da Lui».[105]Efrem utilizza volentieri l’immagine del sole, della sua luce e del suo calore, che sono legati nell’unità.[106]Non smette di fare riferimento ai tre “nomi” ai quali corrisponde la realtà divina e nei quali «consistono il nostro battesimo e la nostra giustificazione».[107]Tutto ciò egli lo fa esplicitando bene il contesto della fede nicena, dal momento che cita “il glorioso sinodo”, riferendosi chiaramente a Nicea.[108]Altri teologi-poeti siriaci del V secolo, come Isacco d’Antiochia e Mar Balaï, hanno composto sermoni e canti in metrica rivolgendosi a Cristo stesso e glorificandolo esplicitamente con attributi divini: «Lode a Lui [Gesù Cristo] e a suo Padre e gloria allo Spirito Santo» – «Lode a Lui, l’Altissimo, che è venuto a riscattarci, lode a Lui, l’Onnipotente, il cui movimento del capo decide le sorti del mondo».[109] 

67. Ilario ha appreso il canto degli inni durante il suo esilio e l’ha introdotto in Gallia; Ambrogio confessa ugualmente d’aver adottato il “costume dell’Oriente”, durante i duri conflitti con gli ariani a Milano nel 386-87. Il Figlio è «sempre Figlio, come il Padre è sempre Padre. Altrimenti, come il Padre potrebbe portare tale nome se non avesse un Figlio?», sottolinea Ilario nell’inno Ante saecula qui manens, dove espone la «duplice nascita del Figlio, nato dal Padre, per il Padre che non conosce nascita, e nato dalla Vergine Maria, per il mondo». 

68. Contrariamente agli inni altamente teologici di Ilario, che non hanno trovato molto posto nella liturgia, gli inni di Ambrogio sono rapidamente divenuti celebri dovunque e hanno potentemente incoraggiato la fede, secondo l’intento che lo stesso Ambrogio loro attribuiva. Il suo inno del mattino Splendor paternae gloriae potrebbe essere considerato un commentario alla confessione di fede di Nicea. Particolarmente efficaci sono le strofe finali di alcuni inni, che sottolineano l’uguaglianza del Figlio col Padre: «Aequalis aeterno Patri», o che si rivolgono direttamente al Figlio: «Iesu, tibi sit gloria... cum Patre et almo Spiritu». In un inno molto breve, di cui Ambrogio è forse l’autore, la confessione del Dio unico in tre persone è quasi espressa in versi come una frase chiave per i fedeli: «O lux beata trinitas, et principalis unitas...». 

69. Oltre ad Ambrogio, è soprattutto Prudenzio (Aurelius Prudentius Clemens, 348-415/25) ad avere inni importanti per la cristologia. Il poeta spagnolo è particolarmente segnato dalla vera divinità e dalla vera umanità del Redentore, nelle quali si fonda la nostra nuova creazione

Cristo è forma del Padre, noi forma e immagine di Cristo;
siamo creati a somiglianza del Signore dalla bontà paterna,
e verrà nella nostra immagine Cristo dopo secoli.

Christus forma Patris, nos Christi forma et imago;
Condimur in faciem Domini bonitate paterna
Venturo in nostram faciem post saecula Christo
.[110]


Capitolo 3

Nicea come evento teologico
e come evento ecclesiale

70. Celebrare Nicea, significa cogliere come il Concilio resta nuovo, di quella novità escatologica inaugurata il mattino di Pasqua, che continua a rinnovare la Chiesa anche 1700 anni dopo l’evento di Nicea. In effetti si tratta di un evento in senso forte, di una svolta che si inscrive nella trama della storia con i suoi concatenamenti, ma ne è ugualmente un punto di concentrazione, che introduce una reale novità ed esercita un’influenza decisiva su ciò che segue. A seconda delle lingue, il termine “evento” rinvia a ciò che avviene, l’ad-ventus (avènement, avent, avvenimento), o ancora a ciò che proviene da (évènement, event), alla produzione di un fatto (acontecimiento) o all’apparizione di qualcosa di nuovo (Ereignis). Così, Nicea è l’espressione di una svolta che avviene, proviene, si produce, si mostra nel pensiero umano, indotta dalla Rivelazione del Dio uno e trino in Gesù, che feconda lo spirito umano donandogli contenuti nuovi e nuove capacità. È un “evento di Sapienza”. Allo stesso modo Nicea, che sarà qualificato subito dopo come primo Concilio Ecumenico, è ugualmente l’espressione di una svolta nel modo in cui la Chiesa si struttura e veglia sulla sua unità e sulla verità della sua dottrina mediante la stessa confessione di fede: è un “evento ecclesiale”. Evidentemente, in entrambi i casi, la novità si appoggia su un processo previo, su una realtà data, quella stessa che questa novità trasforma. L’evento di Sapienza presuppone la cultura umana, l’assume, per così dire, per purificarla e trasfigurarla. L’evento ecclesiale si appoggia sulla precedente evoluzione delle strutture della Chiesa dei primi secoli, a loro volta appoggiata sull’eredità ebraica e greco-romana.  

71. Ora, la fonte di questi due eventi rimanda a un altro evento, frutto di iniziativa divina, l’evento della Rivelazione di Dio, l’“evento Gesù Cristo”. Questi è la Novità per eccellenza: il Novus è il Novum.[111]Si tratta della Rivelazione stessa, mentre l’evento di Sapienza e l’evento ecclesiale fanno parte della trasmissione di questo dono primordiale.[112]In esso, Dio stabilisce l’alleanza con un popolo per fare alleanza con tutti i popoli, assume una umanità per assumere tutta l’umanità. Nicea è l’espressione e il frutto della Novità della Rivelazione, e per questo il Concilio del 325 offre un paradigma per ogni tappa del rinnovamento del pensiero cristiano, come anche delle strutture della Chiesa. Inoltre, poiché il Concilio di Nicea nasce dal Novum che è Cristo, potrà essere compreso in modo sempre rinnovato e fecondare continuamente la vita della Chiesa. Si tratta allora di esplorare in un primo tempo l’evento fontale, l’evento Gesù Cristo, per esaminare in seguito le sue conseguenze sul pensiero umano e sulle strutture della Chiesa. 

1. L’evento Cristo: «Dio nessuno l’ha mai visto. Il Figlio unigenito lo ha rivelato» (Gv 1,18)

1.1. Il Cristo, Verbo Incarnato, rivela il Padre 

72. Il Simbolo di Nicea è l’espressione, la formulazione in parole, di un accesso inaudito, garantito e pienamente salvifico a Dio, offerto dall’evento Gesù Cristo. Nell’incarnazione, vita, passione, risurrezione e ascensione al Cielo del Verbo consustanziale al Padre, testimoniata nelle Sacre Scritture e nella fede della Chiesa apostolica, il Dio semper major offre, di sua propria iniziativa, una conoscenza e un accesso a Se stesso che solo lui può donare, e che sono al di là di ciò che l’uomo può immaginare e anche sperare.[113]In effetti, il Nuovo Testamento trasmette alla Chiesa di tutti i tempi, nel corso dei secoli, la testimonianza che Gesù ha donato di Se stesso e che il Padre, nella luce e nella potenza dello Spirito Santo, ha confermato una volta per tutte[114]nella Pasqua della morte, risurrezione e ascensione al cielo del Figlio fatto carne, dell’effusione pentecostale dello Spirito, nella pienezza dei tempi, “propter nos et propter nostram salutem”. In tal modo, se è vero che «Dio nessuno lo ha mai visto», la fede della Chiesa attesta che Gesù, «Figlio unico del Padre, lo ha rivelato» (Gv 1,18; cf. Gv 3,16.18 e 1Gv 4,9). Questa testimonianza si riassume nella risposta che Gesù diede all’apostolo Filippo, che gli domandava: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gesù gli risponde:

Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre?” Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere (Gv 14,8-10).

73. Se Gesù ci fa vedere il Padre, tutto in lui è accesso al Padre. Cristo, nella sua umanità fragile e vulnerabile, è l’espressione vera di Dio Padre: vedere lui, è vedere il Padre (cf. Gv 14,9).[115]Ne deriva che Dio non si è dapprima nascosto sul Golgota nell’impotenza del Crocifisso per poi manifestarsi, il mattino di Pasqua, di persona, infine onnipotente. Al contrario, l’amore di Gesù Cristo che si lascia crocifiggere e che, soffrendo la morte fisica, discende fino al luogo in cui il peccatore è prigioniero del peccato (lo šəʾôl ossia gli inferi), è la rivelazione dell’amore del Dio trinitario che non opera mediante la forza, ma che è proprio così più forte della morte e del peccato. È appunto davanti alla croce che Marco fa dire al centurione pagano: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39). Come affermava Papa Benedetto XVI nel suo libro su Gesù:

La Croce è la vera “altezza”. È l’altezza dell’amore “fino alla fine” (Gv 13,1); sulla croce Gesù è all’“altezza” di Dio, che è Amore. Lì si può “conoscerlo”, si riconoscere l’“Io Sono”. Il roveto ardente è la Croce. La suprema pretesa di rivelazione, l’“Io Sono” e la Croce di Gesù sono inseparabili.[116] 

74. La conoscenza di Dio attraverso Cristo non offre un semplice contenuto dottrinale ma inserisce nella comunione salvifica con Dio, poiché fa immergere, per così dire, nel cuore stesso della realtà, o meglio, della persona da conoscere e amare. Il prologo del Vangelo di Giovanni è un’espressione della più alta contemplazione del mistero di Dio che ci è stato manifestato in Gesù perché noi entrassimo, nella grazia dello Spirito Santo effuso «senza misura» (Gv 3,34), nella vita stessa del Dio trinitario rivelato dal Logos. La figura di questo Logos fa eco non solo al Logos divino intravisto dal pensiero greco, ma anche, e più profondamente, all’eredità veterotestamentaria della Parola di Dio, il Dābār testimoniato dall’Antico Testamento, poiché già la rivelazione fatta a Israele e trasmessa nell’Antico Testamento introduce in una conoscenza di Dio radicalmente nuova, che inaugura questo avvenimento di Rivelazione. Questo Logos, il Figlio, “Dio da Dio”, che è fin dal principio con Dio, come la sua Parola che lo esprime in tutta verità, è lui stesso Dio come il Padre. Nella pienezza dei tempi, il Logos «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14), in modo che coloro che lo accolgono ricevono «il potere (exousia) di diventare figli di Dio» (Gv 1,12). Ammettendo gli esseri umani alla piena comunione con lui, il Logos fatto carne li ha in tal modo «resi partecipi della natura divina».[117] 

75. Questa conoscenza e questa comunione inaudite e autentiche di e con Dio operano anche una comunione salvifica coi fratelli e le sorelle in umanità, amati da Dio, poiché l’evento Gesù Cristo è inseparabilmente comunione con Dio e con ogni essere umano. La fede della Chiesa apostolica testimonia questa comunione in Cristo e mediante Cristo, nel grembo della comunione trinitaria:

Colui che era fin da principio, colui che noi abbiamo sentito, colui che abbiamo veduto con i nostri occhi, colui che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato, cioè il Verbo della vita [...], lo annunziamo a voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi. La nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo. E noi scriviamo queste cose perché la nostra gioia sia piena (1Gv 1,1.3-4).

La tradizione teologica sottolinea che la carità ci fa amare Dio e il nostro prossimo, in quanto è amico di Dio.[118]Noi possiamo pensare che le tre virtù teologali ci introducono in una conoscenza di Dio e in una comunione con Lui piene e radicalmente nuove. Ma, secondo l’accesso rinnovato a Dio che esse offrono, vengono donati in aggiunta un cammino di fede verso la fraternità, una speranza inaudita nel prossimo e quella carità che perdona tutto e porta a donare se stessi.

1.2. «Ora, noi abbiamo il pensiero (νοῦς) di Cristo» (1Cor 2,16): analogia della creazione e analogia della carità 

76. L’evento Gesù Cristo, donandoci accesso a Dio in una maniera incomparabile, suscita e implica a un tempo una “via” di accesso che è essa stessa nuova e unica: accogliere nella fede e con la propria intelligenza il Simbolo, o ancor meglio, accogliere il Dio che vi si manifesta, fa entrare nello sguardo di Cristo consustanziale al Padre, nel “nous” ovvero nella stessa mens di Cristo e nella sua relazione col Padre e con gli altri. «Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo (noun Christou)», esclama san Paolo (1Cor 2,16).[119]È un grido di ammirazione. Qui, ancora una volta, Nicea mostra l’immensità del dono di Dio. Ma Nicea indica ugualmente che si tratta dell’unica via per avere accesso a ciò che il Simbolo esprime, sia nella sua res che nella sua lettera. Noi non possiamo contemplare il Dio di Gesù Cristo, la redenzione che ci è offerta, la bellezza della Chiesa e della vocazione umana, e parteciparvi, senza “avere il pensiero di Cristo”. Non semplicemente conoscendo Cristo, ma entrando nella stessa intelligenza di Cristo, nel senso di un genitivo soggettivo. Non si può aderire pienamente al Simbolo né confessarlo con tutto il proprio essere senza «la sapienza che non è di questo mondo», «rivelata dallo Spirito Santo», Colui che solo «scruta le profondità di Dio» (cf. 1Cor 2,6.10):

Nella fede, Cristo non è soltanto Colui in cui crediamo, la manifestazione massima dell’amore di Dio, ma anche Colui al quale ci uniamo per poter credere. La fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere. […] La vita di Cristo – il suo modo di conoscere il Padre, di vivere totalmente nella relazione con Lui – apre uno spazio nuovo all’esperienza umana e noi vi possiamo entrare.[120] 

77. Ciò è possibile perché Cristo vede il Padre attraverso i suoi occhi umani e ci invita a entrare nel suo sguardo. D’altronde, questo cammino richiede una profonda trasformazione del nostro pensiero, della nostra mens, che deve passare attraverso una conversione e una sovra-elevazione: «Non uniformatevi al mondo presente, ma trasformatevi continuamente nel rinnovamento della vostra coscienza» (Rm 12,2). È proprio questo ciò che apporta l’evento Cristo: l’intelligenza, la volontà, le capacità d’amare sono letteralmente salvate dalla Rivelazione professata a Nicea. Esse sono purificate, orientate, trasfigurate. Esse rivestono una forza nuova, forme e contenuti inauditi. Le nostre facoltà non possono entrare in comunione col Cristo se non venendo conformate a Lui, in un processo che rende i credenti «conformati (symmorphizomenos)» (Fil 3,10) al Crocifisso Risorto fin nella loro mens. Questo pensiero nuovo si caratterizza per il fatto di essere inseparabilmente conoscenza e amore. Come sottolinea Papa Francesco: «San Gregorio Magno ha scritto che “amor ipse notitia estˮ, l’amore stesso è una conoscenza, che porta in sé una logica nuova».[121]È una conoscenza misericordiosa e piena di compassione, tanto la misericordia è la sostanza del Vangelo[122] e riflette il carattere stesso del Dio di Gesù Cristo, professato nel Simbolo di Nicea. La mens rinnovata implica una comprensione dell’analogia rivisitata alla luce del mistero di Cristo. Essa tiene insieme ciò che noi potremmo chiamare l’“analogia della creazione”, in virtù della quale si può percepire la presenza divina nella pace dell’ordine cosmico,[123]e ciò che potremmo chiamare “l’analogia della carità”.[124]Questa analogia, che potremmo definire capovolta, di fronte al mistero dell’iniquità e della distruzione ma alla luce del mistero più forte della passione e risurrezione di Cristo, riconosce la presenza del Dio d’amore al cuore della vulnerabilità e della sofferenza. Questa sapienza di Cristo è descritta nella Prima lettera ai Corinzi come quella che «ha reso follia la sapienza di questo mondo»:

Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo. La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione (1Cor 1,17-21).

Questa conversione e questa trasfigurazione non possono accadere senza la grazia. L’intelligenza umana si rivela costitutivamente ordinata alla grazia e si appoggia sulla grazia per essere pienamente se stessa, così come accade per la persona umana.[125]È ciò che permette di comprendere come le facoltà umane, consegnate a se stesse e trasfigurate dall’evento Gesù Cristo, sono portate al loro compimento grazie alla loro realizzazione nei modi della fede, della speranza e della carità, anticipazioni in questo mondo della vita nella gloria: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). 

1.3. L’ingresso teologale nella conoscenza del Padre attraverso la preghiera del Cristo 

78. Come entrare nel “pensiero di Cristo” che è offerto dall’evento Gesù Cristo? Poiché Gesù Cristo non è un semplice insegnante o una guida, bensì la rivelazione e la verità stessa di Dio, i suoi destinatari sono più che semplici ricettori di un’istruzione. Poiché la persona del Risorto non è un oggetto del passato, colui che vuole comprendere il mistero intimo di Gesù, la rivelazione di Dio nella sua umanità, deve lasciarsi coinvolgere nella sua relazione di comunione col Padre divino. Ciò avviene in virtù della vita teologale, grazie alla lettura delle Scritture nella Chiesa, grazie alla preghiera personale e liturgica, e soprattutto grazie all’Eucaristia.

79. La partecipazione per grazia alla preghiera di Cristo costituisce la via regale del riconoscimento di Cristo che svela la conoscenza del Padre («Il Padre mio e Padre vostro», in Gv 20,17). Joseph Ratzinger / Papa Benedetto XVI afferma: «Poiché la preghiera è il centro della persona di Gesù, è partecipando alla sua preghiera che noi possiamo conoscerlo e comprenderlo».[126]In altri termini, la conoscenza di Cristo comincia con l’ingresso nell’atto di preghiera di Gesù da parte di colui che lo riconosce: «Dove non si dà rapporto con Dio, anche Colui che nel più profondo non è altro che rapporto con Dio, con il Padre, rimane incomprensibile».[127] Ciò che vale per ogni credente vale anche per la Chiesa nel suo insieme. Solo in quanto comunità di preghiera inscritta nella relazione di Gesù col Padre la Chiesa è il “noi” che riconosce Cristo tale quale è evocato in Gv 5,18-20[128] e in 1Gv 3,11. Si tratta, di nuovo, della trama delle affermazioni cristologiche del Simbolo: «La fondamentale espressione dogmatica “Figlio consustanziale”, nella quale si può riassumere tutta la testimonianza degli antichi concili, non fa altro che tradurre il fatto della preghiera di Gesù in linguaggio filosofico-teologico».[129] La fede espressa a Nicea nasce dalla relazione di Gesù col Padre e vi fa entrare, per offrire agli esseri umani e alla Chiesa la partecipazione alla conoscenza e alla comunione di Gesù col Padre e con lo Spirito Santo.  

