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COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE
Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore
1700o anniversario del Concilio Ecumenico di Nicea
(325-2025)
Nota preliminare
Introduzione:
Dossologia, teologia e annuncio
Capitolo 1:
Un Simbolo per la salvezza: dossologia e teologia del dogma di
Nicea
1.
Cogliere l’immensità delle tre Persone divine che ci salvano: «Dio è Amore»,
infinitamente
1.1
La
grandezza della paternità di Dio Padre, fondamento della
grandezza del Figlio e dello Spirito
1.2 Riflessioni sul ricorso all’espressione
homooúsios
1.3
L’unità della storia della salvezza
2.
Cogliere l’immensità di Cristo Salvatore e del suo atto salvifico
2.1
Vedere Cristo in tutta la sua grandezza
2.2
L’immensità dell’atto di salvezza: la sua consistenza
storica
2.3
La grandezza dell’atto di salvezza: il mistero pasquale
3.
Cogliere l’immensità della salvezza offerta agli uomini e l’immensità della
nostra vocazione umana
3.1 La
grandezza della salvezza: l’ingresso nella vita di Dio
3.2
L’immensità della vocazione umana all’Amore divino
3.3
La bellezza del dono della Chiesa e del Battesimo
4. Celebrare
insieme l’immensità della salvezza: la portata ecumenica della fede di Nicea e
la speranza di una data comune per la celebrazione della Pasqua
Capitolo 2:
Il Simbolo di Nicea nella vita dei credenti: «Noi crediamo
come battezziamo; e preghiamo come crediamo»
Preludio: la fede
confessata nella fede vissuta
1. Battesimo e fede trinitaria
2. Il Simbolo di
Nicea come confessione di fede
3.
Approfondimenti nella predicazione e nella catechesi
4. Preghiera al Figlio e
dossologia
5. La teologia degli Inni
Capitolo 3:
Nicea come evento teologico e come evento ecclesiale
1. L’evento Cristo: «Dio nessuno l’ha mai
visto. Il Figlio unigenito lo ha rivelato» (Gv 1,18)
1.1
Il Cristo, Verbo Incarnato, rivela il Padre
1.2 «Ora, noi abbiamo il pensiero (νοῦς)
di Cristo» (1 Cor 2,16): analogia della creazione e analogia
della carità
1.3 L’ingresso
teologale nella conoscenza del Padre attraverso la preghiera
di Cristo
2. Un evento di Sapienza: una novità per
il pensiero umano
2.1 La Rivelazione
feconda e dilata il pensiero umano
2.2 Un
evento culturale e interculturale
2.3 La
fedeltà creativa della Chiesa e il problema dell’eresia
3. L’evento ecclesiale: il Concilio di
Nicea come primo Concilio Ecumenico
3.1 La Chiesa
s’inserisce con la sua natura e le sue strutture nell’evento
Cristo
3.2 La
collaborazione strutturale dei carismi della Chiesa e il
cammino verso Nicea
3.3 Il
Concilio Ecumenico di Nicea
Capitolo 4:
Mantenere la fede accessibile a tutto il popolo di Dio
Preludio: il Concilio di Nicea e le
condizioni di credibilità del mistero cristiano
1. La teologia a servizio dell’integrità
della verità salvifica
1.1
Il Cristo, la verità escatologicamente efficace
1.2
La salvezza e il processo di filiazione divina
2. La mediazione della Chiesa e
l’inversione dell’articolazione dogmatica: Trinità, cristologia, pneumatologia,
ecclesiologia
2.1
Le mediazioni della fede e il ministero della Chiesa
2.2 Dissenso e
sinodalità
2.3
Le lingue dello Spirito Santo nella formazione e nel
rinnovarsi del consenso
3. Vegliare sul deposito della
fede: una carità a servizio dei più piccoli
3.1 La
fede unanime del popolo di Dio offerta a tutti
3.2 La protezione
della fede di fronte al potere politico
Conclusione:
Annunciare oggi a tutti Gesù nostra salvezza
Nota preliminare
Nel corso del suo decimo quinquennio la Commissione Teologica
Internazionale ha scelto di approfondire uno studio sul primo
Concilio Ecumenico di Nicea e la sua attualità dogmatica. Il
lavoro è stato condotto da una speciale Sottocommissione,
presieduta dal Rev.do Philippe Vallin e composta dai seguenti
membri: S.E. Mons. Antonio Luiz Catelan Ferreira, S.E. Mons.