2. L’evento di Sapienza: una novità per il pensiero umano

2.1. La Rivelazione feconda e allarga il pensiero umano

80. Formulando la fede cristologica e trinitaria, il Simbolo di Nicea si inscrive in un movimento di fecondazione del pensiero umano, di “dilatazione della ragione”,[130]operato dalla Rivelazione nel suo processo di trasmissione. In effetti, l’accesso incomparabile a Dio che è l’evento di Gesù Cristo, come anche la partecipazione al pensiero (phronēsis) e alla preghiera di Cristo, non possono non avere un impatto determinante sul pensiero e il linguaggio umani. Si assiste quindi ad un “evento di Sapienza”, in virtù del quale pensiero e linguaggio devono essere dilatati e lo sono per opera della Rivelazione, in modo tale che essa possa trovare in essi la sua espressione. In questo medesimo movimento, essi testimoniano di essere disponibili a lasciarsi condurre al di là di se stessi. Nella storia di questo evento di Sapienza, Nicea costituisce una svolta di prima grandezza, «una via nuova e vivente» (Eb 10,20), della quale Pavel Florensky aveva colto l’importanza decisiva, esprimendola con parole vigorose:

Non si può ricordare senza devoto tremore e santo stupore quel momento, infinitamente significante e unico per importanza filosofica e dogmatica, in cui tuonò a Nicea per la prima volta lo Ὁμοούσιος (omooúsios). Non si trattava di una questione teologica particolare, ma della definizione radicale che la Chiesa di Cristo dava a se stessa. Con questo solo termine vennero espressi non solo il dogma cristologico, ma anche una valutazione spirituale delle leggi razionali del pensiero: il razionalismo fu colpito a morte e per la prima volta fu proclamato urbi et orbi un principio nuovo per l’attività della ragione.[131]

Il Logos che è Cristo incarnato, Figlio del Padre nella comunione dello Spirito Santo, manifesta che è proprio lui la misura di ogni logos umano, che egli può vivificare e dilatare, ma di cui può essere anche il giudice, mettendolo in crisi (krisis), nel senso stretto del termine. In effetti, è stupefacente osservare come Atanasio, in un giudizio lapidario, consideri come il rifiuto da parte di Ario della pienezza della figura di Cristo costituisca una negazione della ragione, del logos tout court: «Negando il Logos di Dio, giustamente non possono che diventare incapaci di ragionare».[132] In fondo, l’evento di Sapienza prodotto dall’evento Gesù Cristo introduce la ragione e il pensiero umani nella loro più alta e più vera vocazione. Li ridona per così dire a se stessi. Così che, come vedremo, l’homooúsios non è solo un caso esemplare di interculturalità, ma appartiene a un evento di sapienza prototipico, inaugurale e fondatore della Chiesa nella sua apostolicità.

81. L’evento Gesù Cristo rende possibile una nuova ontologia, misurata dalle dimensioni del Dio uno e trino e del Logos incarnato. La ragione umana si era già lasciata aprire e penetrare dal mistero, reso accessibile dalla rivelazione della creazione ex nihilo (cf. 2Mac 7,28; Rm 4,17), della trascendenza ontologica di un Dio che è comunque più intimo ad ogni creatura di quanto essa lo sia a se stessa.[133]Tale ragione si lascia di nuovo rinnovare da cima a fondo, quando le viene comunicato il senso profondo inscritto in ogni cosa dal mistero del Dio trinitario che è amore (1Gv 4,8.16) – alterità, relazione, reciprocità, mutua interiorità si manifestano ormai come la verità ultima e le categorie strutturanti l’ontologia. L’essere si ritrova illuminato e si mostra ancor più ricco di quanto non sembrasse nei percorsi filosofici anteriori, per quanto profondi e complessi essi siano stati. Inoltre, Nicea, che parte dalla questione cristologica e soteriologica per esporre il Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, riflette bene il modo in cui la fenomenalità cristologica motiva l’inventio della dottrina trinitaria, con la dinamica inscritta tra l’ordine della scoperta, cristologica e pneumatologica, posta nel suo cuore, e l’ordine della realtà trinitaria che lo struttura. Nicea accelera l’assunzione da parte della riflessione cristiana della teo-logia ovvero dell’esplorazione della “Trinità immanente”. Dal momento che il mistero di Cristo, realizzato nella storia e in un’umanità singolare, dona l’accesso a Dio, la materia e la carne, il tempo e la storia, la novità, la finitudine e la stessa fragilità guadagnano le loro credenziali di nobiltà e la loro consistenza per dire la verità dell’essere. In fondo, anche l’essere, grazie alla Rivelazione, si rivela semper major.

82. L’evento di Sapienza implica, evidentemente, un rinnovamento dell’antropologia, nella misura in cui l’evento Gesù Cristo getta una luce nuova sull’essere umano. Evochiamo succintamente questi aspetti sviluppati nel primo capitolo del presente documento.[134] L’antropologia della Bibbia obbliga a rivisitare la concezione dell’essere umano a partire dalla nobiltà della materia e della singolarità. Il Creatore della Genesi ha voluto ciascun individuo e l’ha «disegnato sulle sue palme» (Is 49,16). Inoltre, Gesù chiama ogni essere umano suo fratello e sorella, poiché l’evento dell’incarnazione ha nobilitato ogni essere umano, individualmente, in modo insuperabile e inalienabile. Quando il Simbolo di Nicea-Costantinopoli dichiara che Gesù Cristo, in quanto vero uomo, è il Figlio di Dio e, in quanto tale “uguale” a Dio Padre, ogni essere umano – qualunque sia la sua origine, la sua nazione, i suoi talenti o la sua formazione – si vede attribuita una dignità che obbliga l’intelligenza umana a pensare in maniera nuova, a superare i limiti di una visione soltanto naturale dell’umano. Esiste una dignità propriamente cristologica degli esseri singolari.

83. Analogamente a ciò che accade quando si tratta di entrare nel “pensiero di Cristo”, l’allargamento dell’ontologia e dell’antropologia implica una conversione e può imbattersi nella resistenza del pensiero, abituato ai suoi limiti. L’evento di Sapienza obbliga a tenere in considerazione non solo “l’analogia della creazione” ma anche “l’analogia della carità”. Di fronte alla kenosi dell’incarnazione e della passione di Cristo, davanti alla sofferenza e al male che toccano l’umanità, lo spirito umano si imbatte nei suoi limiti. S’impone la questione: perché il Padre onnipotente sembra dapprima aver osservato dall’alto la via crucis del Figlio sofferente e non ha agito se non dopo la sua morte? Perché non ha esaudito immediatamente la preghiera dell’Orto degli Ulivi, presentata col sudore di sangue per la paura: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice!» (Mt 26,39b)? Di fatto, l’uguaglianza d’essenza col Padre del Figlio incarnato e crocifisso, professata nel Simbolo di Nicea, invita il pensiero umano a convertirsi e a convertire il significato del termine “onnipotenza”. Il Dio trinitario non è prima di tutto onnipotenza e solo in seguito amore: la sua onnipotenza è piuttosto identica all’amore che si è manifestato in Gesù Cristo. In effetti, ciò che Gesù ha vissuto, tale quale è attestato nel Nuovo Testamento è – per l’azione dello Spirito – la rivelazione nella storia, sul piano dell’economia trinitaria, della relazione e della realtà intratrinitarie immanenti in Dio.[135]Dio è veramente tale quando la sua onnipotenza d’amore non impone niente, ma piuttosto, dona al suo partner dell’alleanza, l’uomo, la capacità di legarsi a Lui in modo libero e gratuito. Dio corrisponde al suo proprio essere quando non converte con la forza l’umanità pervertita dal peccato, ma la riconcilia con sé attraverso gli avvenimenti di Betlemme e del Golgota. In tutto questo, i nostri modi umani di vedere sono chiamati a lasciarsi trasfigurare profondamente dal Cristo: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri» (Is 55,8; si veda anche Mt 16,23).

2.2. Un evento culturale e interculturale

84. Se l’evento Gesù Cristo rinnova il pensiero ricreandolo secondo un evento di Sapienza, esso rinnova e purifica, feconda e dilata ugualmente la cultura umana. Di fatto, il Concilio di Nicea, che traduce in parole la fede cristiana per la Chiesa diffusa tra tutte le nazioni nella lingua greca e adottando un termine sorto dalla filosofia greca, costituisce indubbiamente un evento culturale. È necessario che la fede assuma la cultura umana, come assume la natura umana, in quanto sia la natura che la cultura sono elementi costitutivi dell’essere umano, e perciò sono inseparabili. «L’essere umano è sempre culturalmente situato»,[136]ci ricorda Papa Francesco. Poiché l’uomo è un essere relazionale e sociale che si inscrive nella storia, è attraverso la cultura che egli arriva alla pienezza della sua umanità.[137]Per di più, la Rivelazione, che stabilisce la comunione tra Dio e l’essere umano, ha bisogno di destinatari che abbiano una loro consistenza propria per poterla accogliere in piena libertà e responsabilità. Da qui l’elezione del popolo delle dodici tribù di Israele, cha ha dovuto distinguersi da tutti gli altri popoli e imparare laboriosamente a separare, dapprima per conto proprio, la verità dall’errore. Da qui Gesù Cristo, in cui il Figlio di Dio si fa veramente uomo, un Ebreo, un Galileo, la cui umanità porta i segni culturali del percorso storico del suo popolo. Da qui la Chiesa, costituita a partire da tutte le nazioni. Così, appoggiandosi sul principio tomasiano per il quale «la grazia suppone la natura», e ampliandolo, Papa Francesco aggiunge: «La grazia presuppone la cultura e il dono di Dio si incarna nella cultura di coloro che lo ricevono».[138]

85. Questa assunzione della cultura da parte della Rivelazione implica una certa reciprocità di influenza tra le due, malgrado la loro asimmetria. Come lo spirito umano è capace di essere trasfigurato, la cultura ha per vocazione di lasciarsi illuminare dalla Rivelazione, fino a poter accogliere, al prezzo di una conversione, la sapienza del Crocifisso: «La forza del Vangelo [deve impregnare] i modi di pensare, i criteri di giudizio, le norme d’azione; in una parola, è necessario che tutta la cultura dell’uomo sia penetrata dal Vangelo».[139]Tuttavia, la fede non è un elemento estraneo alle culture nelle quali è vissuta, poiché, dopo Pentecoste, la fede cristiana comporta la certezza che non vi è una sola cultura umana che non attenda e non speri di trovare il suo compimento dalla visita del Verbo di Dio, il quale peraltro ha sparso i semina Verbi[140]in tutte le culture, nell’attesa della sua visita. Per questo incontro le culture diventano pienamente se stesse. È dunque dall’interno, a partire dalla loro apertura verso ciò che è vero, buono e bello, che la Rivelazione le purifica e le eleva. Ma allora, le culture e le lingue assunte e trasfigurate dalla novità della rivelazione permettono d’arricchire e di precisare l’espressione della fede. Questa reciprocità la si è potuta constatare attraverso i secoli nella fecondazione della lingua, della poesia, dell’arte da parte della Bibbia, la cui comprensione si trova a sua volta illuminata “di rimando”, per la sua diffrazione in altre parole e visioni del mondo. È precisamente ciò che accade a Nicea nell’impiego dell’homooúsios, che precisa la comprensione che ha la Chiesa della filiazione di Gesù Cristo, mentre trasfigura il termine che assume.

86. In questa assunzione della cultura, un posto unico e provvidenziale deve essere riservato al rapporto tra la cultura ebraica e quella greca. L’homooúsios apparirà qui come il frutto della sintesi particolarmente forte che si è prodotta tra la cultura semitica, già toccata e trasfigurata dalla Rivelazione, ma anche modellata dagli incontri e dai disaccordi coi popoli di altre culture, – Egiziani, Cananei, Mesopotamici, Romani –, e il mondo greco. Durante più di tre secoli, prima della nascita di Gesù e fino al terzo secolo della nostra era, l’insegnamento e la vita intellettuale del giudaismo ellenistico si erano espressi non solo in aramaico, ma anche in greco, con la Settanta come centro di gravità. L’insegnamento di Gesù è stato consegnato e trasmesso in greco per poter comunicare il Vangelo a tutti nella lingua universale del bacino del Mediterraneo, ma anche perché il Nuovo Testamento si inscrivesse nella storia del rapporto del popolo ebreo con la cultura e la lingua greche. Come nella Settanta, gli influssi avvengono nei due sensi. Per esempio, il panta ta ethnē di Mt 28,19 traduce l’antica idea ebraica di tutte le nazioni che vengono a Gerusalemme, mentre măthētēs (discepoli-allievi) traduce l’aramaico talmudim. Reciprocamente, gli evangelisti hanno fatto ricorso al greco dei tribunali per interpretare il processo e la passione di Gesù, l’autore degli Atti si ispira alla poesia epica dell’Odissea per narrare i viaggi di Paolo e quest’ultimo fa spesso eco a elementi della filosofia stoica, e allo stesso modo certi passaggi del Nuovo Testamento portano tracce di un vocabolario ontologico greco.[141]È quindi in modo naturale che il cristianesimo nascente continua questa sintesi del pensiero semitico e greco, in dialogo con autori giudaico-ellenistici e greco-romani, per interpretare le Scritture e sviluppare il proprio pensiero. La ricchezza dell’espressione greca del Giudaismo e del Cristianesimo può dunque far pensare che vi sia una dimensione fondatrice in questo innesto della cultura greca sulla cultura ebraica, che permetterà di esplicitare in greco l’unicità e l’universalità della salvezza in Gesù Cristo di fronte alla ragione filosofica.[142]Evidentemente, una vasta porzione di cristiani, in particolare al di fuori delle frontiere dell’Impero Romano, che non apparteneva a questa area culturale, ha sviluppato la sua genialità propria a servizio dell’espressione della fede nel mondo di lingua siriaca, dell’Armenia e dell’Egitto, ma anch’essa si è confrontata col pensiero greco, lasciandosene ispirare e prendendo da esso le sue distanze.

87. Il Concilio di Nicea non è semplicemente un evento di assunzione e di fecondazione della cultura da parte della Rivelazione, ma è anche l’occasione di incontri interculturali. Ora, questo incontro delle culture è anch’esso un aspetto maggiore dell’evento di Sapienza che l’evento di Gesù Cristo suscita, in quanto la Rivelazione collega e mette in comunione le culture tra loro, rendendo possibile il più alto grado di interculturalità. Lo scambio e la fecondazione mutua fa già parte di tutte le culture, che non esistono se non nel processo in cui sono poste in contatto le une con le altre, e così si evolvono, si arricchiscono e talvolta si oppongono e si mettono in pericolo reciprocamente. Tuttavia, la potenza di rinnovamento della Rivelazione apporta a queste relazioni un salto qualitativo in intensità. Da un lato, donando accesso alla fonte trascendente del vero e del bene, alla radice dell’universalità dello spirito umano che rende possibile la loro comunicazione,[143] essa apre in pienezza lo spazio comune per i loro incontri e i loro scambi. Dall’altro lato, l’evento Gesù Cristo è potenza di conversione e di liberazione di fronte alle forze di chiusura e di opposizione all’altro, contenute nella vita dei popoli e delle culture. Solo una cultura che sia per così dire “salvata” può superarsi senza perdersi e aprirsi alle altre culture per esserne arricchita come pure per arricchirle. L’ascolto della Parola di Dio e della Tradizione, cioè della Parola dell’Altro, abitua, per così dire, lo spirito e le culture all’ascolto degli altri.[144]Tutto ciò porta non a una giustapposizione esteriore e povera delle culture, né a una fusione in un tutto indistinto, ma a una interculturalità salvata ed elevata in cui ogni cultura si supera venendo fortificata nella sua consistenza propria, in virtù di una sorta di pericoresi delle culture.[145]Per questo si tratta di tenere insieme la reale novità e la “sopra-elevazione” delle culture, come il fatto che chi accetta il Vangelo di Cristo preserva la sua identità culturale e vi si trova fortificato:[146]«I cristiani, infatti, non sono distinti dagli altri uomini, né per territorio, né per lingua né per modi di vestire… adattandosi agli usi del paese nel vestito, nel cibo e in tutto il resto del vivere, danno esempio di una loro forma di vita sociale meravigliosa, e che, a confessione di tutti, ha dell’incredibile».[147]

88. L’interculturalità è, di fatto, la manifestazione di una problematica più profonda, che ne costituisce la base: il disegno divino dell’unità dei popoli e l’arduo cammino di questa unità nella diversità. Si tratta di uno dei fili conduttori principali della storia biblica della salvezza. Il racconto tipico della Torre di Babele in Gn 11,1-9 sottolinea la tensione tra la ricchezza della molteplicità delle lingue, da un lato, e la capacità dell’essere umano di dissolvere l’unità della casa comune, di confondere il logos dell’oikos. La chiamata di Abramo, la promessa a lui fatta che in lui saranno «benedette tutte le famiglie della terra» (Gn 12,3), è la prima risposta salvifica di Dio. I profeti prolungano questa promessa per i popoli della terra annunciando l’unità di tutte le nazioni attorno al popolo eletto e alla sua Legge.[148]Il Nuovo Testamento presenta questa unità come realizzata nel Messia, colui che col suo sangue e nella sua carne «abbatte il muro di separazione, cioè l’inimicizia» tra Israele e le nazioni, per «creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo» (Ef 2,14.15b). Così, le nazioni sono associate al popolo dell’alleanza, in quanto sono chiamate «a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa» (Ef 3,6). Tutto ciò è possibile in Cristo, l’universale singolare, che tiene insieme alterità e identità, e che assume tutta l’umanità assumendo una umanità genealogicamente e culturalmente situata. L’antitipo di Babele, la Pentecoste delle lingue di fuoco in At 2,1-18, è la manifestazione e la realizzazione di questa potenza di comunione del logos umano, che procede ultimamente dal Logos di Dio.[149]Non è nell’unità fusionale di un’unica lingua che lo Spirito Santo opera la comunione di questi ebrei di lingue e culture differenti, ma ispirando la comprensione dell’altro, immagine di ciò che sarà la Chiesa, che raduna tutte le nazioni, tutta tesa verso il suo compimento, quando i «144000 segnati col sigillo» delle Dodici tribù di Israele e «una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» realizzeranno la piena comunione escatologica dell’umanità nella nuova Gerusalemme (Ap 7,4.9).

89. La dimensione interculturale di cui Nicea è l’espressione fondatrice può anche essere considerata come un modello per l’epoca contemporanea in cui la Chiesa è presente in una varietà di aree culturali: culture asiatiche, africane, latino-americane, oceaniche, nuove culture popolari europee, senza contare le nuove forme culturali portate dalla rivoluzione digitale e dalle tecnoscienze. Tutti questi universi culturali contemporanei sembrano lontani dalla cultura greca antica che ha accolto in maniera inaugurale la forma di inculturazione dogmatica realizzata nell’evento di Nicea. Da un lato, si tratta in effetti di sottolineare che è proprio in queste categorie greche che si è espressa in modo normativo la Chiesa e che queste sono dunque solidali per sempre col deposito della fede.[150]D’altra parte, tuttavia, nella fedeltà ai termini sorti in quest’epoca e trovando in essi la sua radice viva, la Chiesa può inspirarsi ai Padri di Nicea per cercare oggi espressioni significative della fede nelle differenti lingue e nei vari contesti. Con la grazia dello Spirito Santo, le comunità cristiane, i loro teologi e pastori, in effettiva comunione col Magistero, sono chiamati a realizzare, nelle situazioni culturali e con gli idiomi loro propri, un lavoro analogo a quello di un tempo per affermare l’unità radicale del Figlio col Padre. Nicea resta un paradigma di ogni incontro interculturale e della possibilità di ricevere o di forgiare modi autenticamente nuovi di esprimere la fede apostolica.

2.3. La fedeltà creativa della Chiesa e il problema dell’eresia

90. La percezione di Nicea come momento dell’evento di Sapienza suscitato dall’evento Gesù Cristo permette di rileggere con maggior finezza la storia delle eresie alle quali risponde il Concilio. L’eresia, che si discosta intenzionalmente dalla testimonianza apostolica e ne mutila l’integrità, è percepita dai Padri come la novità che abbandona il cammino della regula fidei e della traditio e, perciò, si allontana dalla realtà storica di Cristo. Il rimprovero fatto ad Ario è precisamente quello di introdurre una novità.[151]Eppure, rispetto al novum inaugurato dall’evento Gesù Cristo può essere illuminante considerare l’eresia anche come una resistenza fondamentale, passiva e attiva, alla novità soprannaturale che apre il pensiero e le culture umane al di là di loro stesse – una novità di grazia di cui è testimonianza il nuovo linguaggio della fede espressa dall’homooúsios. È pressoché inevitabile che l’essere umano, con tutte le sue facoltà, con tutto il suo essere, opponga resistenza a questa novità inaudita che lo converte e lo trasfigura. Si tratta di una resistenza e dunque di un peccato dell’«uomo vecchio» (Rm 6,6; si veda anche Ef 2,15), della difficoltà a concepire interamente e ad accettare l’immensità di Dio e del suo amore, così come l’immensa dignità dell’essere umano. Il cammino lento e a tentoni, ma prudente, che intrapresero i primi tentativi di comprendere il senso del mistero del Crocifisso e della sua gloriosa risurrezione, il passaggio dal kerigma apostolico ai primi passi di ciò che oggi chiamiamo teologia, è accompagnato da tensioni costanti e da una pluralità di opinioni che si discostano dalla pienezza della testimonianza apostolica e che sono designate col termine eterodossia, come pure eresia.

91. Piuttosto che ripercorrere in modo esaustivo le eresie dei primi secoli, mettiamo in luce questa resistenza al novum della Rivelazione facendo qualche esempio. Spesso considerata come la prima eresia, la dottrina razionalista degli gnostici fa perdere il realismo del mistero dell’incarnazione mediante il docetismo e, riducendo la storia santa a una serie di racconti mitologici, giunge a negare l’integralità della salvezza umana, relegandola sul piano di una spiritualità eterea. Ireneo, nella sua battaglia contro la gnosi, sottolinea che si tratta di una resistenza a concepire Dio come capace e desideroso di entrare di persona nella storia, di unirsi fino in fondo all’umanità, fino a farsi realmente uomo e conoscere la morte. Si tratta di una resistenza a credere nella bellezza del singolare, della materia e della storia, una bellezza rivelata proprio nell’evento Gesù Cristo e a cui rendono testimonianza l’Antico e il Nuovo Testamento. I Padri non esitano in seguito a ricorrere a concetti e sistemi di pensiero ricavati dalla filosofia greca per affinare il pensiero cristiano. Facendo ciò, sono costretti a far esplodere sistemi di pensiero incapaci da soli di permettere di concepire che il Logos si possa fare carne, che il Logos o il Nous (νοῦς), che esprimono la divinità, siano uguali alla fonte da cui provengono, o che sia possibile una molteplicità che non contraddica l’unità divina e che sia proprio nel grembo di questa unità. I sostenitori delle eresie cristologiche e trinitarie sono coloro che non sono stati capaci di lasciare che fossero dilatati dall’immensità inaudita del nous (νοῦς) Christou i sistemi di pensiero di partenza, quale che fosse la loro ricchezza e il loro apporto reale nel pensare la dottrina cristiana. È ancora la medesima difficoltà che ritroviamo nei dibattiti delle correnti cristologiche in Oriente lungo il III secolo, che preparano in certo senso la via all’eresia ariana. Occorre evitare di fare una caricatura delle posizioni dei protagonisti di queste correnti, poiché sono anzitutto dei pensatori individuali, ma tutti si confrontano con le medesime difficoltà a mantenere la ricchezza trinitaria del Dio Uno e la radicalità della piena assunzione di un’umanità singolare da parte del Figlio uguale al Padre: alcuni devono affrontare una teologia trinitaria di tendenza subordinazionista e con una cristologia che rischia di essere docetista, mentre altri devono resistere a forme di modalismo trinitario e di adozionismo. Sono quindi sempre le medesime resistenze provenienti dai vecchi schemi di pensiero che si esprimono, qualche decennio prima di Nicea, nell’insegnamento di Ario: per lui è inconcepibile che il Figlio, altro dal Padre, quel Figlio che nasce e muore, possa essere coeterno e uguale a Dio, senza compromettere l’unità e la trascendenza divine e dunque la redenzione degli uomini.

92. Queste resistenze sono certo comprensibili, in quanto sono umane. Testimoniano in negativo l’incredibile luce proiettata sulla percezione di Dio e della vocazione divina dell’essere umano dall’evento Gesù Cristo e della non meno incredibile trasfigurazione del pensiero e della cultura umana dispiegata nell’evento di Cristo e nell’evento di Sapienza che ne deriva. Nulla di ciò che è umano viene abolito, ma l’accesso all’immensità della verità di Dio esige l’autorivelazione da parte di Dio e la grazia che converte ed eleva le facoltà e la realizzazione dell’essere umano. In un certo senso, la resistenza delle eresie ci permette di vedere Nicea in tutta la sua forza di novità incommensurabile.

3. L’evento ecclesiale: il Concilio di Nicea, primo Concilio Ecumenico

3.1. La Chiesa si inscrive con la sua natura e le sue strutture nell’evento Cristo

93. Il Concilio di Nicea non è solo un evento nella storia della dottrina, ma può senz’altro essere compreso come un evento ecclesiale, corrispondente a una tappa fondamentale nel processo di strutturazione della Chiesa. Nel corso di un lungo cammino che ha fatto seguito a Nicea, il “Concilio Ecumenico” è diventato il faro di orientamento per le decisioni dottrinali e giuridiche di tutta la Chiesa, il suo luogo di comunione e di autorità ultima. Vi si potrebbe vedere, dal punto di vista della sua strutturazione, una svolta che orienta il seguito della vita della Chiesa, simile a ciò che il Simbolo di Nicea rappresenta dal punto di vista dell’accesso a Dio (evento Gesù Cristo) e del pensiero umano (evento di Sapienza)? Sarebbe questo il caso se il Concilio Ecumenico in quanto tale potesse essere considerato come il frutto e l’espressione specificamente ecclesiale dell’evento Gesù Cristo.

94. Fin dai suoi inizi, la Chiesa ha coscienza di essere inscritta nella continuità del popolo eletto, assemblea convocata (qāhāl/ekklēsia – cf. Dt 5,22) per vivere la Torah rivelata e per rendere un culto al Signore suo Dio. Essa si considera anche come «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli» (1Pt 2,9) del Dio di Israele. Negli Atti degli Apostoli essa è presentata come una comunità del discernimento della volontà di Dio di cui attore principale è lo Spirito Santo,[152]guidata da uomini che prolungano il ruolo dei dodici apostoli, «testimoni della Risurrezione» (At 1,22). In certo senso, è nella comunità ecclesiale, in quanto Corpo di Cristo, che si possono discernere i «sentimenti di Cristo» (Fil 2,5; si veda supra, § 77).

95. Questa coscienza si esprime nei primi Padri, che legano la struttura e il funzionamento della Chiesa alla sua natura profonda e alla sua chiamata. Così, all’inizio del II secolo, Ignazio di Antiochia sottolinea che le diverse Chiese particolari si considerano solidalmente quali espressioni dell’unica Chiesa. I suoi membri sono synodoi, compagni di viaggio, dove ciascuno è chiamato a giocare un ruolo secondo l’ordine divino che stabilisce l’armonia, espressa nella sinassi eucaristica. Così, con la sua unità e il suo ordine, la Chiesa canta la lode di Dio il Padre nel Cristo, tesa verso la sua piena unità che sarà realizzata nel Regno di Dio. Cipriano di Cartagine approfondisce questo insegnamento a metà del III secolo precisando il fondamento sinodale ed episcopale sul quale deve fondarsi la vita della Chiesa: nulla si fa senza il vescovo (nihil sine episcopo), ma ad un tempo nulla si fa senza il “vostro parere” (quello dei presbiteri e dei diaconi) e senza l’approvazione del popolo (nihil sine consilio vestro et sine consensu plebis).[153]Unità legata all’unità della Trinità, ispirazione dello Spirito Santo, cammino insieme (synodos) verso il Regno, fedeltà alla dottrina degli apostoli e alla celebrazione dell’Eucaristia, ordine e armonia dei ministri e dei battezzati, con un ruolo peculiare conferito ai vescovi: questi elementi manifestano che la Chiesa, fin dentro le sue strutture e il suo funzionamento, si inscrive profondamente nell’evento Gesù Cristo, come suo momento e sua espressione privilegiata. Nella celebrazione di Nicea è tutto il processo sinodale che precede e che trova nel Concilio Ecumenico il suo apice, che noi raccogliamo e celebriamo.

3.2. La collaborazione strutturale dei carismi della Chiesa e il cammino verso Nicea  

96. Questi elementi propri della natura teologale della Chiesa, che non possono essere che il frutto dell’evento della Rivelazione, si sono manifestati nel cammino storico che ha portato al Concilio Ecumenico di Nicea attraverso l’interazione di tre carismi, messi a disposizione per il governo, l’insegnamento e la presa di decisioni comunitarie nella Chiesa: anzitutto la gerarchia tripartita, poi i maestri e il sinodo. Un ordine di presidenza che pone gli apostoli al primo posto, sembra già ben stabilito nel corpo paolino: «Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri…» (1Cor 12,28; cf. Ef 4,11). La prima caratteristica è lo sviluppo progressivo della gerarchia tripartita dei vescovi, presbiteri e diaconi. Essa, che aveva la supervisione dei profeti e dei maestri itineranti dei primi 150 anni del cristianesimo (spesso chiamati “apostoli”, in senso generale), giunse a soppiantarli in una certa misura e divenne la struttura locale di governo della Chiesa. La figura del vescovo, in particolare, esprime la dimensione apostolica della Chiesa. A partire dal IV secolo si formano delle provincie ecclesiastiche che manifestano e promuovono la comunione tra le Chiese particolari, con a capo un metropolita.

97. Essendo i cristiani chiamati ad annunciare Cristo e a trasmettere il suo insegnamento e l’insegnamento degli apostoli a tutte le nazioni, non sorprende che la seconda caratteristica del cristianesimo del periodo preniceno fosse l’importanza decisiva delle scuole e dei maestri, che impartivano un insegnamento ai catecumeni e interpretavano le Scritture. Essi potevano essere o non essere ministri ordinati. Pelagio, ad esempio, insegnava a Roma all’inizio del V secolo, pur non essendo presbitero, come Melania l’anziana e Rufino a Gerusalemme, Gerolamo a Betlemme e poi a Roma. Anche Origene ha diretto la Scuola di Alessandria, dopo la morte di suo padre Leonida, prima di essere ordinato.

98. Infine, dopo la seconda metà del II secolo e all’inizio del III, soprattutto in Asia Minore, il sinodo prende un posto sempre più importante per decidere di questioni rilevanti di disciplina, di culto e di insegnamento. All’inizio, i sinodi erano locali, ma l’invio di lettere sinodali che comunicavano le loro decisioni (acta) alle altre Chiese, lo scambio di delegazioni e le richieste di mutuo riconoscimento, testimoniano la «ferma convinzione che le decisioni prese fossero espressione della comunione con tutte le Chiese», in quanto «ogni Chiesa locale è l’espressione della Chiesa una e cattolica».[154] Notiamo che il sinodo possiede una dimensione giuridica o canonica molto netta, in quanto istituzione che legifera. I documenti e le collezioni di canoni sinodali sono raccolti negli archivi episcopali, in particolare a Roma: lo sviluppo del diritto canonico e quello dei sinodi vanno di pari passo e si accompagnano l’un l’altro. Non è possibile attribuire unicamente alla legittimazione della Chiesa da parte di Costantino la svolta verso una Chiesa istituzionalizzata di tipo statuale. Percepita come una polis (città) che riflette la Città di Dio, la Gerusalemme celeste (cf. Is 60 e 62; 65,18; Ap 3,12; 21,1-27), o come un synodos, inteso nel senso letterale di un popolo che percorre lo stesso cammino di Gesù verso il Regno, avendo proprio lui alla testa come suo proestos, o presidente, la Chiesa è costitutivamente “politica” e istituzionale.[155]

99. Questi tre carismi si sono evoluti diversamente e in maniera propria in seno alla Chiesa, ma nessuno di essi si è emancipato o separato dagli altri due. Anche se alcune tensioni si sono naturalmente manifestate tra di loro e al loro interno, essi si sono arricchiti, informati e rinforzati mutuamente. I maestri partecipavano spesso come membri ai sinodi. Parimenti, i vescovi erano fin da principio maestri e predicatori secondo il modello di Ignazio di Antiochia. Naturalmente, i vescovi presiedevano i sinodi e vi giocavano un ruolo di primo piano in quanto custodi dell’ortodossia della fede e della pratica. Per di più, nel suo ruolo sacramentale, il vescovo presiedeva la celebrazione eucaristica che apriva e chiudeva ogni sinodo, quale fonte e culmine di quel “camminare insieme” che è il synodos.[156] Segno della ricezione delle decisioni sinodali, così come della comunione dei credenti coi loro vescovi, stabiliti nella successione apostolica nel seno della “Catholica”, cioè nella Chiesa di Dio una e unica, l’Eucaristia manifestava e realizzava in modo visibile l’appartenenza al Corpo di Cristo e l’appartenenza reciproca dei cristiani (cf. 1Cor 12,12).[157]

100. Non solo questi elementi del processo di strutturazione della Chiesa manifestano il suo radicamento nell’evento Gesù Cristo, ma è possibile anche discernere in questo processo una certa analogia con ciò che costituì l’evento di Sapienza, più sopra analizzato. Così come il pensiero umano, profondamente rinnovato dall’evento Gesù Cristo, assume e trasfigura le culture umane, a partire specialmente dall’incontro del pensiero semitico, già lavorato all’interno dalla Rivelazione, con la cultura greca e altre culture, allo stesso modo le tre dimensioni o carismi che abbiamo rilevato erano assunti un tempo dalle istituzioni giudaiche e da versioni locali delle istituzioni greco-romane dei primi secoli della nostra era, sia civili che religiose. Da un lato, il giudaismo del Secondo Tempio aveva la sua gerarchia sacerdotale, le sue scuole e i suoi sinodi. Dall’altro, siccome non esistevano scuole specifiche per loro, i maestri cristiani erano quasi tutti formati come oratori e interpreti nella enkyklios paideia, ovvero nel sistema educativo generale del mondo greco-romano, e facevano dunque appello alla retorica e alla filosofia, che hanno contribuito a inscrivere nel patrimonio della dottrina cristiana. Il sinodo (concilium in latino) era già anch’esso un’istituzione antica nel mondo greco-romano quando i cristiani gli hanno attribuito un ruolo importante. Ora questi differenti aspetti acquistano dimensioni proprie, trasfigurate, potremmo dire, quando sono a servizio della missione della Chiesa di annunciare il Vangelo ed essere segno di unità per il genere umano.

3.3. Il Concilio Ecumenico di Nicea

101. Nel 325 viene celebrato a Nicea un sinodo che si inscrive in parte all’interno di questo processo come un punto di arrivo, ma che ne rappresenta ugualmente una forma eccezionale per la sua portata ecumenica. Convocato dall’imperatore per risolvere una contesa locale che si era estesa a tutte le Chiese dell’Impero romano d’Oriente e a numerose Chiese dell’Occidente, esso raduna vescovi provenienti da diverse regioni dell’Oriente e i legati del vescovo di Roma. Per la prima volta, dunque, vescovi di tutta l’Oikouménè sono riuniti in sinodo. La sua professione di fede e le sue decisioni canoniche sono promulgate come normative per tutta la Chiesa. La comunione e l’unità inaudite suscitate nella Chiesa dall’evento Gesù Cristo sono rese visibili ed efficaci in modo nuovo da una struttura di portata universale, e l’annuncio della buona notizia di Cristo in tutta la sua immensità riceve anch’esso uno strumento di un’autorità e di una portata senza precedenti:

Nel Concilio di Nicea per la prima volta, attraverso l’esercizio sinodale del ministero dei vescovi, si esprime istituzionalmente a livello universale l’ἐξουσία del Signore risorto che guida e orienta nello Spirito Santo il cammino del Popolo di Dio. Analoga esperienza si realizza nei successivi Concili ecumenici del primo millennio, attraverso i quali si staglia normativamente l’identità della Chiesa una e cattolica.[158]

102. Col Concilio di Nicea, si è imposta l’idea stessa di un sinodo o di un concilio ecumenico. Anche se nessuno dei suoi acta è sopravvissuto, secondo ogni probabilità e nonostante una ricezione lenta e ardua, la proclamazione dell’homooúsios e i canoni di Nicea sono sopravvissuti. Dopo questo lungo processo di ricezione – che sarà tipico di ogni concilio –, Nicea è divenuto l’ideale del concilio nello spirito di molti. La sua presentazione tradizionale come un concilio unificato, ispirato dallo Spirito Santo, ha aiutato a farlo diventare il concilio ideale nella tradizione ulteriore e a poco a poco ha creato la stima dei cristiani per i concili ecumenici. Nicea ha aperto la via ai concili ecumenici successivi e dunque a un nuovo modo di vivere la sinodalità o la conciliarità che segnerà la vita della Chiesa fino ad oggi, sia nel suo ruolo di definire e proclamare la fede che nella manifestazione dell’unità dell’insieme dell’Oikoumenē rappresentata nel suo seno.