Etienne Vetö, I.C.N, Rev.do Mario Angel Flores Ramos, Rev.do
Gaby Alfred Hachem, Rev.do Karl-Heinz Menke, Prof.ssa Marianne
Schlosser, Prof.ssa Robin Darling Young.
I dibattiti generali sul tema hanno avuto luogo sia durante
le diverse riunioni della Sottocommissione sia durante le
sessioni plenarie della Commissione Teologica, tenutesi negli
anni 2022-2023. Questo testo è stato sottoposto al voto e
approvato in forma specifica all’unanimità dai membri
della Commissione Teologica Internazionale durante la sessione
plenaria del 2024. Il documento è stato in seguito sottoposto
all’approvazione del suo Presidente, Sua Eminenza il Cardinale
Víctor Manuel Fernández, Prefetto del Dicastero per la Dottrina
della Fede, il quale, dopo aver avuto l’approvazione del Santo
Padre Francesco, ne ha autorizzato la pubblicazione il 16
dicembre 2024.
Introduzione
Dossologia, teologia e annuncio
1. Il 20 maggio 2025, la Chiesa cattolica e
l’insieme del mondo cristiano fanno memoria con gratitudine e
gioia dell’apertura del Concilio di Nicea del 325: «Il Concilio
di Nicea è una pietra miliare nella storia della Chiesa. Il suo
anniversario invita i cristiani a unirsi nella lode e
nell’azione di grazie alla santa Trinità e in particolare a Gesù
Cristo, il Figlio di Dio “consustanziale al Padre”, che ci ha
rivelato questo mistero d’amore».[1]Questo
Concilio è rimasto nella coscienza cristiana principalmente
attraverso il Simbolo che raccoglie, definisce e proclama la
fede nella salvezza in Gesù Cristo e nel Dio Uno, Padre, Figlio
e Spirito Santo. Il Simbolo di Nicea professa la buona notizia
della salvezza integrale degli esseri umani operata da Dio
stesso in Gesù Cristo. Dopo 1700 anni, si tratta di celebrare
questo avvenimento in una dossologia, che sia una lode
alla gloria di Dio, dal momento che essa si è manifestata
nell’inestimabile tesoro della fede espressa dal Simbolo:
l’infinita bellezza di Dio Padre, che ci salva, l’immensa
misericordia di Gesù Cristo nostro Salvatore, la generosità
della redenzione che è offerta a ogni persona umana nello
Spirito Santo. Uniamo le nostre voci a quelle dei Padri della
Chiesa, come Efrem il Siro, per cantare questa gloria:
«Gloria a Colui che è venuto
Presso di noi mediante il suo Primogenito!
Gloria a quel Silente
Che ha parlato attraverso la sua voce!
Gloria a quel Sublime
divenuto visibile mediante la sua Epifania!
Gloria a quello Spirituale,
Che si è compiaciuto
Che suo Figlio divenisse corpo,
Affinché, attraverso questo corpo, divenisse tangibile la sua
potenza
E attraverso questo corpo avessero vita
I corpi dei figli del Suo popolo!».[2]
2. La luce effusa dall’assemblea di Nicea
sulla rivelazione cristiana permette di scoprirvi una ricchezza
inesauribile che continua, attraverso i secoli e le culture, a
trovare approfondimenti e a manifestarsi sotto aspetti sempre
più belli e più nuovi. Queste diverse sfaccettature sono messe
in luce specialmente dalla rilettura orante e teologica che la
maggior parte delle tradizioni cristiane fanno del Simbolo,
ciascuna sulla base di un diverso rapporto col fatto che esista
un Simbolo di fede. Si tratta anche dell’occasione, per tutti e
per ciascuno, di riscoprire o anche di scoprire la sua ricchezza
e il legame di comunione tra tutti i cristiani che tale Simbolo
può costituire. «Come non ricordare l’importanza straordinaria
di una simile commemorazione al servizio della ricerca
dell’unità piena dei Cristiani?»,[3]
sottolinea Papa Francesco.
3. Il Concilio di Nicea fu il primo
concilio designato come “ecumenico”, poiché per la prima volta i
vescovi di tutta l’Oikoumenē vi sono stati invitati.[4]Le
sue decisioni dovevano quindi avere una portata ecumenica, cioè
universale: esse sono state recepite come tali dai credenti e
dalla tradizione cristiana, nel corso di un lungo e laborioso
processo. La posta in gioco a livello ecclesiologico è decisiva.