Capitolo 4

Custodire una fede accessibile a tutto il popolo di Dio

Preludio: il Concilio di Nicea e le condizioni di credibilità del mistero cristiano 

103. L’idea principale e legittima che si ricava dal Concilio di Nicea è che si tratta di un concilio dogmatico che ha difeso e precisato la fides quae cristologica e trinitaria. Ora, si tratta di esplicitare in questo ultimo capitolo come l’evento del concilio ha costituito anche una sorta di dispositivo istituzionale della Chiesa una e cattolica per risolvere un conflitto dogmatico in condizioni che potessero rendere ricevibile la sua decisione. L’esame di teologia fondamentale deve dunque completare l’inchiesta dogmatica e storica. È la fides quae, la verità salvifica, che genera l’adesione alla salvezza, cioè la fides qua; ma a Nicea la stessa fides qua è stata posta a servizio dell’accoglienza e della comprensione della fides quae. Ora, la considerazione del processo della fides qua, ossia delle condizioni della definizione e della ricezione della fides quae, manifesta la natura e il ruolo della Chiesa. Evidentemente, è chiaro che l’invenzione di questo dispositivo istituzionale sarebbe stata progressiva, che non sarebbe uscita armata come Atena dalla testa di Zeus, in breve, che il concetto dogmatico di “Concilio Ecumenico” non poteva essere esattamente contemporaneo all’evento del 325. Come abbiamo già spiegato nel capitolo II, il luogo per eccellenza in cui si incontrano la fides qua e la fides quae è il battesimo. È qui che l’individuo è incorporato alla fede della Chiesa, che egli riceve la Chiesa come madre. In questo contesto di battesimo e di catechesi di iniziazione, la Chiesa antica ha elaborato la regola della fede come la sintesi più sostanziale della fede. Tenendo conto della sua pertinenza, questa è stata utilizzata per discernere la verità della fede rispetto all’eresia (Ireneo, Tertulliano, Origene, ad esempio). La regola della fede è quindi il precursore della posizione dogmatica del Simbolo, inteso come riassunto degli elementi normativi della fede. Questa coscienza di una norma (regula; kănōn) è presente nella procedura dei sinodi preniceni che facevano discernimento a proposito della fede.

104. Fondandosi sulle molteplici esperienze dei sinodi regionali o locali dei secoli II e III, si può sostenere la tesi dogmatica che è una determinata verità ecclesiologica ritenuta operativa a priori che è stata sollecitata per risolvere il problema di una verità trinitaria, cristologica e soteriologica minacciata di essere alterata, falsificata o perduta. I processi della fides qua manifestano la natura della Chiesa. Il Verbo di Dio, fattosi carne (cf. Gv 1,14), fa realmente conoscere il Padre e questa conoscenza, per la potenza dello Spirito Santo, è affidata alla Chiesa, incaricata di custodirla e di trasmetterla. Ora, questa missione implica che la Chiesa possa interpretare le Scritture con autorità. Ciò mostra anche che credere la Chiesa – come professa il Simbolo – e credere alla sua autorità nel definire la dottrina cristologica e trinitaria si fonda sull’atto di fede in Gesù Cristo e nella Trinità, in una forma di “mutua anteriorità”, secondo la felice espressione tomista.[159]Infine, anche lo scopo ultimo di tutta questa procedura ecclesiale deve attirare la nostra attenzione. Avanziamo l’ipotesi che la procedura conciliare è stata messa al servizio dei piccoli, a servizio dunque della fede dei bambini, che è il paradigma della fede del vero discepolo agli occhi del Signore Gesù e quindi dell’annuncio del Vangelo a tutti. Ciò illumina il senso del Magistero della Chiesa, che tende a una carità di protezione nei riguardi del “più piccolo” tra i fratelli di Cristo (cf. Mt 25,40).

1. La teologia a servizio dell’integralità della verità salvifica

1.1. Il Cristo, la verità escatologicamente efficace 

105. Nella misura in cui Nicea propone una verità nelle questioni riguardanti la salvezza e la distingue dall’errore, la sua prima sfida dal punto di vista della teologia fondamentale è quella del posto che deve avere la verità nella soteriologia. Questa convinzione proviene anzitutto dalla stessa forma della Rivelazione, che, lasciandosi trascrivere in parole messe per iscritto, manifesta che la dimensione della verità le è costitutiva. La fede cristiana suppone che la verità di Cristo sia resa accessibile ai suoi discepoli. In effetti, il Salvatore è lui stesso la verità: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Nel cristianesimo, la verità è una persona. La verità non è più un semplice affare di logica o di ragionamenti, non è possibile possederla, non è separabile dagli altri attributi identificati con la persona di Cristo, come il bene, la giustizia o l’amore. Resta vero che l’adesione a Cristo interpella sempre l’intelligenza dei discepoli: «Credo ut intelligam».[160]In effetti, non è immaginabile né coerente pensare che il Dio creatore dell’uomo intelligente e libero – una delle dimensioni della creazione a immagine e somiglianza dello stesso Creatore (Gn 1,26-27) –, possa in quanto Dio salvatore disinteressarsi dell’accesso conoscitivo alla sua verità e alla verità che salva. Per di più, questa verità salvifica possiede una dimensione comunitaria. Nicea è un atto comunitario di espressione della verità, con lo scopo di comunicarla a tutta la Chiesa. Di fatto, non è neppure immaginabile né coerente pensare che il Creatore della famiglia umana, e in particolare della sua capacità di comunicazione intelligibile attraverso il linguaggio (cf. Gn 11,1-9 – la torre di Babele, e At 2,1-11 – la Pentecoste), possa disinteressarsi dell’accesso comunitario alla sua verità e alla verità salvifica. Per questo la disgregazione dell’unità della fede compromette la forza e l’efficacia della salvezza in Gesù Cristo.

106. Questo posto costitutivo della verità nella salvezza ricade sulla natura stessa della Chiesa “portatrice della verità” (alēthefora). Essa porta un Altro da sé, il Cristo-Verità, e non sarebbe se stessa senza di Lui. La Chiesa è per necessità d’origine un luogo di ricerca, di scoperta, di protezione e di dispiegamento della verità compiuta nel Verbo a beneficio personale ed ecclesiale dei suoi discepoli e di tutti gli esseri umani. Essa è anche un luogo di comunione con la forza vivificante di questa verità, che in essa circola, irrigando ugualmente la ricerca della verità propria del mondo, il suo pensiero e la sua cultura.[161]La tradizione (trasmissione) vivificante della stessa verità salvifica è dunque uno dei significati più potenti che possa rivestire il concetto dogmatico della Tradizione ecclesiale.[162]

107. Il posto capitale della verità spiega il profondo rifiuto dell’idolatria nelle Scritture. Il Santo di Israele è un Dio che parla, contrariamente agli idoli. «Hanno bocca e non parlano», dicono i salmi (115,5 e 135,16), ripresi in 1Cor 12,2: «Quando eravate pagani, vi lasciavate trascinare senza alcun controllo verso gli idoli muti». Inoltre, la verità, la potenza, la giustizia, la santità di Dio sono sempre state concepite, biblicamente, in rapporto con la pretesa di portare la salvezza vera e universale, mentre le pratiche idolatriche non pretendono altro che offrire un dono parziale e locale. D’altra parte, poiché è questa Persona che viene da Dio e che è Dio essa stessa e Signore (cf. Gv 13,14), la verità della salvezza deve essere ricevuta, mentre l’idolatria costruisce il divino a partire dall’umano. Il fatto che Dio non possa essere fabbricato come la statua di un idolo (si veda l’ironia di Sap 13,11-19) rinvia alla nozione di autorivelazione divina, opposta in maniera frontale all’idea di autorealizzazione così frequente nelle offerte religiose, anche antiche, come testimonia lo gnosticismo designato da Ireneo come una vera e propria eresia e come la «gnosi dal nome menzognero». La gnosi “mente”, in quanto contraddice la nozione stessa di verità salvifica, dal momento che essa non è verità accolta da Dio e ricevuta liberamente nell’amore. Al contrario, mediante la sua incarnazione, il Verbo di Dio sollecita l’atto di fede ecclesiale e personale come un ricevere, mediante l’intelligenza e tutto l’essere, i misteri che salvano nello Spirito Santo: «Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei» (Gv 4,22). Infine, Gesù è il Verbo di Dio inviato nel mondo per una missione di parola, per una parola di verità integrale, che sollecita la risposta di fede dell’essere umano. Per questo si tratta di una verità realmente salvifica, escatologicamente efficace: «Oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). La scelta di Nicea di esprimere in parole una verità integrale di salvezza per tutti, da ricevere nella fede, è fedeltà non soltanto alla verità cristologica (fides quae) ma anche alla relazione personale alla verità che è lo stesso Cristo (fides qua).

1.2. La salvezza e il processo di filiazione divina

108. Questa verità soteriologica va intesa in senso forte, ontologico. Senza pretendere di offrire una comprensione esaustiva che comprometterebbe il mistero della salvezza in quanto mistero, essa dà tuttavia accesso alla verità stessa della filiazione e della paternità di Dio. Il Dio della verità ha per così dire voluto mettere gli uomini alla prova della pretesa filiale, inaudita, del suo Figlio unico Gesù. La verità rivelata da Dio si concentra nella verità del suo “Figlio” unico. Questo termine non si riduce a una semplice metafora o a una analogia, poiché ciò che è metaforico si apre qui da sé al registro dell’ontologia, come il symbolon, nel senso forte del termine, dona realmente ed efficacemente accesso alla realtà che significa. La testimonianza del Padre donata a Gesù fonda questa verità: «Se accettiamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è superiore: e questa è la testimonianza di Dio, che egli ha dato riguardo al proprio Figlio. Chi crede nel Figlio di Dio, ha questa testimonianza in sé» (1Gv 5,9). L’autore aggiunge: «Chi non crede a Dio, fa di lui un bugiardo» (1Gv 5,10). I nostri vecchi catechismi amavano esprimere questa convinzione intima dell’atto di fede dei cristiani con una semplicità diretta: «Dio che non può ingannarsi né ingannare»,[163]nella quale Tommaso d’Aquino avrebbe potuto riconoscere le sue formulazioni.[164]Così si trova giustificata l’opzione ontologica del neologismo di Nicea, l’homooúsios, che intende prolungare e chiarificare la terminologia biblica e innica. La conferma della verità ontologica della filiazione divina di Gesù sta nel fatto che, come abbiamo visto nel primo e nel terzo capitolo, il rapporto della paternità e della filiazione si trova misteriosamente capovolto tra il divino e l’umano: la paternità umana e terrena è divenuta una denominazione secondaria e derivata rispetto al suo prototipo, Dio il Padre (cf. Ef 3,14; Mt 23,9). È questa verità della filiazione divina, nella quale il credente è invitato a entrare, che sottende la verità della filiazione battesimale.[165]Essere salvati, secondo il Vangelo di Gesù, consiste nell’entrare nella piena verità della filiazione che è inserita nella filiazione eterna di Cristo.

2. La mediazione della Chiesa e l’inversione del concatenamento dogmatico: Trinità, cristologia, pneumatologia, ecclesiologia

2.1. Le mediazioni della fede e il ministero della Chiesa 

109. Questa verità salvifica ed efficace è esplicitata e comunicata a Nicea da un atto di interpretazione del testo biblico in termini che provengono dagli inni e dalla filosofia, e attraverso l’esercizio dell’intelligenza della fede. In effetti, tutta l’economia della Rivelazione biblica attesta che non bisognerebbe certamente intendere la forza della convinzione circa la verità cristologica nei termini di un fondamentalismo per il quale il senso delle Scritture è disponibile unicamente in modo immediato. Perché la tradizione interpretativa della dottrina ecclesiale e la ricerca dei teologi mostrano, al contrario, che la fede ha bisogno di molte mediazioni, a cominciare dalla prima unica e fondatrice, che è quella dell’umanità del Figlio unico, che egli ha ricevuto da Maria. Dio ha disposto che la sua verità divina inaudita si muovesse verso l’umanità attraverso la mediazione del suo Verbo incarnato: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo» (Mt 17,5; cf. 3,17). Inoltre, i differenti generi letterari nell’espressione della Rivelazione che costituiscono i libri biblici richiedono altrettante economie ermeneutiche.[166]Il Simbolo, nato dalla liturgia e proclamato in contesto liturgico, testimonia inoltre che la mediazione interpretativa non si riduce a un commento del testo, ma si fa gestis verbisque dove la fede è vissuta in una comunità di preghiera e di grazia.[167]È quanto leggiamo nel racconto di Lc 24, dove il Risorto in persona non si accontenta di dare una spiegazione attraverso l’esegesi della Legge e dei Profeti, ma infine anche lo fa attraverso la sua presenza e la sua autodonazione eucaristica, nello “spezzare il pane”, come spiega Papa Benedetto XVI in Verbum Domini:

Parola ed Eucaristia si appartengono così intimamente da non poter essere comprese l’una senza l’altra: la Parola di Dio si fa carne sacramentale nell’evento eucaristico. L’Eucaristia ci apre all’intelligenza della Sacra Scrittura, così come la Sacra Scrittura a sua volta illumina e spiega il Mistero eucaristico. In effetti, senza il riconoscimento della presenza reale del Signore nell’Eucaristia, l’intelligenza della Scrittura rimane incompiuta.[168]

110. Così, il concatenamento ordinato dei misteri tale quale è offerto nella dogmatica può essere utilmente capovolto in teologia fondamentale. È per il mistero della Chiesa, «il mistero più difficile da credere»,[169]che vengono proposti dapprima i misteri inauditi della fede cristiana, misteri da cui questa dipende logicamente e ontologicamente. È infatti alla Chiesa che compete, anzitutto, di stabilire il regime di credibilità dell’itinerario della fede. Evidentemente, esiste un «ordine o una “gerarchiaˮ delle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana».[170] La dottrina cristologica, trinitaria e soteriologica del Simbolo costituisce questo fondamento. Tuttavia, all’interno del nexus mysteriorum dei dogmi,[171] l’atto di interpretazione del Concilio illumina la partecipazione della Chiesa, secondo il suo posto e il suo ruolo specifici, all’ordinamento della salvezza.

2.2. Dissenso e sinodalità

111. La mediazione interpretativa della Chiesa si manifesta negli arbitrati, in particolare di fronte ai dissensi o di fronte al bisogno di tradurre il testo sacro. Il “Concilio di Gerusalemme” in Atti 15 testimonia per la prima volta un dissenso di dottrina (il rapporto dei discepoli di Cristo provenienti dalle nazioni pagane con la Legge mosaica) e di pratica (circoncisione, idolotiti e impudicizia), che portavano conflittualità e la cui regolamentazione e soluzione, in forma di ritrovato consenso ecclesiale, sono state precedute da un esame da parte del collegio radunato degli «apostoli e anziani» (At 15,6). Viene avviato un processo: si nota anzitutto una successione di testimonianze autorizzate (Pietro, Paolo e Barnaba, Giacomo) accolte in un ascolto mutuo,[172]in seguito un appello all’autorità di Mosè, l’istituzione di messaggeri con mandato rispetto a messaggeri “senza incarico” (cf. At 15,24), e infine la redazione di uno scritto prescrittivo da consegnare ufficialmente all’assemblea di Antiochia (cf. At 15,30-31) riunita su iniziativa dei messaggeri con mandato. Tutti sono attori, dal momento che la questione è sottoposta a tutta la Chiesa di Gerusalemme (cf. At 15,12), che è presente durante lo svolgimento del discernimento ecclesiale e che è implicata nella decisione finale (cf. At 15,22).[173]Il segno di questo aspetto comunitario è che i messaggeri sono inviati in coppia (cf. At 15,27). L’essenziale per la nostra riflessione è che la Chiesa assistita dallo Spirito Santo e funzionante in maniera sinodale, appoggiandosi sul sensus fidei fidelium[174]e sull’autorità particolare degli apostoli, costituisce il mistero vivente e operante nel quale è stato elaborato lo sviluppo dottrinale a proposito della distinzione, di fronte alla Legge mosaica, tra i discepoli di Cristo provenienti dal popolo ebreo e quelli provenienti dalle nazioni. L’arbitrato di fede che riguardava l’intento universalistico di Dio, quanto all’ingresso delle nazioni nel mistero rivelato dapprima a Israele, si è operato qui nello scambio tra fides qua e fides quae, nel seno del mistero dinamico della Chiesa.

112. Fin dai tempi che precedettero l’incarnazione del Verbo, il popolo eletto aveva dovuto trattare un problema analogo per la conservazione, ma soprattutto per la diffusione della Rivelazione nella diaspora di Israele e, al di là, tra le popolazioni che il Nuovo Testamento chiama i “proseliti” (cf. Mt 23,15; At 2,11, 6,15), o anche i “timorati di Dio” (cf. At 10,2), d’origine pagana. Si tratta della scelta fondamentale, la cui origine reale si perde tra varie leggende (Lettera di Aristea o Talmud-Soferim 1,7), che autorizzava la traduzione della Bibbia del popolo ebraico dall’ebraico al greco, e finì nella versione alessandrina della Settanta. Queste traduzioni, come più tardi il ricorso al neologismo homooúsios, avrebbero implicato molteplici arbitrati lessicali perché le verità del testo originale, concepite nel campo semantico di una lingua semitica, non andassero perdute quando il testo fu trasferito nel campo semantico di una lingua indoeuropea.

113. Questi arbitrati esprimono la stessa natura della Chiesa e permettono di comprendere il senso del magistero che essa esercita. Dal momento che la Chiesa è una realtà di grazia inscritta nella storia, essa è costituita e mossa dallo Spirito Santo, quello stesso che ha operato nell’Incarnazione del Verbo e che continua a operare l’incorporazione dei credenti nel Corpo mistico confrontato con le gioie, le tentazioni e le vicissitudini della storia. La sua missione salvifica si realizza non solo mediante la predicazione, con l’insegnamento delle Scritture e la celebrazione dei sacramenti, ma anche mediante il magistero esercitato dai vescovi, successori degli apostoli, in comunione col vescovo di Roma, successore di Pietro. Ciò non significa affermare che la verità della fede è storica e mutevole: significa piuttosto che il riconoscimento della verità e l’approfondimento della sua comprensione costituiscono un compito storico dell’unico soggetto-Chiesa. La Chiesa non ha dunque a sua disposizione la verità, che non può essere fabbricata, dal momento che si tratta fondamentalmente di Cristo stesso, ma essa la riceve, la richiama e la interpreta. Credere con la Chiesa significa per ogni generazione partecipare ai suoi sforzi incessanti per una comprensione più profonda e più completa della fede. L’obbligo di fedeltà non può essere ricondotto solo a una forma di docilità passiva: si tratta di un obbligo di appropriazione attiva per tutti i discepoli, col sostegno e sotto la vigilanza del magistero vivente del collegio dei vescovi. Questi ultimi, quando concordano, detengono l’autorità per decidere in modo obbligante se un’interpretazione teologica è fedele o meno alla fonte – il Cristo e la Tradizione apostolica. Il Magistero non aggiunge nulla alla Rivelazione compiutasi in Cristo e attestata nelle Scritture, se non le esplicitazioni dello sviluppo dogmatico, dal momento che la Chiesa vi esercita il suo ruolo di interprete autentico della Parola di Dio mediante atti di fedeltà creativa alla Rivelazione:[175] «Così, il giudizio che riguarda l’autenticità del sensus fidelium appartiene in ultima analisi non ai fedeli stessi né alla teologia, ma al magistero».[176]Il Magistero detto ordinario dei successori degli apostoli consiste in un insegnamento abituale che elabora continuamente la Tradizione – già designata nel Nuovo Testamento come «la sana dottrina» (2Tm 4,3). In confronto ad esso, il Magistero straordinario è esercitato più di rado, ma lo è ogni volta che deve essere presa una decisione di portata dottrinale concernente l’insieme della Chiesa, specialmente di fronte a una messa in discussione da una parte della Chiesa. È ciò che si è prodotto in modo eminente ed esplicito al Concilio Ecumenico di Nicea. 

2.3 Le lingue dello Spirito Santo per la formazione e il rinnovamento del consenso

114. In fondo, il compito ecclesiale sarà anzitutto un compito pneumatologico di metafrasi. Essa opera sul registro della traduzione, come la Settanta e i targoumim, che cercano la fedeltà al testo ebraico situandosi decisamente nei modi di pensiero e nel genio propri del greco e dell’aramaico. Si può supporre che il medesimo processo sia all’opera nella traduzione delle parole di Gesù, pronunciate in aramaico, nel greco dei Vangeli. Si tratta anche del lavoro di esegesi del testo sacro, cominciato coi midrashim e gli scritti dei primi Padri della Chiesa. È questo duplice movimento che fiorisce negli scambi viventi di un Concilio Ecumenico celebrato sotto la mozione dello Spirito di Pentecoste, nel quale i locutori potevano provenire dal mondo siriano o greco o copto o latino e che si concretizza in definizioni che sono esse stesse traducibili in altre lingue e in altre forme di espressione. Assistiamo qui a una duplice audacia ricevuta dallo Spirito Santo. Anzitutto un rafforzamento della comprensione della fede professata a Nicea da parte di coloro che la proclamano con parrēsia ed efficacia a beneficio del popolo di Dio nei differenti contesti del mondo; in seguito, l’audacia nello Spirito Santo da parte di coloro che ascoltano (auditus fidei) e ricevono (obsequium fidei) questa proclamazione.[177]Questo movimento manifesta sia la natura della Chiesa sia l’identità dello Spirito di verità, che “fa ricordare” le parole di Cristo e guida alla “verità tutta intera” (cf. Gv 16,13; cf. 14,26). Non vi è nulla di sorprendente nel constatare che un simile compito ecclesiologico, che postula le operazioni della terza persona divina, doveva risalire attraverso la storia della salvezza fino al mistero originario delle relazioni trinitarie, dall’economia all’ontologia divina.

115. In questo compito di “metafrasi pneumatologica”, che introduce un concetto nuovo, sconosciuto alle Sacre Scritture, il famoso homooúsios, è indispensabile notare che le narrazioni bibliche come pure le metafore dei testi scritturistici non sono abolite o occultate dalle trasposizioni speculative che ne contraggono e ne chiarificano la sostanza. La chiarificazione dogmatica vale solo se conserva il suo radicamento, che la vivifica, nell’humus biblico e nella comunione della fede liturgica. È questo, chiaramente, il caso del testo del Simbolo. In circostanze come quelle della crisi ariana, in cui la Parola di Dio sembrava fornire dei supporti ambivalenti per la conservazione della verità di fede (Lc 18,19: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo»), diventa necessario che l’espressione speculativa possa dirimere la disputa esegetica. Tuttavia, lo sviluppo dottrinale, con le risorse specifiche dei neologismi, deve accontentarsi di mettere in luce le verità immanenti al linguaggio di rivelazione, nello stesso modo con cui Cristo spiega la sua parabola del seminatore in Mt 13,3-9 e poi 18-23. In questo senso, non si mancherà di rilevare che nella storia della Chiesa i neologismi dogmatici sono stati, tutto sommato, poco numerosi e hanno corrisposto a dei nodi del mistero cristiano veramente decisivi: “consustanzialità” e “unione ipostatica” in cristologia; e in ambito trinitario “relazioni sussistenti” e “pericoresi”; ma anche “persona” (prosôpon et hypostasis), col suo senso specificamente cristiano, in teologia trinitaria, cristologia e antropologia.

3. Vegliare sul deposito della fede: una carità al servizio dei più piccoli

3.1. La fede unanime del popolo di Dio offerta a tutti

116. Il Simbolo di fede e i canoni adottati dal Concilio di Nicea non sono semplicemente atti ecclesiali di interpretazione, di traduzione e di metafrasi, ma intendono anche “custodire” o “vegliare su” (phȳlaxein) il deposito della fede trasmessa dagli apostoli (1Tm 6,20). Ora, questa protezione si opera in particolare a beneficio dei più esposti. Come, sul piano della fides quae, l’homooúsios è il principio e fondamento della koinonia in Cristo di tutti gli esseri umani tra loro, sino al più piccolo, così, sul piano della fides qua, la decisione del Concilio di definire una professione di fede comune, protegge tutti i discepoli. In effetti, la chiarezza dottrinale rende la fede capace di resistere alle forze del regionalismo culturale assolutizzato e della frattura geopolitica così come a quelle dell’eresia, spesso legate a una forma di sottigliezza elitaria.

117. Soffermiamoci su quest’ultimo aspetto. Nel IV secolo, in quest’epoca di “pace della Chiesa”, nel quale si è rischiato lo sbiadirsi della convinzione cristiana nel momento della sua diffusione universale, i sostenitori del paganesimo antico tentavano, invece, di restituire ad esso il suo vigore perduto sottolineando il carattere accessibile ai comuni mortali degli dèi del loro pantheon, della sua pratica e dei costumi degli avi. Ora, la fede predicata da Gesù ai semplici non è una fede semplicistica. Le parabole e altre sentenze, o alcune dichiarazioni giovannee come la magistrale: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30), sono testimonianza del fatto che l’accesso al mistero di Dio è, per lo meno, paradossale. Né ciò che il dogma chiamerà la Trinità, né l’unione ipostatica enunciata al Concilio di Calcedonia, né il duotelismo dinamico salvaguardato dalla soteriologia di Massimo il Confessore, potrebbero passare come proposizioni semplici. Tuttavia, il cristianesimo non si è mai considerato come una forma di esoterismo riservato a una élite di iniziati. Il Cristo lo afferma in una dichiarazione fondamentale: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto» (Gv 18,20-21). Anche la disciplina mistagogica dell’arcano, in un certo periodo del paleocristianesimo, non esprimeva una preoccupazione gelosa di segretezza, quanto piuttosto l’esigenza di tener conto della serietà e delle tappe dell’iniziazione cristiana. E col passare dei secoli si vede bene come la fede cristiana abbia assunto pienamente il suo stile decisamente essoterico e popolare. In fondo, ogni cristiano, facendo su di sé il segno della croce, esprime in maniera adeguata e piena il cuore della fede trinitaria e pasquale.[178]Il popolo di Dio nella sua interezza deve dare ragione della sua fede e della sua speranza (cf. 1Pt 3,5): in questo senso è teologo.[179]

118. Nello stesso senso, l’esercizio del Magistero, tale quale si realizza al Concilio di Nicea e che conferisce all’insegnamento della Chiesa “cattolica” uno stile autenticamente pubblico e istituzionale, istituisce con ciò un’uguaglianza di tutti nei confronti del contenuto della fede. Il credo liturgico, confessato da tutti i membri del Corpo mistico, nel contesto di una liturgia pubblica e comune, formerà come una pietra di paragone per la contesseratio (il legame di ospitalità) della comunione ecclesiale, cara a Tertulliano.[180]Il bene comune della Rivelazione vi è realmente messo “a disposizione” di tutti i fedeli, come conferma la dottrina cattolica dell’infallibilità in credendo del popolo dei battezzati: «La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene dal Santo (cf. 1Gv 2,20.27), non può sbagliarsi nel credere».[181]I vescovi hanno un ruolo specifico nella definizione della fede, ma non possono assumerlo senza essere nella comunione ecclesiale di tutto il popolo di Dio.[182]In tal senso, la Legge nuova del Nuovo Testamento riveste le caratteristiche della Legge antica, di cui non si valuta mai a sufficienza ordinariamente la dimensione pubblica: poiché la Legge è solennemente promulgata, essa è da tutti conosciuta come legge divina. Così, anche i capi sono tenuti proprio per il carattere pubblico della Legge alla sua osservanza. I “privilegi personali”, spesso rilevati e denunciati nella Torah, vi appaiono più facilmente in maniera oggettiva come una colpa nei confronti dell’uguale dignità dei figli di Dio (cf. Lv 19,5; Dt 10,17; At 10,34; Rm 2,11).

3.2. La protezione della fede di fronte al potere politico

119. Il Concilio di Nicea, con tutto ciò che deve all’iniziativa dell’imperatore Costantino, rappresenta comunque una pietra miliare nel lungo cammino verso la libertas Ecclesiae, che è dovunque una garanzia di protezione della fede dei semplici e dei più vulnerabili di fronte al potere politico. Senza dubbio, nasce nello stesso momento un movimento in concorrenza che tende verso ciò che sarà chiamato il “cesaropapismo” e che è una tentazione permanente tra le Chiese cristiane. Bisogna allora identificare in questo Concilio le primizie di una garanzia ecclesiale per la libertà di coscienza dei piccoli rispetto a quelle di una strumentalizzazione politica della religione di Cristo? È vero che oggi si tende spesso a far valere la preoccupazione politica dell’imperatore Costantino; si sottolinea che il Concilio di Nicea era tra l’altro destinato a celebrare il ventesimo anniversario del suo regno, e si insinua anche, in certi casi, che la professione di fede adottata a Nicea intendeva anzitutto restaurare la concordia all’interno dell’Impero. Allo stesso modo, si rimprovera alla nozione di eresia di essere associata al potere repressivo dello Stato confessionale. Non potendo trattare in modo esaustivo queste questioni molto complesse nei limiti del presente documento, possiamo però distinguere nel nostro caso le forme di unità e gli obiettivi, l’unità di fede tra i cristiani e l’unità dei cittadini. Da un lato, in effetti, il monoteismo trinitario di Nicea, nella sua verità dogmatica, non permetteva senz’altro di onorare così bene come l’arianesimo la pretesa del Basileus di essere il simbolo statale e religioso dell’unità romana e di gettare quindi i fondamenti di un ordine teologico-politico stricto sensu.[183]D’altra parte, senza la vigilanza magisteriale della Chiesa apostolica assistita dallo Spirito Santo di fronte alla resistenza opposta dall’eresia all’inaudito della Rivelazione, i misteri della fede comunicati dall’autorivelazione del Verbo incarnato, crocifisso e risorto, non avrebbero resistito alla dissoluzione e alla cacofonia.

120. La protezione della fede di tutti, così come l’importanza dell’ascolto della voce stessa degli ultimi e dei meno ascoltati, si manifesta nel fatto che Nicea non ha seguito il cammino dell’arianesimo. In effetti, san Girolamo sottolinea la maggioranza numerica degli ariani e anche il numero anch’esso assai maggioritario dei vescovi conquistati all’arianesimo. Storicamente bisognerebbe sfumare la lettura fatta da Girolamo, poiché la più parte dei vescovi e dei cristiani non aveva optato direttamente per l’arianesimo, ma era piuttosto esitante di fronte a una terminologia che non si trovava nel Nuovo Testamento. Detto ciò, siccome si era prodotto un effetto di forza messo in atto dall’autorità politica, il Concilio ha permesso di salvaguardare il sensus fidelium[184] che abitava nel popolo di Dio. In questo senso si può dire che la professione di fede di Nicea è un’eco fedele dell’esultanza di Cristo vissuta nella Chiesa: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza» (Mt 11,25-26).

Conclusione

Annunciare a tutti Gesù nostra Salvezza oggi

121. La celebrazione dei 1700 anni del Concilio di Nicea è un pressante invito rivolto alla Chiesa perché riscopra il tesoro che le è stato affidato e vi attinga per condividerlo con gioia, in un rinnovato slancio, e perfino in una «nuova tappa dell’evangelizzazione».[185] Annunciare Gesù nostro Salvatore a partire dalla fede espressa a Nicea, così come è professata nel Simbolo di Nicea-Costantinopoli, significa anzitutto lasciarsi stupire dall’immensità di Cristo, così che tutti ne siano meravigliati, rianimare il fuoco del nostro amore per il Signore Gesù, così che tutti possano ardere d’amore per lui. Nulla e nessuno è più bello, più vivificante, più necessario di lui. Dostoevskij lo dichiara con forza: «Ripongo in me il simbolo della fede nel quale per me è tutto limpido e santo. Questo simbolo è molto semplice, ed è questo: credere che non ci sia niente di più bello, profondo, disponibile, sensato, coraggioso e perfetto di Cristo».[186] In Gesù, homooúsios al Padre, Dio stesso viene a salvarci, Dio stesso si è legato all’umanità per sempre, al fine di portare a compimento la nostra vocazione di esseri umani. In quanto Figlio Unigenito, ci conforma a sé come figli e figlie amati dal Padre per la potenza vivificante dello Spirito Santo. Coloro che hanno visto la gloria (doxă) di Cristo la possono cantare e lasciare che la dossologia si trasformi in annuncio generoso e fraterno, cioè in kerigma.

122. Annunciare Gesù nostra salvezza a partire dalla fede espressa a Nicea non porta a ignorare la realtà dell’umanità. Non distoglie dalle sofferenze e dagli scossoni che tormentano il mondo e oggi sembrano compromettere ogni speranza. Al contrario, essa si confronta con queste difficoltà confessando la sola redenzione possibile, acquistata da colui che ha conosciuto fino in fondo la violenza del peccato e del rifiuto, la solitudine dell’abbandono e la morte e che, dall’abisso del male, è risuscitato per portare anche noi nella sua vittoria fino alla gloria della risurrezione. Questo annuncio rinnovato non ignora neppure la cultura e le culture, ma, al contrario, anche qui con speranza e carità, si mette al loro ascolto e si arricchisce di queste, mentre le invita alla purificazione e le eleva. Entrare in una simile speranza esige senz’altro una conversione, ma anzitutto da parte di colui che annuncia Gesù con la vita e la parola, poiché questa speranza significa rinnovamento dell’intelligenza secondo il pensiero di Cristo. Nicea è il frutto di una trasformazione del pensiero che è implicata e resa possibile a un tempo dall’evento Gesù Cristo. Parimenti, una nuova tappa dell’evangelizzazione non sarà possibile che da parte di coloro che si lasciano rinnovare da questo evento, da parte di coloro che si lasciano coinvolgere dalla gloria del Cristo, sempre nuovo.