Il Simbolo si inscrive nel movimento di progressiva assunzione
da parte della dottrina cristiana della lingua e degli schemi di
pensiero greci, che però se ne trovarono essi stessi, per così
dire, trasfigurati, proprio in virtù del loro venire in contatto
con la Rivelazione. Il Concilio ha suggellato inoltre
l’importanza sempre crescente dei sinodi e dei modi di governo
sinodale nella Chiesa dei primi secoli, realizzando una svolta
di prima grandezza: nella linea dell’exousìa conferita
agli apostoli da Gesù e dallo Spirito Santo (Lc 10,16;
At 1,14; 2,1-4), l’evento di Nicea ha in effetti aperto la
via ad una nuova espressione istituzionale dell’autorità nella
Chiesa, un’autorità di portata universale, d’ora in poi
riconosciuta ai concili ecumenici, riguardo sia alla dottrina
che alla disciplina. Questa svolta decisiva nel modo di pensare
e di governare in seno alla comunità dei discepoli del Signore
Gesù avrebbe messo in luce elementi essenziali della missione
d’insegnamento della Chiesa e quindi della sua natura.
4. Una precisazione s’impone prima di
procedere oltre nella riflessione. Ci basiamo sul Simbolo di
Nicea-Costantinopoli (381) e non in senso stretto sul Simbolo
composto a Nicea (325). In effetti, fu necessaria una
cinquantina di anni perché il vocabolario del Simbolo di Nicea
fosse accettato e vi fosse consenso sulla portata universale del
Concilio. Il processo di ricezione del Concilio di Nicea si è
prolungato durante il conflitto con gli Pneumatomachi tra Nicea
e Costantinopoli, portando a introdurre alcune modificazioni
testuali significative, in particolare nel terzo articolo di
fede. Secondo l’opinione dei Padri, tuttavia, questo processo,
che giunge a compimento nel Simbolo Niceno-Costantinopolitano,
non implicava alcuna alterazione della fede nicena, ma la sua
autentica preservazione. In questo senso, il preambolo della
definizione dogmatica di Calcedonia, che era stata preceduta
dalla trascrizione del Simbolo di Nicea e del Simbolo
Niceno-Costantinopolitano, “conferma” ciò che è stato detto nel
Simbolo dei “150 Padri” (Costantinopoli), poiché il suo senso
risiede, secondo i suoi stessi termini, nella precisazione di
ciò che riguarda lo Spirito Santo contro coloro che negano la
sua signoria.[5]L’ampiezza
di ciò che è successo a Nicea si manifesta nella proibizione
fatta al Concilio di Efeso di promulgare qualunque altra formula
di fede,[6]perché,
nei momenti successivi a Nicea, i sostenitori dell’ortodossia
hanno pensato che il discernimento cristallizzato nel Simbolo
Niceno sarebbe stato sufficiente a garantire la fede della
Chiesa per sempre. Atanasio, ad esempio, dirà di Nicea che si
tratta della «parola del nostro Dio che dura per sempre» (Is
40,8).[7]Questo
processo di Tradizione vivente e normativa si prolunga tra il IV
e il IX secolo, attraverso l’adozione di questo Simbolo nelle
liturgie battesimali, soprattutto in Oriente, e poi nelle
liturgie eucaristiche. Notiamo che il Filioque, che si
trova nelle versioni occidentali attuali del Simbolo, non fa
parte del testo originale del Simbolo Niceno-Costantinopolitano,
sul quale questo Documento intende appoggiarsi.[8]Questo
punto continua a essere oggetto di malintesi tra le confessioni
cristiane, di modo che il dialogo tra Oriente e Occidente deve
proseguire ancora oggi.
5. In un primo capitolo proporremo una
lettura dossologica del Simbolo, per metterne in evidenza
le risorse soteriologiche e quindi cristologiche, trinitarie e
antropologiche. Sarà l’occasione per sottolinearne la portata e
ricevere nuovo slancio nel cammino verso l’unità dei cristiani.