123. Annunciare Gesù nostra salvezza a partire dalla fede espressa a Nicea, significa rendersi particolarmente attenti ai più piccoli e ai più vulnerabili tra i nostri fratelli e le nostre sorelle. La luce nuova proiettata sulla fraternità tra tutti i membri della famiglia umana da Cristo, Figlio homooúsios del Padre e partecipe della natura umana comune, illumina in particolare coloro che hanno più bisogno della speranza della grazia. Noi siamo legati, mediante un legame radicale indistruttibile, a tutti coloro che soffrono e che sono scartati: siamo tutti chiamati a operare perché la salvezza possa raggiungerli, specialmente loro. Annunciare significa qui “dare da mangiare”, “dare da bere”, “accogliere”, “vestire” e “andare a far visita” (Mt 25,34-40), fare risplendere la gloria umile della fede, della speranza e della carità per colui che non è creduto, in cui nessuno spera e che è reietto dal mondo. Annunciare significa far brillare queste virtù teologali nell’umiliazione e nella sofferenza: ciò non può che venire da Cristo nostro Salvatore, e dunque si tratta di rendere testimonianza a Lui e permettere di incontrarlo. Non ci dobbiamo però ingannare: questi crocifissi della storia sono il Cristo tra di noi, nel senso più forte possibile: «L’avete fatto a me» (Mt 25,40). Il Crocifisso-Risorto conosce intimamente le loro sofferenze ed essi conoscono le sue. Così, essi sono gli apostoli, i maestri e gli evangelizzatori dei ricchi e dei benestanti. Si tratta di aiutare i poveri, ma anzitutto di entrare in relazione con loro e di vivere con loro per lasciarsi istruire da loro: loro comprendono meglio di tutti l’immensità del dono del Figlio homooúsios che va fino alla croce, confessato a Nicea. Essi possono introdurci alla speranza più forte della morte, alla sequela del Verbo di Dio disceso fino alla condizione più umile tra noi per esaltarci fino alla condizione più elevata con Lui.[187]

124. Annunciare Gesù nostra salvezza a partire dalla fede espressa a Nicea, significa annunciarlo in quanto Chiesa. Significa annunciarlo con la testimonianza della fraternità inaudita fondata in Cristo. Significa far conoscere le cose meravigliose per cui la Chiesa “una, santa, cattolica e apostolica” è il “sacramento universale di salvezza” e dona accesso alla vita nuova: il tesoro delle Scritture che il Simbolo interpreta, la ricchezza della preghiera, della liturgia e dei sacramenti che derivano dal battesimo professato a Nicea, la luce del Magistero che sta al servizio della fede condivisa. Questo tesoro, tuttavia, «lo abbiamo in vasi di creta» (2Cor 4,7). Ora tutto questo è giusto, perché l’annuncio sarà fecondo unicamente se vi è consonanza tra la forma del messaggio e il suo contenuto, tra la forma di Cristo e la forma dell’evangelizzazione. Nel mondo di oggi, si tratta in particolare di tener presente che la gloria che abbiamo contemplato è quella del Cristo «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), che ha proclamato: «Beati i miti, perché avranno in eredità la terra» (Mt 5,5). Il Crocifisso-Risorto è realmente vincitore, ma si tratta di una vittoria sulla morte e il peccato e non su degli avversari – non vi sono perdenti nel Mistero Pasquale, se non lo sconfitto escatologico, Satana il divisore.[188] L’annuncio di Gesù nostra salvezza non è un combattimento, ma piuttosto una conformazione al Cristo, lui che guardava a coloro che incontrava con amore e compassione (cf. Mc 10,21; Mt 9,36) e si lasciava condurre da un altro, lo Spirito del Padre.[189]L’annuncio sarà fecondo se è Cristo che agisce in noi:

Infatti, è bene ricordare che quando mandò i suoi discepoli in missione “il Signore agiva insieme con loro” (Mc 16,20). Egli è lì, lavora, lotta e fa del bene con noi. In modo misterioso, è il suo amore che si manifesta attraverso il nostro servizio, è Lui stesso che parla al mondo in quel linguaggio che a volte non trova parole.[190]

 

 

 

[1] Francesco, Bolla di indizione del Giubileo ordinario dell’anno 2025 Spes non confundit, 9 maggio 2024, 17.

[2] Efrem, Inni sulla natività, III, 3, trad. it. di I. De Francesco, Efrem, Inni sulla natività e sull’epifania, Paoline, Milano 2003, pp. 149-150.

[3] Francesco, Discorso ai membri della Commissione Teologica Internazionale, 30 novembre 2023.

[4] «Benchè si fosse dapprima concordato che un sinodo dei vescovi si tenesse ad Ancira, in Galazia, ora ci è sembrato meglio, per diverse [ragioni], che si riunisse nella città di Nicea, in Bitinia: sia a causa dei vescovi provenienti dall’Italia e da altre regioni dell’Europa, sia perché io sarei stato un osservatore più vicino e partecipe delle cose che si sarebbero svolte», Costantino, Lettera ai vescovi circa la convocazione del Concilio di Nicea (H.-G. Opitz, Athanasius Werke III/1, 3. Urkunde 20, Walter de Gruyter & Co., Berlin - Leipzig 1934/1935, pp. 41-42) nostra traduzione.

[5] Cf. Concilio di Calcedonia, Preambolo, DH 300.

[6] Cf. Concilio di Efeso, VI sessione dei Cirilliani, DH 265.

[7] Citato in K. Schatz, Storia dei Concili. La Chiesa nei suoi punti focali, Dehoniane, Bologna 2012, p. 36.

[8] «La Chiesa cattolica riconosce il valore conciliare ecumenico, normativo e irrevocabile, quale espressione dell’unica fede comune della Chiesa e di tutti i cristiani, del Simbolo professato in greco dal II Concilio Ecumenico a Costantinopoli nel 381. Nessuna professione di fede propria ad una tradizione liturgica particolare può contraddire questa espressione di fede insegnata e professata dalla Chiesa indivisa», Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani, «Le tradizioni greca e latina riguardanti la processione dello Spirito Santo», 13 settembre 1995, in L’Osservatore Romano, mercoledì 13 settembre 1995, p. 5.

[9] Francesco, Discorso al Dicastero per la Dottrina della Fede, 26 gennaio 2024.

[10] Seguiremo la versione greca del Simbolo Niceno-Costantinopolitano, salvo ulteriori precisazioni.

[11] La tematica di Dio Padre in quanto Creatore è molto presente presso i primi Padri della Chiesa. Clemente Romano si riferisce al «Padre e creatore del mondo intero», Lettera ai Corinti 19,2 e 35,3, in C. Dell’Osso, I Padri apostolici, Città Nuova, Roma 2011, pp. 51 e 60; Giustino parla del «Padre e Signore dell’universo», I Apologia 12,9; 61,3, trad. it. di G. Girgenti, Rusconi, Milano 1995, pp. 57 e 157; Taziano evoca anche l’«Autore degli spiriti» e il «Padre del sensibile e del visibile», Ai Greci IV,3, trad. it. di G. Aragione, Paoline, Milano 2015, pp. 155-157. É un’idea che si trova già presso gli autori greci: Platone considera il dio come «l’autore e il padre di tutto l’universo»: Timeo 28c; 41a, trad. it. di G. Lozza, Mondadori, Milano 1994, pp. 25. 47; si veda anche Epitteto, Diatribai I,9,7. trad. it. di D. Bassi, Razzolini, Firenze 1915, p. 13.

[12] Contrariamente ad Eschilo, che parla del «τῶν θεῶν φθόνος», “l’invidia degli dèi” (I Persiani 362, trad. it. di C. Carena, Eschilo, Le supplici. I Persiani. Prometeo incatenato. I sette contro Tebe, Mondadori, Verona 1960, p. 95), si veda Tommaso d’Aquino, Contra Gentiles, l. 1 cap. 89 n. 12: «Invidiam igitur in Deo impossibile est esse, etiam secundum suae speciei rationem: non solum quia invidia species tristitiae est, sed etiam quia tristatur de bono alterius, et sic accipit bonum alterius tanquam malum sibi».

[13] Cf. Ilario di Poitiers, De Trinitate, IX, 61, trad. it. di A. Orazzo, vol. 2, Città Nuova, Roma 2011, pp. 161-162.

[14] Cf. Ippolito, C. Noet. 10,1-2, trad. it. di M. Simonetti, Ippolito, Contro Noeto, Dehoniane, Bologna 2000, p. 171. Tertulliano: «Ante Omnia enim Deus erat solus, ipse sibi et mundus et locus et omnia. Solus autem quia nihil aliud extrinsecus praeter illum. Ceterum ne tunc quidem solus; habebat enim secum quam habebat in semetipso, rationem suam»: Adversus Praxean, 5,2, CCL 2, p. 1163.

[15] Cf. Martyre de saint Polycarpe, in C. Dell’Osso, I Padri apostolici, pp. 145-156; Giustino, I Apologia 63, trad. it. di G. Girgenti, pp. 161-165.

[16] Si veda l’anatematismo diretto contro Ario alla fine del Simbolo di Nicea: DH 126.

[17] Ario, Lettera a Eusebio di Nicomedia 5, in M. Simonetti, Il Cristo, vol. 2, Mondadori, Roma 1986, p. 73.

[18] In una lettura posteriore a Nicea, Cromazio di Aquileia afferma: «Come la nostra prima creazione avvenne per l’intervento della Trinità, così per l’intervento della Trinità avviene la seconda. Infatti, non c’è opera del Padre senza il Figlio né senza lo Spirito Santo, perché l’opera del Padre è l’opera del Figlio, l’opera del Figlio è l’opera dello Spirito Santo»: Cromazio d’Aquileia, Sermone 18, 4, trad. it. di G. Banterle, San Cromazio di Aquileia, I sermoni, Scrittori dell’area santambrosiana 3/I, Biblioteca Ambrosiana – Città Nuova, Milano-Roma 1989, p. 113.

[19] Sull’“oblio” dello Spirito Santo, si veda Y. Congar, Credo nello Spirito Santo, Queriniana, Brescia 1998, pp. 180-186. Le analisi di Congar si concentrano soprattutto sui secoli XIX-XX, ma i fenomeni che descrive esistono ancora, anche se in maniera più sottile.

[20] «Credimus […] Patrem […] fontem et originem totius divinitatis», VI Concilio di Toledo, DH 490. Si veda anche Agostino, per il quale il Padre è «il Principio di tutta la Divinità», Agostino, De Trinitate, IV, 29,trad. it. di G. Beschin, Sant’Agostino, La Trinità, Città Nuova, Roma 20033, p. 225.

[21] Versione del Simbolo di Nicea (325).

[22] «Non è un Dio di altro genere, ma il Padre e il Figlio sono una cosa sola»: Ilario di Poitiers, De Trinitate, VIII, 41, trad. it. di A. Orazzo, vol. 2, p. 89.

[23] Cf. B. Sesboüé, Storia dei Dogmi. 1. Il Dio della salvezza: I-VIII secolo, Dio, la Trinità, il Cristo, l’economia della Salvezza, Casale Monferrato, Piemme 1996, p. 222.

[24] Versione latina del Simbolo di Nicea-Costantinopoli, a partire dalla versione tradotta da Rustico nel VI secolo: cf. I. Ortiz de Urbina, Storia dei Concili Ecumenici vol. I, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, p. 172.

[25] Si vedano Efrem e Gregorio Palamas, ma anche Ambrogio: Splendor paternae gloriae come commento a lumen de lumine, in Sant’Ambrogio, Opere poetiche e frammenti. Inni – Iscrizioni – Frammenti, a cura di G. Banterle, G. Biffi, I. Biffi, L. Migliavacca, Opera Omnia di Sant’Ambrogio 22, Biblioteca Ambrosiana – Città Nuova Editrice, Milano-Roma 1994, Inno II, pp. 34-37.

[26] «La dottrina trinitaria può e deve essere vista non come appendice o indebolimento del monoteismo cristiano, bensì come la sua radicalizzazione»: K. Rahner, Unicità e Trinità di Dio nel dialogo con l’Islam, in Idem, Dio e rivelazione, Nuovi Saggi 7, Paoline, Roma 1981, pp. 155-177 (qui p. 161).

[27] Cf. M. Wyschogrod, Abraham’s Promise, Judaism and Jewish-Christian Relations, SCM Press, London 2006, p. 178.

[28] Cf. D. Boyarin, Le Christ Juif, Cerf, Paris 2019, pp. 42-66; P. Lenhardt, L’Unité de la Trinité. À l’écoute de la tradition d’Israël, Éd. Parole et Silence, Paris, 2011; P. Schäfer, Two Gods in Heaven: Jewish Concepts of God in Antiquity, Princeton University Press, Princeton (NJ) 2020.

[29] Cf. D. Boyarin, Le Christ Juif, pp. 55-56, ad esempio. Questa posizione è realmente considerata nel mondo giudaico come una possibile interpretazione del libro di Daniele nel testo aramaico e di diversi testi del periodo del Secondo Tempio, anche se è oggetto di molte discussioni.

[30] Prv 1,9.14; 8,1-36; Sap 1,7; 7,22-27; Sir 24,1-22. Alcuni esegeti utilizzano ugualmente l’espressione “duoteismo” a proposito della Sapienza personificata: cf. J. Trublet [dir.], La Sagesse Biblique. De l’Ancien au Nouveau Testament, Lectio Divina 160, Cerf, Paris 1995.

[31] Cf. L. W. Hurtado, One God, one Lord. Early Christian Devotion and Ancient Jewish Monotheism, T&T Clark, Edinburg 19982 (1988); R. Bauckham, «God Crucified» (1996), in R. Bauckham, Jesus and the God of Israel, Paternoster, Crownhill (UK) 2008, pp. 1-59. Ad esempio, una parte del Simbolo di Nicea è stata formulata nella prima letteratura giudaico-cristiana primitiva, cioè nelle Odi di Salomone, che datano circa tra il 70-125 d.C. (cf. Ode 14:12-17, in A. Rahlfs, R. Hanhart [ed.], Septuaginta, SESB Edition, Stuttgart 2006).

[32] La versione latina del Simbolo distingue il fatto che il Cristo abbia preso carne “per opera (de)” dello Spirito Santo e “dalla (ex)” Vergine Maria.

[33] J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo apostolico, Queriniana, Brescia 202326, p. 24.

[34] «Seguendo i santi Padri, all’unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo [composto] di anima razionale e di corpo, consustanziale al Padre per la divinità, e consustanziale a noi per l’umanità, simile in tutto a noi, fuorché nel peccato (Eb 4,15), generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza da Maria vergine e madre di Dio, secondo l’umanità», Concilio Ecumenico di Calcedonia, DH 301.

[35] «L’uomo non sarebbe stato divinizzato se fosse stato unito ad una creatura, ovvero se il Figlio non fosse stat overo Dio, e l’uomo non starebbe da presso al Padre se non fosse stato il naturale e vero Logos del Padre ad indossare il corpo. Come non saremmo stati liberati dal peccato e dalla maledizione se la carne indossata dal Logos non fosse stata per natura umana (non avremmo infatti nulla in comune con ciò che è da noi estraneo)»: Atanasio, Trattati contro gli ariani II, 70, trad. it. di P. Podolak, Città Nuova, Roma 2003, p. 227.

[36] Ibid., III, 7,3, p. 254.

[37] Questa espressione si trova presso i Padri, dove altri attori della storia sono a volte menzionati con Pilato, come “Erode il Tetrarca” (Ignazio di Antiochia, Lettera agli Smirnesi 1, 2, in C. Dell’Osso, I Padri apostolici, p. 117) o “Tiberio Cesare” (Giustino, I Apologia 13,3, trad. it. di G. Girgenti, pp. 58-59).

[38] «L’antica Alleanza, un’Alleanza che non è mai stata revocata da Dio», Giovanni Paolo II, Incontro con i rappresentanti della comunità ebraica, Magonza 17 novembre 1980, 3; «L’Antica Alleanza non è mai stata revocata», Catechismo della Chiesa Cattolica, 121: cf. Francesco, Esort. Ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 247.

[39] Concilio Ecumenico Vaticano II, Dich. Nostra aetate, 28 ottobre 1965, 4.

[40] Già in Ireneo di Lione, Contro le eresie IV, 34,3, trad. it. di A. Cosentino, vol. 2, Città Nuova, Roma 2009, p. 271: «Da dove i profeti avrebbe potuto prevedere la venuta del re, preconizzare la libertà che sarebbe venuta da lui, preannunziare tutte le cose che sarebbero state fatte dal Cristo, le sue parole, le sue azioni, la sua passione, predicare il Nuovo Testamento, se avessero ricevuto l’ispirazione profetica da un altro Dio, che ignorava – secondo voi – il Padre indicibile, il suo regno, le sue economie, le quali il Figlio di Dio ha portato a compimento in questi ultimi giorni quando è venuto sulla terra?». Cf. A. De Halleux, «La profession de l’Esprit-Saint dans le Symbole de Constantinople», Revue théologique de Louvain, 10e année, fasc. 1, 1979, pp. 5-39. Un Simbolo di Epifanio di Salamina, datato attorno al 374, sviluppa ulteriormente questo tema: «Crediamo nel Santo Spirito, che parlò nella Legge e predicò nei profeti e discese sul Giordano, parla negli apostoli e abita nei santi», DH 44.

[41] Giovanni II, Lettera Olim quidem, marzo 534, DH 401. «Se qualcuno non confessa che il Signore nostro Gesù Cristo, crocifisso nella sua carne, è vero Dio, Signore della gloria e Uno della santa Trinità, costui sia anatema», II Concilio Ecumenico di Costantinopoli, Anatematismo 10, DH 432.

[42] «Ciò che è già compiuto in Cristo deve ancora compiersi in noi e nel mondo. Il compimento definitivo sarà quello della fine, con la risurrezione dei morti, i cieli nuovi e la terra nuova. L’attesa messianica ebraica non è vana. Essa può diventare per noi cristiani un forte stimolo a mantenere viva la dimensione escatologica della nostra fede. Anche noi, come loro, viviamo nell’attesa. La differenza sta nel fatto che per noi Colui che verrà avrà i tratti di quel Gesù che è già venuto ed è già presente e attivo tra noi»: Pontificia Commissione Biblica, Il popolo ebraico e le sue Scritture nella Bibbia cristiana, 2001, 21.

[43] Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1848.

[44] Cf. Concilio di Orange (529), canone 1, DH 371, e canone 2, DH 372.

[45] Secondo Ireneo, Gesù si riferisce qui a «coloro che hanno ricevuto l’adozione filiale» in lui. Cf. Ireneo di Lione, Contro le eresie III, 6,1, trad. it. di A. Cosentino, vol. 2, p. 24.

[46] «Cristo, l’uomo che è in Dio, per l’eternità una cosa sola con Dio, è al tempo stesso il perpetuo essere aperto di Dio per l’uomo. Egli stesso è, quindi, ciò che noi chiamiamo “cielo”, poiché il “cielo” non è uno spazio, ma una persona, la persona di Colui nel quale Dio e uomo sono per sempre inseparabilmente uno. E noi ci avviciniamo al “cielo”, anzi, entriamo nel “cielo”, nella misura in cui ci avviciniamo a Gesù Cristo ed entriamo in Lui», J. Ratzinger, Gesù di Nazaret. Scritti di cristologia, ed. it. di P. Azzaro, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2023, (Opera Omia 6/2) pp. 273-274. Cf. anche H.U. von Balthasar, «Eschatologie», in J. Feiner, J. Trütsch et F. Böckle (éd.), Fragen der Theologie heute, Einsiedeln, Zurich, Cologne 1957, pp. 403-421 (qui pp. 407-408).

[47] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Past., Gaudium et spes, 7 dicembre 1965, 22.

[48] Cf. Giovanni della Croce, Cantico spirituale A 38, 3-7; B 39, 2-7, trad. it. del Carmelo di Legnano, Paoline, Milano 1991, pp. 400-404.

[49] Paolo VI, «Allocuzione finale del Concilio Vaticano II», 7 dicembre 1965, § 8.

[50] Cf. Concilio di Calcedonia, DH 301.

[51] Cf. il Simbolo degli Apostoli.

[52] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, IV, 81.

[53] B. Pascal, Pensieri 434, in Pensieri e altri scritti, San Paolo, Cinisello Balsamo 1987, p. 270; cf. Francesco, Lett. Ap. Sublimitas et miseria hominis per il IV centenario della nascita di Blaise Pascal, 19 giugno 2023.

[54] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm. Lumen gentium, 21 novembre 1964, 48; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Dominus Iesus, 6 agosto 2000, 20.

[55] Ippolito di Roma, Traditio Apostolica, 6, trad. it. di E. Peretto, Città Nuova, Roma 1996, p. 113.

[56] «Come l’unica bontà di Dio è realmente diffusa in vari modi nelle creature, così anche l’unica mediazione del Redentore non esclude, bensì suscita nelle creature una varia cooperazione partecipata da un’unica fonte», Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm. Lumen gentium, 21 novembre 1964, 62.

[57] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Past. Gaudium et spes, 7 dicembre 1965, 24-25.

[58] Ibid., 22.

[59] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm. Lumen gentium, 21 novembre 1964, 1.

[60] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Sacrosanctum Concilium, 4 dicembre 1963, Appendice.

[61] Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica I, 9, trad. it. di A. Gallico, Città Nuova, Roma 2000, pp. 90-94.

[62] Cf. La Lettera alle Chiese, pubblicata in H. Pietras, Concilio di Nicea (325) nel suo contesto, GBPress, Roma 2021, pp. 204-208 (Eusebio, Vita Constantini, 3.17-20); «Purtroppo con questa decisione venne abbandonata la data comune di Pasqua tra cristiani ed ebrei», Card. K. Koch, «Verso una celebrazione ecumenica del 1700° anniversario del Concilio di Nicea (325-2025)», L’Osservatore Romano, 30 aprile 2021.

[63] Rispettivamente Giovanni Paolo II, Incontro con la comunità ebraica nella sinagoga della città di Roma, 13 aprile 1986, 4, e Benedetto XVI, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con P. Seewald, ed. it. a cura di P. Azzaro, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, p. 123.

[64] Atanasio, Vita di Antonio, trad. it. di L. Cremaschi, Paoline, Milano 1995, pp. 192-193.

[65] «Se non venisse data anche a noi la possibilità di un incontro vero con Lui, sarebbe come dichiarare esaurita la novità del Verbo fatto carne. Invece, l’incarnazione oltre ad essere l’unico evento nuovo che la storia conosca, è anche il metodo che la Santissima Trinità ha scelto per aprire a noi la via della comunione. La fede cristiana o è incontro con Lui vivo o non è. La Liturgia ci garantisce la possibilità di tale incontro», Francesco, Lett. Ap. Desiderio desideravi, 29 giugno 2022, 10-11.

[66] Cf. A Diogneto, V, 10-11, in C. Dell’Osso, I Padri apostolici, p. 346.

[67] Atenagora, Legatio (Supplicatio) pro Christianis (176-180 d.C.) 12,3; cf. 24,2, trad. it. di C. Burini, Gli apologeti greci, Città Nuova, Roma 1986, pp. 264; 294-295.

[68] Ambrogio, De fide ad Gratianum I, 1,8, in Sant’Ambrogio, Opere dogmatiche I. La Fede, a cura di C. Moreschini, Opera Omnia di Sant’Ambrogio 15, Biblioteca Ambrosiana – Città Nuova Editrice, Milano-Roma 1984, pp. 58-59.

[69] Ilario di Poitiers, De Trinitate II, 1, trad. it. di A. Orazzo, vol. 1, Città Nuova, Roma 2011, pp. 147-148.

[70] Efrem, De fide (Against the Disputers) trad. J. B. Morris, Select Works of St. Ephrem the Syrian, 1847, rhythm 52, n. 1 (Morris, p. 273); 59, n. 2 (ibid., p. 300); 76, n. 1 (ibid., p. 347).

[71] Atanasio, Trattati contro gli ariani II, 41,4, e 41,5, trad. it. di P. Podolak, p. 188.

[72] Cf. anche Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo X, 26, trad. it. di G. Azzali Bernardelli, Città Nuova, Roma 1998, pp. 121-122: «Per qual motivo noi siamo cristiani? Per la fede, potrebbe dire ognuno. In qual modo siamo salvati? Rinati dall’alto, evidentemente, per la sua grazia (conferitaci) nel battesimo. Come lo saremmo infatti diversamente? Avendo conosciuto questa salvezza assicurata dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito santo, getteremo via la forma, “il tipo di insegnamento” (typon didachès, Rm 6,17) ricevuto? […] Se infatti il battesimo è per me principio di vita e se il primo dei giorni è quello della rigenerazione, è chiaro che la parola più preziosa fra tutte è quella pronunziata al momento in cui mi è stato fatto il dono dell’adozione filiale». Allo stesso modo, per quanto riguarda lo Spirito Santo: Atanasio, Lettere a Serapione I, 30,3, trad. it. di E. Cattaneo, Città Nuova, Roma 1986, p. 97.

[73] Atanasio, Trattati contro gli ariani II, 42,3, trad. it. di P. Podolak, p. 189; Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo X, 26, trad. it. di G. Azzali Bernardelli, pp. 121-123; Gregorio di Nissa, Grande discorso catechetico, 1,2, trad. it. di C. Moreschini, Gregorio di Nissa. Opere dogmatiche, Bompiani, Milano 2014, p. 205.

[74] Cf. Ambrogio, De fide ad Gratianum I, 9,58, in Sant’Ambrogio, Opere dogmatiche I. La Fede, a cura di C. Moreschini, pp. 82-85; ugualmente Zenone di Verona, Discorsi II 5,9, trad. it. di G. Banterle, Scrittori dell’area santambrosiana 1, Biblioteca Ambrosiana – Città Nuova, Milano-Roma 1987, p. 253.

[75] Cf. Atanasio, De decretis Nicaenae synodi, 33-1 – 33-7, trad. it. di E. Cattaneo, Atanasio, Il credo di Nicea, Città Nuova, Roma 2001, pp. 127-128.

[76] Cf. Ilario di Poitiers, Contro l’imperatore Costanzo 16, trad. it. di L. Longobardo, Città Nuova, Roma 1997, pp. 62-63; Ilario difende Nicea dal rimprovero di non essere conforme alle Scritture: secondo lui, le nuove malattie esigono la composizione di nuovi rimedi. Allo stesso modo anche l’espressione “innascibile”, che era un cavallo di battaglia di Ario, Aezio ed Eunomio, non è di per sé un termine biblico per designare il Padre: «Tu stabilisci che il Figlio è simile al Padre [similem Patri Filium]. Ma i Vangeli non lo proclamano: perché non respingi anche questa espressione?».

[77] Atanasio, Epistula ad Afros episcopos, 1,1.3, trad. it. in A. Gallico, Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica I 8,7-16, Città Nuova, Roma 2000, pp. 87-89; il credo di Nicea è “sufficiente”. Cf. Atanasio, Epistula ad Epictetum, 1 (Werke I/1, p. 705s.).

[78] Il termine “niceno” poteva ugualmente essere applicato a formulazioni di confessioni di fede che ampliavano il Simbolo di Nicea, a condizione che queste ne conservassero il contenuto e non adottassero dottrine opposte. Cf. DH 300 (e supra, § 4).

[79] Concilio di Calcedonia, Actio 3, 10.12; 2,1,2, 79 [gr.]; 2,3,2, 5f [lat.], DH 300; la “definizioneˮ (horos) di Calcedonia si fonda su Nicea, insieme al Simbolo dei 150 Padri riuniti a Costantinopoli (ACO 2,1,2, 126-129 [gr]): «Questo sapiente e salutare simbolo della divina grazia sarebbe già sufficiente alla piena conoscenza e conferma della fede. Offre infatti un perfetto insegnamento intorno al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo e presenta, a chi l’accoglie con fede, l’incarnazione del Signore»: «Sufficeret quidem ad plenam cognitionem pietatis et confirmationem sapiens hoc et salutare divinae gratiae Symbolum; de Patre enim et de Filio et de Spiritu sancto perfectionem docet et inhumanationem fideliter accipientibus repraesentat» (COeD, 1962, p. 60).

[80] Francesco, Bolla di indizione del Giubileo ordinario dell’anno 2025, Spes non confundit, 9 maggio 2024, 17.

[81] Si tratta di un rimando simbolico a Gn 14,14.

[82] Atanasio, De synodis 5, 3 (Athanasius, Werke II/1 p. 234), nostra traduzione.

[83] Cf. Basilio di Cesarea, Homilia 16 in illud “In principio erat Verbum”, PG 31, coll. 471-482. Si noterà, comunque, che il Simbolo, a differenza del Prologo di Giovanni, evita il termine “Logos”. In quanto concetto centrale della filosofia greca, il termine veniva inevitabilmnete compreso in modo subordinazionista (ariano) dai Padri più familiarizzati con la filosofia greca.

[84] Chi, come Fotino o Ario, “non crede che Cristo è Dio, o che il Figlio procede dal Padreˮ, “rende amaro” l’evangelista Giovanni: Cromazio d’Aquileia, Sermone 21,3, trad. it. di G. Banterle, p. 127. «Cammina sempre di giorno chi segue Cristo, eterna luce»: Sermo 18,1, p. 109. «Unico è, dunque, il trono della maestà del Padre e del Figlio», «non c’è nessuna distinzione di dignità»: Sermo 8,4, p. 57.

[85] Zenone di Verona, Discorsi II, 5, 9 e 10, trad. it. di G. Banterle, p. 253; Sermo II, 8, pp. 269-273.

[86] Giovanni Crisostomo, Catechesi battesimali III,1, trad. it. di A. Ceresa-Gastaldo, Città Nuova, Roma 1982, pp. 75-76.

[87] Agostino, De agone christiano, 18, trad. it. di C. Carena – L. Manca – P. Siniscalco – C. Fabrizi – V. Tarulli – F. Cruciani, Sant’Agostino, Morale e ascetismo cristiano, Città Nuova, Roma 2001, p. 101; De fide et symbolo, 5 e 18, trad. it. di A. Pieretti, Sant’Agostino, La fede e il simbolo, Città Nuova, Roma 1995, pp. 261; 279-281. Il dibattito propriamente teologico con gli homei è condotto da Agostino nel De Trinitate I-VII così come nel Contra sermonem Arianorum e nel Contra Maximinum haereticum Arianorum episcopum: trad. it. di E. Peroli, Sant’Agostino, Opere antiariane, Città Nuova, Roma 2000.

[88] Gregorio di Nissa, Grande discorso catechetico, 39, 5, trad. it. di C. Moreschini, Gregorio di Nissa. Opere dogmatiche, p. 333: «Allora colui che ha senno dovrà necessariamente scegliere una delle due eventualità: o crede che la santa Trinità sia di natura increata e che per questo è l’iniziatrice, per mezzo della generazione spirituale, della sua stessa vita, oppure, se pensa che il Figlio e lo Spirito Santo siano estranei alla natura del Dio primo e vero e buono (intendo dire il Padre), e non accetta, nel momento della generazione, la fede in queste Persone, faccia attenzione a non venire a far parte di quella natura che è manchevole e bisognosa di chi la renda buona; a non ricondursi, in certo qual modo, alla sostanza a lui connaturata, allontanando la sua fede dalla natura suprema».

[89] Ambrogio, In Lucam IV, 67, in Sant’Ambrogio, Opere esegetiche IX/1, Esposizione del Vangelo secondo Luca, trad. it. di G. Coppa, Opera Omnia di Sant’Ambrogio 11, Biblioteca Ambrosiana – Città Nuova Editrice, Milano-Roma 1978, pp. 353-355.

[90] Cf. A. Grillmeier, «Das “Gebet zu Jesusˮ und das “Jesusgebetˮ», in Fragmente zur Christologie. Studien zum altkirchlichen Christusbild, Fribourg 1997, pp. 357-371.

[91] Cf.2Cor 12,8.9; Rm 10,12; 2Pt 3,18; invocazioni inserite nella liturgia: 1Cor 16,22; Ap 22,20; cf. Didachè 10,6.

[92] In particolare Fil 2,6-11; Col 1,15-20; Ef 1,3-10; 1Tm 3,16; Ap 5,6-14.

[93] Cf. Origene, De oratione X, 2; XV, 1: «Se abbiamo compreso la vera essenza della preghiera, non dobbiamo pregare mai alcuno dei mortali, neppure lo stesso Cristo»; XVI,1, trad. it. di N. Antoniono, Origene, La preghiera, Città Nuova, Roma 1997, pp. 64-65; 84-85; 88-89.; Contra Celsum, VIII, 13, trad. it. di P. Ressa, Origene, Contro Celso, Morcelliana, Brescia 2000, p. 573.

[94] Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo 25-29.68, trad. it. di G. Azzali Bernardelli, pp. 120-128; 185-186.

[95] Ad esempio Atanasio, che utilizza la dossologia tradizionale in funzione anti-sabelliana, e Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo 3.4.16, trad. it. di G. Azzali Bernardelli, pp. 89-91; 106-108, che sottolinea la differenza tra oikonomia (la mediazione salvifica di Cristo) e theologia (figlio della stessa dignità).

[96] Si veda ad esempio la Traditio apostolica: durante la consacrazione dei vescovi e dei presbiteri, così come durante la preghiera eucaristica, la dossologia finale era la seguente: «Per il tuo servo Gesù Cristo, per il quale la gloria è al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo»; Origene, Omelie su Luca 37, 5, trad. it. di S. Aliquò, Origene, Commento al Vangelo di Luca, Città Nuova, Roma, 1969, p. 234; Gregorio di Nazianzo, Oratio 19, n. 17: «Offriamo a Dio l’obbligo della lode, che è una sola per il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo»; Oratio 17, n. 13: «In Cristo Gesù Signore nostro. A lui la gloria e la potenza, l’onore ed il regno con il Padre e lo Spirito Santo, come era e sarà ed è ora e nei secoli dei secoli», in Gregorio di Nazianzo. Tutte le orazioni, a cura di C. Moreschini, trad. it. di C. Sani e M. Vincelli, Bompiani, Milano 2000, pp. 493, 429.

[97] Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo 29,73, trad. it. di G. Azzali Bernardelli, pp. 192-193. L’esempio del vescovo Leonzio di Antiochia mostra a che punto la questione della forma della dossologia poteva diventare esplosiva nella vita delle Chiese locali: per non creare confusione con gli ariani o i loro avversari, egli non pronunciava più le parole della dossologia ad alta voce, così che «i vicini sentivano soltanto la conclusione nei secoli dei secoli»: Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica 2,24,3, trad. it. di A. Gallico, p. 199.

[98] Basilio di Cesarea, Epistula 159, 2; cf. Ep. 125, 3, Courtonne II, pp. 86s., poi pp. 33s. Cf. anche Lo Spirito Santo VII, 16; X, 24; X, 26, trad. it. di G. Azzali Bernardelli, pp. 106-108.

[99] Testo di A. Grillmeier, Fragmente zur Christologie, Fribourg 1997, p. 365.

[100] Gregorio di Nissa, Epistula 5,7, trad. it. in R. Criscuolo, Associazione di studi tardoantichi, Napoli 1981, pp. 93-94.

[101] Cassiodoro, Expositio psalmorum, prooem. n. 17, trad. it. di A. Caruso, Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, Spaccati di vita. 1. I salmi di Gesù, Vivere in, Roma 2004, p. 2.

[102] Il Sinodo di Vaison (524 d.C.), Canone 5, Mansi 8, col. 725: «Quia non solum in sede apostolica, sed etiam per totum Orientem et totam Africam vel Italiam propter Haereticorum astutiam, qui Dei filium non semper cum Patre fuisse, sed a tempore coepisse blasphemant, in omnibus clausulis post Gloriam patri etc. Sicut erat in principio dicitur; etiam et nos in universis ecclesiis nostris hoc ita dicendum esse decernimus».

[103] Cf. Sozomeno, Storia ecclesiastica VIII, 8,1-3, trad. it. di S. Borzì, Città Nuova, Roma 2024, pp. 612-613; Ambrogio, Contra Auxentium sermo de basilicis tradendis n. 34, in Sant’Ambrogio, Discorsi e Lettere II/III. Lettere, a cura di G. Banterle, Opera Omnia di Sant’Ambrogio 21, Biblioteca Ambrosiana – Città Nuova Editrice, Milano-Roma 1988, p. 135.

[104] Si veda per esempio, De Nativitate IV, 143-214 e XI. Il testo De Nativitate IV, 154-156 è molto chiaro: «E mentre abitava nel grembo di sua madre, nel suo grembo abitavano tutte le creature. Stava in silenzio come un feto mentre impartiva tutti i suoi precetti a tutte le sue creature. Senza il primogenito nessuno può avvicinarsi all’essenza [divina]: lui [solo] ne è all’altezza» (trad. it. di I. De Francesco, pp. 194-195).

[105] De fide LXXVI, 1-3. 7 (ed. Beck, Louvain, 1955, CSCO 154, pp. 232-233; CSCO 155, pp. 198-199); ibid., VI, 1-8 (CSCO 154, pp. 24-27; CSCO 155, pp. 18-20).

[106] Si vedano gli inni De fide, XL e LXXIII.

[107] Inni De fide, LII, 1-3 (CSCO 154, pp. 161-162; CSCO 155, p. 138).

[108] Efrem, Hymnes contre les hérésies. Hymnes contre Julien, tome I. Hymnes contre les hérésies I-XXIX, XXII, 20, Testo critico di CSCO di E. Beck, o.s.b.; introduzione, traduzione, note e indice di D. Cerbelaud, o.p., SC 587, Cerf, Paris 2017, p. 399. Bisogna notare che, anche se l’insegnamento di Efrem è perfettamente in accordo con l’ortodossia nicena, il vocabolario e le espressioni non sono quelle di Nicea; la cosa è certamente dovuta alla forma poetica, consapevolmente scelta, e non discorsiva, di questo insegnamento.

[109] Balaï (Balaeus), Gebete, BKV 26, p. 92s; Isacco di Antiochia, 1er poème sur l’Incarnation (S. Isaaci Antiochi Opera omnia I, ed. G. Bickell, 1873, p. 23).

[110] Prudenzio, Apotheosis, linea 309-311, testo critico, trad., commento e indici di G. Garuti, Mucchi editore, Modena 2005, p. 70.

[111] Si veda Ireneo, così spesso citato da Henri de Lubac: «Omnem novitatem attulit, semetipsum afferens», Ireneo di Lione, Contro le eresie IV, 34,1, trad. it. di A. Cosentino, vol. 2, pp. 270-271; cf. anche Francesco, Esort. Ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 11.