Ma accogliere la ricchezza del Concilio di Nicea dopo 1700 anni
porta anche a percepire come il Concilio nutre e guida la vita
cristiana quotidiana: in un secondo capitolo, di tenore
patristico, esploreremo come la vita liturgica e la vita di
preghiera è stata fecondata nella Chiesa dopo il Concilio. Nicea
costituisce una svolta tale per la storia del cristianesimo che,
nel terzo capitolo, ci soffermeremo sul modo in cui il Simbolo e
l’evento del Concilio rendono testimonianza dello stesso
avvenimento di Gesù Cristo, la cui irruzione nella storia offre
un accesso inaudito a Dio e introduce una trasformazione del
pensiero umano, in altre parole un evento di Sapienza. Il
Simbolo e il Concilio testimoniano anche una novità nel modo in
cui la Chiesa di Cristo si struttura e adempie alla sua
missione: essi traducono ciò che fu un evento di Chiesa. Infine,
nel quarto capitolo, analizzeremo le condizioni di credibilità
della fede professata a Nicea in una tappa di teologia
fondamentale, che metterà in luce la natura e l’identità della
Chiesa in quanto essa è interprete autentica della verità
normativa della fede mediante il Magistero, e custode dei
credenti, in special modo dei più piccoli e dei più
vulnerabili.
6. «Non si accende una lampada
per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce
a tutti quelli che sono nella casa» (Mt 5,15). Questa
luce è il Cristo, «luce da luce». Lasciarsene stupire significa
trovare anche un nuovo slancio per presentare questa buona
notizia con maggiore forza e creatività nello Spirito Santo.
Questa luce rischiara in modo vivo la nostra epoca segnata da
fermenti di violenza e di ingiustizia, piena di incertezza, che
intrattiene un rapporto complesso con la verità, motivo per cui
sembrano messe in difficoltà la fede e l’appartenenza alla
Chiesa. La luce è tanto più viva e irraggiante quanto più è
condivisa da tutti i cristiani, che così possono confessare la
propria fede in una medesima marty̆ria, con una stessa
testimonianza, così da contribuire ad attirare gli uomini e le
donne di oggi a Gesù Cristo, Figlio di Dio e Salvatore:
L’essenziale per noi, la cosa più bella, la più attraente e ad un tempo la più
necessaria, è la fede in Gesù Cristo. Tutti insieme, se Dio lo vuole, la
rinnoveremo solennemente nel corso del prossimo Giubileo e ciascuno di noi è
chiamato ad annunciarla ad ogni uomo e donna della terra. È il compito
fondamentale della Chiesa.[9]
Capitolo 1
Un Simbolo per la salvezza:
dossologia e teologia del dogma di Nicea
7. Celebrare Nicea nel suo 1700o
anniversario, significa anzitutto meravigliarsi del Simbolo che
il Concilio ci ha lasciato e della bellezza del dono offerto in
Gesù Cristo, di cui è come l’icona in parole. Cominciamo dunque
il nostro studio di Nicea percorrendo questo Simbolo in modo da
ritrovare in esso la straordinaria immensità della fede
trinitaria, della cristologia e della soteriologia che esprime,
come anche le sue implicazioni antropologiche ed
ecclesiologiche, prima di concludere con la sua portata
ecumenica. Si tratta, per così dire, di un atto di teologia
dossologica. Essa non mira a un approfondimento di ogni tema
di questo concentrato della fede che è il Simbolo –
compito che sarebbe stato comunque di poca utilità e anche
impossibile nel quadro del presente lavoro –, ma cerca di
mettere in luce la ricchezza degli enunciati e delle verità
offerte dal credo niceno sul piano dogmatico, in particolar modo
quelli che presentano maggior rilevanza e fecondità per questo
periodo della storia della Chiesa e del mondo, proprio nel
momento in cui celebriamo l’anniversario di Nicea.
1. Cogliere l’immensità delle tre Persone divine che ci salvano: «Dio è Amore»,
infinitamente
8. Il Simbolo di Nicea-Costantinopoli è
strutturato attorno all’affermazione della fede trinitaria:
Crediamo in un solo Dio Padre
onnipotente, creatore del cielo e della terra,
E di tutte le cose visibili e invisibili,
E in un solo Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, Unigenito,
generato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da
luce,
Dio vero da Dio vero, generato non creato, consustanziale al
Padre
Per mezzo di Lui tutte le cose sono state create; […]
E nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, che procede
dal Padre,
E con il Padre e il Figlio è coadorato e conglorificato,
E ha parlato per mezzo dei profeti […].[10]
1.1. La grandezza della paternità di Dio Padre, fondamento della grandezza
del Figlio e dello Spirito
9. Al punto di partenza della
fede di Nicea si trova l’affermazione dell’unità di Dio. Il
cristianesimo è fondamentalmente un monoteismo, che si pone in
continuità con la rivelazione fatta a Israele. Ciononostante, il
Simbolo non pone all’inizio semplicemente “Dio”, e ancor meno la
natura divina una, bensì la Prima ipostasi divina che è il
Padre. In quanto «creatore del cielo e della terra» (cf. Gn
1,1; Ne 9,6; Ap 10,6), Egli è Padre di tutte le
cose.[11]Inoltre,
il Cristo rivela l’inaudita paternità intra-divina di Dio,
fondamento della sua paternità ad extra. Se il Cristo è
Figlio divino, in una maniera unica, ciò implica una generazione
in Dio: Dio il Padre dona tutto ciò che ha e tutto ciò che è.
Dio non è un principio povero ed egoista: Egli è sine invidia.[12]La
sua paternità, come la sua onnipotenza, è capacità di donarsi
interamente. Questo dono paterno non è solamente un aspetto tra
altri, ma definisce il Padre, che è interamente paternità.[13]Dio
è Padre da sempre, e non è mai stato un Dio “solitario”.[14]Questa
paternità del Dio Uno è il primo aspetto della fede cristiana
che provoca lo stupore e di cui si tratta di celebrare
l’immensità, riscoprendo Nicea 1700 anni dopo. Si tratta dunque
di esplorarne le implicazioni per la comprensione del mistero
trinitario.
10. La fede nel Padre testimonia
la pienezza sovrabbondante di Dio. Il primo articolo non è
semplicemente una definizione di Dio, ma anzitutto una lode che
si inscrive nella tradizione dossologica della liturgia giudaica
e delle prime liturgie cristiane.[15]Il
Dio “onnipotente (pantokratōr)” fa eco a diverse
espressioni veterotestamentarie, come, ad esempio, “Signore
Sabaoth”, ripresa nel Nuovo Testamento nel quadro delle liturgie
celesti (Ap 4,8; 11,17; 15,3; 16,14; 19,6).
11. La rivelazione nel Cristo
della paternità di Dio manifesta anche l’immensità del Figlio e
dello Spirito. Se Dio Padre dona tutto, tranne la sua paternità,
ciò significa che il Figlio e lo Spirito sono pienamente uguali
al Padre nella loro divinità. Nel Simbolo il Figlio è “uno
solo”, Egli è “Signore” (Kyrios, che traduce il
Tetragramma nella Settanta), “Figlio di Dio”, “l’uni-genito” (ho
monogenēs) nell’intimità del Padre, “Dio nato da Dio”, “luce
nata dalla luce”, “Dio vero nato da Dio vero”, consustanziale (homooúsios)
al Padre. Notiamo, ad esempio, che nel Quarto Vangelo, il Figlio
è più volte chiamato theos: Gv 1,1; 5,18; 20,28.
Il Figlio è generato “prima di tutti i secoli”, il che significa
nel Simbolo che Egli è co-eterno col Padre (cf. Gv 1,1).
Ciò prende di mira alcune posizioni di Ario, secondo il quale
«c’era un tempo in cui [il Figlio] non era», «prima di essere
nato Egli non era» e «Egli è divenuto a partire da ciò che non
era»,[16] o ancora
«il Figlio deriva dal nulla», in virtù del «volere e decisione
del Padre».[17]È
per questo che il Figlio può essere confessato come colui «per
[il quale] tutto è stato fatto» (cf. 1Cor 8,6; Gv
1,3). Dio è così grande che il Padre è capace di generare un
altro, che è uguale a lui secondo la divinità. Dio eccede tutto
ciò che noi possiamo concepire e immaginare di Lui, dal momento
che la sua unità assume una pluralità reale, che non rompe
l’unità.
12. Il Padre dona ugualmente
tutto allo Spirito, che è definito nei termini specifici e
riservati alla divinità: “Spirito”, “Santo” e “Signore” (ancora
un’evocazione del Tetragramma). Così come il Padre è creatore e
il Figlio è la Parola mediante la quale il Padre crea tutte le
cose, lo Spirito è confessato come “datore di vita”. E come il
Figlio è generato dal Padre, lo Spirito “procede dal Padre”. Le
affermazioni sullo Spirito fanno intenzionalmente eco
all’articolo sul Figlio.[18]Di
conseguenza, lo Spirito può e deve essere adorato col Padre e
col Figlio – a conferma del carattere dossologico del Simbolo.