[112] Su questa distinzione, si veda Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm. Dei Verbum, 18 novembre 1965, 2-5 e 7-8.

[113] «Noi non possiamo conoscere Dio senza l’aiuto di Dio», Ireneo di Lione, Contro le eresie IV, 5,1, trad. it. di A. Cosentino, vol. 2, p. 158.

[114] «Se noi riceviamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è più grande. Questa infatti è la testimonianza di Dio: egli ha reso testimonianza a suo Figlio. Chi crede nel Figlio di Dio, ha questa testimonianza in sé» (1Gv 5,9-10).

[115] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm. Dei Verbum, 18 novembre 1965, 2.

[116] J. Ratzinger, Gesù di Nazaret. La figura e il messaggio, (Opera Omia 6/1), ed. it. a cura di P. Azzaro, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, p. 438.

[117] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm. Dei Verbum, 18 novembre 1965, 2; cf. 2Pt 1,4.

[118] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa theologica, II-II, q.25, a.1, Resp.

[119] Paolo sottolinea che Cristo ci fa entrare nel pensiero di Dio stesso, quando cita Isaia 40,13: «Chi ha conosciuto il pensiero del Signore (LXX: noun Kuriou; Heb: ruah Adonai) per istruirlo? Ora, noi abbiamo il pensiero di Cristo» (cf. anche Rm 11,34). Cf. M. Quesnel, La première épître aux Corinthiens, Commentaire Biblique: Nouveau Testament 7, Cerf, Paris 2018, pp. 88-92.

[120] Francesco, Lett. Enc. Lumen fidei, 29 giugno 2013, 18.

[121] Ibid., n. 27, dove si cita Gregorio Magno, Homiliae in Evangelia, II, 27, 4: PL 76, 1207.

[122] Cf. Francesco, Discorso a Napoli in occasione della conferenza “La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del mediterraneo”, 21 giugno 2019, p. 9.

[123] «Dalla grandezza e bontà delle creature per analogia si può conoscere il loro autore» (Sap 13,5). Cf. Sancti Thomae de Aquino Scriptum super Sententiis liber I, q. 1, a. 2, ad 2, che evoca l’«analogia creaturae ad Creatorem».

[124] Cf. M. Lochbrunner, Analogia Caritatis. Darstellung und Deutung der Theologie Hans Urs von Balthasars, Freiburg im Breisgau – Basel – Wien, Herder, coll. «Freiburger Theologische Studien», n. 120, 1981, p. 62 e pp. 292-293. Si veda anche Commissione Teologica Internazionale, Teologia, Cristologia e antropologia, 1981, D, 1: «L’annuncio che ha per oggetto Gesù Cristo, Figlio di Dio, si presenta sotto il segno biblico per voi, per cui la cristologia tutta va trattata in prospettiva soteriologica. Giustamente, quindi, in un certo senso, alcuni autori moderni hanno tentato di elaborare una cristologia “funzionale”. Viceversa, però, bisogna parimenti ritenere che “l’esistenza per gli altri” di Gesù Cristo non può separarsi dalla sua relazione al Padre, né dalla sua comunione intima con lui e che, di conseguenza, deve fondarsi sulla sua filiazione eterna. La pro-esistenza di Gesù Cristo, mediante la quale Dio stesso si comunica agli uomini, presuppone la sua pre-esistenza».

[125] Per questo san Tommaso d’Aquino insiste sul fatto che Adamo è stato dotato della grazia fin dalla creazione, senza la quale non avrebbe potuto realizzare la sua vocazione umana. Cf. Sancti Thomae de Aquino Scriptum super Sententiis liber II, d.29, q.1, a.2; d.30, q.1, a.1; Summa theologica, I, q.95, a.1; I-II, q.109, a.5.

[126] J. Ratzinger, Gesù di Nazaret. Scritti di cristologia, (Opera Omnia 6/2), ed. it. a cura di P. Azzaro, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015, p. 85.

[127] Ibid., p. 86.

[128] «In verità, in verità io vi dico: il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo. Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati» (Gv 5,19-20); «Poiché questo è il messaggio che avete udito da principio: che ci amiamo gli uni gli altri» (1Gv 3,11).

[129] J. Ratzinger, Gesù di Nazaret, op. cit., p. 92.

[130] Cf. Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate, 29 giugno 2009, 33.

[131] P. Florensky, La Colonna e il fondamento della verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Milano 2024, pp. 63-64. Quando Florensky evoca la «definizione della Chiesa», piuttosto che l’istituzione ecclesiale, egli intende il Mistero della Chiesa in tutta la sua profondità mistica e teologica.

[132] «Τοῦ Θεοῦ Λόγον ἀρνούμενοι, εἰκότως καὶ λόγον παντός εἶσιν ἕρημοι», Atanasio, Il credo di Nicea, Introduzione, 2,1, trad. it. di E. Cattaneo, p. 57.

[133] Cf. Agostino, Confessioni, III, vi, 11, trad. it. di C. Carena, Città Nuova Roma 20078, p. 67; Tommaso d’Aquino, Summa theologica, I, q.104, a.1, Resp.

[134] Cf. supra, §§ 32-37.

[135] Cf. Commissione Teologica Internazionale, Teologia, Cristologia e antropologia, 1982, C.

[136] Francesco, Esort. Ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 115.

[137] «É proprio della persona umana non poter giungere ad una personalità vera e piena se non per mezzo della cultura, coltivando cioè i beni e i valori della natura», Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Past. Gaudium et spes, 7 dicembre 1965, 53, § 1.

[138] Francesco, Esort. Ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 115. Si veda anche, come esempi, Id., Lettera sul ruolo della letteratura nella formazione, 17 luglio 2024; Id. Lettera sul rinnovamento dello studio della storia della Chiesa, 21 novembre 2024.

[139] Francesco, Cost. Ap. Veritatis gaudium, 27 dicembre 2017, 2, che si ispira all’Esortazione Apostolica di Papa Paolo VI, Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, 19.

[140] Concilio Ecumenico Vaticano II, Decr. Ad gentes, 7 dicembre 1965, 11.

[141] Ad esempio, l’Egô eimi del IV Vangelo, o la terminologia di Eb 1,3 o di 2Pt 1,4.

[142] «Quando la Chiesa entra in contatto con grandi culture precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle spalle ciò che ha acquisito dall’inculturazione nel pensiero greco-latino. Rifiutare una simile eredità sarebbe andare contro il disegno provvidenziale di Dio, che conduce la sua Chiesa lungo le strade del tempo e della storia», Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Fides et Ratio, 14 settembre 1998, 72.

[143] Ibid., 71.

[144] Si veda la tematica della “teologia dell’ascolto” come antidoto alla “sindrome di Babele”, Francesco, Discorso in occasione del Convegno “La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del mediterraneo” promosso dalla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Napoli 21 giugno 2019, AAS 111 (2019) 1101; 1103-1104.

[145] Questa purificazione e trasfigurazione delle culture è ciò che permette di evitare il rischio del relativismo, sottolineato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Dominus Iesus, 6 agosto 2000, 4.

[146] «L’incontro della fede con le diverse culture ha dato vita di fatto a una realtà nuova», Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Fides et Ratio, 14 settembre 1998, 70. Sul mantenimento dell’identità culturale si veda ibid., 71.

[147] A Diogneto, V, 1-4, in C. Dell’Osso, I Padri apostolici, pp. 345-346.

[148] «Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe […]. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. […] Una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerraˮ». (Is 2,2-4; cf. Mic 4,1-4); «La mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,7; cf. Zc 14,16).

[149] É sorprendente constatare come Paolo, proclamando il Vangelo nella scia di Pentecoste, celebri all’Areopago l’unità della famiglia umana: «Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio» (At 17,26).

[150] Cf. Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Fides et Ratio, 14 settembre 1998, 95-96.

[151] Cf. Alessandro di Alessandria, Lettera ad Alessandro di Bisanzio 5, trad. it. in A. Gallico, Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica I, 4,1-60, pp. 59-75.

[152] Cf. Commissione Teologica Internazionale, La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, 2018, 19.

[153] Cipriano, Epistula 14, 4, trad. it. di M. Vincelli, Scrittori cristiani dell’Africa romana 5/1, Città Nuova, Roma 2006, p. 163. Questo sviluppo su Ignazio di Antiochia e Cipriano segue da vicino il documento della Commissione Teologica Internazionale, La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, 25, che potrà essere consultato per maggiori dettagli.

[154] Commissione Teologica Internazionale, La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, 28.

[155] Cf. J. A. Brundage, Medieval Canon Law, Longman, London-New York 1995, p. 5.

[156] Un sinodo è per principio «governato secondo il principio del consenso e della concordia (harmonia) espresse dalla concelebrazione eucaristica, come implicato dalla dossologia finale del Canone apostolico, n. 34», Commissione Internazionale Mista per il Dialogo Teologico tra la Chiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa, Documento di Ravenna: Conseguenze ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa, Comunione ecclesiale, conciliarità e autorità, 2007, 26; «La Chiesa si [rivela] essa stessa come cattolica nella sinassi della Chiesa locale»: ibid., 22.

[157] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Sacrosanctum Concilium, 4 dicembre 1963, 10; Commissione Teologica Internazionale, La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, 47.

[158] Commissione Teologica Internazionale, La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, 29.

[159] Rousselot considerava che certi procedimenti euristici di san Tommaso corrispondevano a una «priorità e ad una anteriorità reciproca» di due principi inseparabili e ordinati l’uno all’altro: P. Rousselot, s.j., «Les Yeux de la foi», Recherches de Science Religieuse, 1 (1910), p. 448.

[160] Cf. Agostino: “Crede ut intelligas”, Sermo 43, 7 e 9, trad. it. di P. Bellini – F. Cruciani – V. Tarulli, Sant’Agostino, Discorsi, Città Nuova, Roma 2015, pp. 757-761; Anselmo di Aosta: “Credo ut intelligam”, Proslogion, 1,100, trad. it. di G. Sandri, Cedam, Padova 1959, p. 95.

[161] «Al Concilio stesso non s’è voluto dare, e giustamente, uno scopo pastorale, tutto rivolto all’inserimento del messaggio cristiano nella circolazione di pensiero, di parole, di cultura, di costume, di tendenze dell’umanità, quale oggi vive e si agita sulla faccia della terra?», Paolo VI, Lett. Enc. Ecclesiam suam, 6 agosto 1964, 70.

[162] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm. Dei Verbum, 18 novembre 1965, 7-8.

[163] Cf. Catechismo della Chiesa cattolica, 156, con rimando alla Costituzione Dogmatica Dei Filius del Concilio Vaticano I, al cap. 3, DS 3008.

[164] «Hoc autem testimonium vel est hominis tantum: et istud non facit virtutem fidei, quia homo et fallere et falli potest. Vel istud testimonium est ex iudicio divino: et istud verissimum et firmissimum est, quia est ab ipsa veritate, quae nec fallere, nec falli potest. Et ideo dicit, ad Deum, ut scilicet assentiat his quae Deus dicit»: Sancti Thomae de Aquino Super Epistolam B. Pauli ad Hebraeos lectura [rep. vulgata], cap. 6, l. 1.

[165] Il termine impiegato abitualmente è «filiazione», ma si tratta qui di insistere sul cominciare della filiazione, sullo stesso movimento mediante il quale si diventa figli e figlie di Dio.

[166] «Per ricostruire l’intenzione degli agiografi si deve tenere conto tra l’altro anche dei generi letterari. Infatti, la verità viene diversamente proposta ed espressa nei testi secondo i diversi stili storici o profetici o poetici, o altri generi discorsivi. […] Ora, la Scrittura deve essere letta e interpretata con lo stesso Spirito con il quale è stata scritta», Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm. Dei Verbum, 18 novembre 1965, 12.

[167] «Questo progetto della rivelazione avviene con fatti e con parole (gestis verbisque) intrinsecamente connessi tra loro, sicché le opere compiute da Dio nella storia della salvezza manifestano e corroborano la dottrina e le realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e spiegano il mistero in esse contenuto», Dei Verbum, 18 novembre 1965, I, n. 2.

[168] Benedetto XVI, Esort. Ap. Verbum Domini sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa, 30 settembre 2010, 55.

[169] «Mistero della Chiesa, più profondo ancora, se possibile, più “difficile a credersiˮ del Mistero di Cristo, come quest’ultimo era già più difficile a credersi del Mistero di Dio», in H. de Lubac, Cattolicismo. Aspetti sociali del dogma, Opera Omnia 7, trad. U. Massi, Jaca Book, Milano 1978, p. 43.

[170] Concilio Ecumenico Vaticano II, Decr. Unitatis redintegratio, 21 novembre 1964, 11.

[171] Si veda il testo di riferimento L’interpretazione dei dogmi (1990), II, 3, § 3, in Commissione Teologica Internazionale, Documenti 1969-2004, Seconda edizione riveduta e corretta, prefazione Card. W. J. Levada; introduzione L. Ladaria, s.j., Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2010, p. 403; cf. anche Concilio Ecumenico Vaticano I, Cost. Dogm. Dei Filius, 24 aprile 1870, IV, DH 3016.

[172] Si può pensare all’idea di una «conversazione nello Spirito Santo», cf. Francesco, «Discorso di apertura della XVI sessione del Sinodo dei Vescovi», 4 ottobre 2023: «La Chiesa, un’unica armonia di voci, ha diverse voci, suscitate dallo Spirtio Santo: è così che dobbiamo concepire la Chiesa».

[173] Cf. Commissione Teologica Internazionale, La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, 19-21.

[174] Cf. Commissione Teologica Internazionale, Il “sensus fidei” nella vita della Chiesa, 2014, 67-86.

[175] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm. Dei Verbum, 18 novembre 1965, 10.

[176] Commissione Teologica Internazionale, Il “sensus fidei” nella vita della Chiesa, 2014, 77.

[177] Concilio Ecumenico Vaticano II, Decr. Ad gentes, 7 dicembre 1965, 15.

[178] «Tutta la mia fede è nel più banale dei miei segni di croce e, quando pronuncio “Padre Nostroˮ, vi ho incluso tutto quello di cui mi sarà data conoscenza soltanto nella rivelazione della gloria»: Y. Congar, La tradizione e le tradizioni, Saggio teologico, vol. 2, Paoline, Roma 1965, p. 356.

[179] Commissione Teologica Internazionale, La teologia oggi: prospettive, principi e criteri, 2012, 33: «Soggetto della fede è il popolo di Dio nel suo insieme, che nella potenza dello Spirito afferma la Parola di Dio. Per tale ragione il Concilio dichiara che la totalità del popolo di Dio partecipa al ministero profetico di Gesù e che, avendo l’unzione che viene dallo Spirito Santo, (1Gv 2, 20.27), “non può sbagliarsi nel credereˮ».

[180] Tertulliano, Liber de praescriptionibus adversus haereticos, XX, 8-9, trad. it. di I. Giordani, Tertulliano, L’apologetico. La prescrizione contro gli eretici, Città Nuova, Roma 1967, p. 188.

[181] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm. Lumen gentium, 21 novembre 1964, 12.

[182] Ibid., 24 in fine, e 25.

[183] «Tale concetto propagandistico politico-teologico venne adottato dalla chiesa durante la sua espansione nell’impero romano. Esso si incontra poi con un concetto della teologia politica dei pagani, secondo cui il monarca divino certamente domina, ma sono gli dèi nazionali a governare. Per poter affrontare questa teologia pagana, tagliata su misura per l’impero romano, si affermava ora da parte cristiana, che gli dèi nazionali non potevano affatto governare, perché con l’impero romano era stato annullato il pluralismo nazionale. [….] Ma l’annuncio cristiano del Dio unitrino si pone al di là del giudaismo e del paganesimo, in quanto il mistero della Trinità esiste soltanto nella divinità stessa, non nella creatura umana. Così come la pace, che il cristiano cerca, non viene garantita da nessun imperatore, ma è soltanto un dono di colui, il quale è ‘più di ogni ragione’», in E. Peterson, Il monoteismo come problema politico, trad. it. di F. Della Salda Melloni - H. Ulianich, Queriniana, Brescia 1983, pp. 71-72.

[184] Commissione Teologica Internazionale, Il “sensus fidei” nella vita della Chiesa: al n. 26, su Newman e il criterio del sensus fidei fidelium contro le divergenze dei vescovi nel IV secolo; al n. 34, sulla concezione rinnovata nel XIX secolo riguardo al carattere attivo e non solo passivo del sensus fidei fidelium; al n. 113 e al n. 118, sul rapporto tra sensus fidei e opinione pubblica maggioritaria, dentro e fuori la Chiesa.

[185] Francesco, Cost. Ap. Veritatis gaudium, 8 dicembre 2017, 3.

[186] Lettera 61, «A Natalia Dmitrievna Fonvizina, fine gennaio – fine febbraio 1854, Omsk», in F. Dostoevskij, Lettere, a cura di A. Farina, a cura di A. Farina, trad. di G. De Florio, A. Farina, E. Freda Piredda, Il Saggiatore, Milano 2020, pp. 220-221.

[187] «[I poveri] hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro», Francesco, Esort. Ap. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 198.

[188] Cf. Catechismo della Chiesa cattolica, 540: «Cristo ha vinto il Tentatore per noi». Si veda anche 394, 677.

[189] «Ammaestrati dalla parola e dall’esempio di Cristo (Christi verbo et exemplo edocti), gli Apostoli hanno seguito la stessa via. Fin dai primordi della Chiesa i discepoli di Cristo hanno lavorato per convertire gli uomini a confessare Cristo Signore, non con un’azione coercitiva né con artifizi indegni del Vangelo, ma principalmente con la forza della Parola di Dio. Con vigore annunciavano a tutti il proposito di Dio Salvatore, “il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4); ma nello stesso tempo rispettavano i deboli, anche se erano nell’errore, mostrando così come “ciascuno di noi renderà conto a Dio di se stesso ˮ (Rm 14,12), e sia tenuto ad obbedire soltanto alla propria coscienza. Come Cristo, gli Apostoli si sono sempre dedicati a rendere testimonianza alla verità di Dio, osando arditamente annunciare “la Parola di Dio con franchezzaˮ (At 4,31) dinanzi al popolo e ai governanti», Concilio Ecumenico Vaticano II, Dich. Dignitatis humanae, 7 dicembre 1965, 11.

[190] Francesco, Lett. Enc. Dilexit nos, 24 ottobre 2024, 214.