13. È essenziale tenere insieme a
un tempo la divinità dello Spirito come “terzo” in Dio e il suo
legame col Padre così come col Figlio. In effetti, ancora oggi
persistono delle difficoltà a considerarlo come una Persona
divina a sé e non come una semplice forza divina, magari
cosmica. Si potrebbe perfino pensare di pregare il Padre e il
Figlio lasciando fuori lo Spirito, contrariamente alla preghiera
della Chiesa che si rivolge sempre al Padre, per mezzo del
Figlio, nello Spirito Santo. Si riconoscerà una legittima
importanza all’Eucaristia, alla Vergine Maria o alla Chiesa –
senza tuttavia misurare quanto queste ultime realtà siano
preziose precisamente perché sono vivificate dallo Spirito.[19]Al
contrario, altri attribuiranno un posto centrale, se non
esclusivo, allo Spirito Santo, fino a lasciare in secondo piano
il Padre e il Figlio, cosa che ricade, paradossalmente, in una
forma di riduzionismo pneumatologico, dal momento che Egli è
Spirito del Padre e Spirito del Figlio (Gal
4,6; Rm 8,9). La grandezza sovrabbondante dello Spirito
Santo espressa nella fede di Nicea è una protezione sicura
contro questi riduzionismi.
14. Così, dalla pienezza fontale
della paternità di Dio, discende la pienezza sovrabbondante di
Dio Padre, del Figlio e dello Spirito semper major. Ora,
la pienezza fontale del Padre implica una tàxis (un
ordine) nella vita del Dio trinitario. Il Padre è la fonte di
tutta la divinità.[20]
La seconda persona è certo Dio e luce, ma lo è in quanto è “Dio
da Dio”, “luce da luce”. Pur essendo confessato
come uguale al Padre e al Figlio quanto alla divinità, lo
Spirito è presentato in una maniera molto diversa dagli altri
due. Abbiamo appena visto (cf. supra § 12) che egli è
descritto con caratteristiche divine e che deve essere adorato
col Padre e col Figlio. Detto questo, le differenze di
espressione sono notevoli: ciò che è detto del Padre e del
Figlio, cioè “un solo”, o del Figlio, cioè “consustanziale”, non
è ripetuto a proposito dello Spirito. Senza nulla togliere alla
sua co-divinità, la maniera di menzionare lo Spirito nel Simbolo
sottolinea la sua distinzione personale. Così, ciò che è proprio
nel parlare dello Spirito Santo mette in luce l’unicità di
ciascuna persona divina. In un certo modo, in Dio,
“ipostasi” o “persona” è un termine analogico, nel senso che
ciascuno dei tre “nomi” divini è pienamente persona, ma lo è in
una maniera unica. Questa unicità mostra anche che
l’uguaglianza, da una parte, e la differenza e l’ordine,
dall’altra, non si contraddicono. Anche questo è frutto della
sovrabbondante paternità del Padre. Recepire Nicea significa
ricevere la ricchezza della paternità divina che stabilisce
l’uguaglianza ma anche la differenza e l’unicità.
1.2. Riflessione sul ricorso all’espressione homooúsios
15. Uno dei contributi centrali
di Nicea è la definizione della divinità del Figlio nei termini
di una consustanzialità: il Figlio è “consustanziale” (homooúsios)
al Padre, “generato dal Padre”, “cioè della stessa sostanza del
Padre”.[21]La
generazione del Figlio è altra cosa rispetto alla creazione,
perché si tratta di una comunicazione dell’unica sostanza del
Padre. Il Figlio è non solo pienamente Dio come il Padre, ma
anche di una sostanza numericamente identica alla sua, poiché
non vi è alcuna divisione nel Dio Uno.[22]Ripetiamolo:
il Padre dona tutto al Figlio, secondo la logica di una vita
divina che è agapē e che eccede sempre ciò che lo spirito
umano può concepire.
16. Per la prima volta termini
non scritturistici vengono impiegati in un testo ecclesiale
ufficiale e normativo – vi torneremo nei capitoli III e IV.
L’intenzione dei Padri del Concilio non era quella di introdurre
una novità nella fede apostolica, ma di proteggerla esplicitando
ciò che realmente è la generazione in Dio. É per questo che nel
Simbolo del 325, homooúsios viene introdotto con
l’espressione “cioè”: la terminologia greca ontologica è al
servizio delle espressioni tradizionali della Scrittura.[23]Il
termine, di origine gnostica e condannato dal Sinodo regionale
di Antiochia (264-269), sarà molto discusso nei decenni che
seguiranno Nicea. Ma a partire dagli anni 360 le adesioni si
moltiplicarono, fino alla sua piena e pacifica ratifica a
Costantinopoli (381). Viene così riconosciuto il suo ruolo di
esplicitazione e protezione della fede, come pure la capacità
creativa della ragione umana, della filosofia e della cultura,
nell’accogliere la Rivelazione. Come già accade con le Sacre
Scritture, ciò sottolinea che la Rivelazione implica un dialogo
tra Dio e l’uomo, un dialogo che si fa da entrambe le parti
attraverso parole umane, situate, limitate, e dunque sempre da
interpretare. Non soltanto la vita divina si rivela come
sovrabbondanza, ma la forma stessa della Rivelazione, capace di
esprimersi in parole umane, e di tradursi ben presto in tutte le
lingue, si mostra qui semper major.
17. Questa espressione non è però
la sola utilizzata nel Simbolo per esprimere la divinità
salvifica del Figlio. Essa si trova inserita in una serie di
termini di origine scritturistica e liturgica: “Dio vero da Dio
vero”, “Dio da Dio”[24]
e “luce da luce”. Nessuno di questi termini può da solo esaurire
la sovrabbondante pienezza della Rivelazione. La fede ha bisogno
dell’articolazione di espressioni scritturistiche, filosofiche e
liturgiche, di concetti, di immagini e di nomi divini (Padre,
Figlio e Spirito Santo) per esprimersi nel modo più giusto e più
completo. I modi di espressione delle diverse Chiese e comunità
ecclesiali possono sostenersi mutuamente in questa riscoperta,
dato che alcuni insistono di più sull’una o sull’altra: così, la
tradizione orientale mette l’accento sulla comprensione di
Cristo come “luce da luce”.[25]
La pluralità del suo vocabolario contribuisce senz’altro a
rendere la fede che vi è espressa accessibile a differenti
culture e secondo la forma mentis di ciascun essere
umano.
1.3. L’unità della storia della salvezza
18. Per comprendere bene la
portata del Simbolo di Nicea-Costantinopoli, è importante
comprendere l’unità del quadro della storia della salvezza che
informa la professione di fede. In effetti, l’attribuzione della
creazione o del “dono della vita” alle tre persone divine
sottolinea l’unità tra l’ordine della creazione e l’ordine della
salvezza. La divinizzazione comincia già con l’atto creatore, la
storia della salvezza comincia già con la creazione. Contro il
marcionismo e le diverse forme di gnosticismo, bisogna tener
fermo che è lo stesso Dio che crea e che salva, ed è la medesima
realtà creata, buona perché voluta da Dio, che viene restaurata
nella redenzione. Così, la grazia non introduce una frattura ma
offre un compimento, dal momento che è già all’opera nella
creazione che ad essa è ordinata.
19. Allo stesso modo, l’economia
della salvezza che si compie in Cristo non è presentata nel suo
vero e pieno significato se non a condizione che si sottolinei
la sua fedeltà alla rivelazione fatta al popolo di Israele,
senza la quale la fede espressa a Nicea perderebbe la sua
legittimità e la pienezza della sua dimensione storica.
Evidentemente, la dimensione trinitaria e cristologica della
fede nicena non è accettata dalla tradizione rabbinica ma, da un
punto di vista cristiano, essa è compresa in maniera essenziale
come una novità che si inscrive però in una continuità
con la rivelazione affidata al popolo eletto. La dottrina della
Trinità non significa certo una relativizzazione, quanto
piuttosto un approfondimento della fede nel solo e unico Dio di
Israele.[26]Abbiamo
già sottolineato che i rimandi al Dio “uno” e “creatore del
cielo e della terra” fanno eco all’Antico Testamento, dove Dio
si rivela come Colui che crea per amore, entra in relazione per
amore e chiede di essere amato a sua volta. Dio chiama Abramo
suo “amico”, “colui che lo ama” (Is 41,8; 2Cr
20,7; Gc 2,23), e si intrattiene con Mosè «faccia a
faccia, come uno parla con il proprio amico» (Es 33,11).
Allo stesso modo, la scelta dell’homooúsios è fatta
precisamente per proteggere il carattere monoteista della fede
cristiana: in Dio, non c’è altra realtà che la realtà divina. Il
Figlio e lo Spirito non sono altro che Dio stesso e non degli
esseri intermediari tra Dio e il mondo o semplici creature.
Inoltre, la rivelazione fatta a Israele è testimonianza del
Signore come dell’Uno e Unico che si mette in gioco, si dona e
si comunica nella storia degli uomini. Il cristianesimo
comprende l’Incarnazione come la pienezza inaudita del modo di
fare (l’economia) del Dio di Israele, che scende ad abitare in
mezzo al suo popolo, un modo di fare che si realizza nell’unione
di Dio con un’umanità singolare, Gesù.[27]
20. Per di più, lo sviluppo della fede
trinitaria quale è espressa a Nicea non è senza un retroterra
ebraico. Il Simbolo è strutturato da una triplice ripetizione:
«Crediamo in un solo Dio Padre… e in un solo Signore Gesù
Cristo… e nello Spirito Santo». In effetti, la fede trinitaria
nascente dei primi secoli sviluppa l’unità dei nomi divini,
Padre, Figlio e Spirito, a partire dalla fede monoteista di
Israele espressa all’inizio dello Sh’ma Israel, «il
Signore è il nostro Dio, unico è il Signore» (Dt 6,4),
mediante la ripetizione di questa preghiera centrale del
giudaismo, estendendo l’attributo dell’unità-unicità del Dio uno
al Figlio: «Credo in un solo Dio... e in un solo
Signore...». É ciò che troviamo già negli abbozzi di
espressione della fede trinitaria propri del Nuovo Testamento:
«Per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto
proviene, e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù
Cristo, per mezzo del quale sono tutte le cose e noi siamo per
lui» (1Cor 8,6 sottolineature nostre). Queste formule,
“binitarie”, co-esistono con formule “trinitarie”: «Un solo
corpo e un solo spirito […]; un solo Signore, una sola
fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti,
che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è
presente in tutti» (Ef 4,4-6 sottolineature nostre; cf.
anche 1Cor 12,4-6). Evidentemente, il contenuto di tali
formule va evolvendo rapidamente verso concezioni che non
potranno essere accettate dal rabbinismo, ma è a partire dalle
predisposizioni e dall’interno delle strutture liturgiche
giudaiche che si sviluppa la fede cristiana. D’altronde, si deve
sottolineare la ricchezza poliedrica del monoteismo di Israele
così come si manifesta attraverso la Bibbia ebraica e gli
scritti dell’epoca del secondo Tempio.[28]Vi
è l’idea di una ricchezza sovrabbondante in Dio che non
contraddice la sua unicità e unità. Ciò è testimoniato nella
molteplicità delle figure di Dio, come la dimensione
“binitaria”, in un certo senso, che alcuni specialisti
percepiscono nella dualità tra «l’Antico dei giorni» e colui che
è «simile a un figlio d’uomo» (Dn 7,9-14).[29]Questa
ricchezza si manifesta anche nelle differenti figure di Dio nel
corso della sua azione nel mondo: l’Angelo del Signore, la
Parola (dābār), lo Spirito (rûaḥ) e la Sapienza (ḥākmâ).[30]Alcuni
esegeti contemporanei sostengono d’altronde che ci fu una prima
tappa binitaria nella confessione di fede cristiana, la quale
inscriveva in modo naturale la confessione di fede in Gesù di
Nazareth come Kyrios glorificato dopo la morte, con un
rango propriamente divino, in continuità col monoteismo espresso
nella Bibbia.[31]Così,
anche se è fondamentale non retroproiettare la fede trinitaria
sull’Antico Testamento, è nondimeno possibile percepire tra
l’Antico e il Nuovo Testamento un processo di sviluppo, anche se
non lineare, una sorta di concentrazione di queste
differenti realtà in due figure: il Figlio-Logos e lo Spirito.
Quando invece si è giunti a considerare l’affermazione di due
altre persone divine come un’associazione estrinseca al
Dio unico, è venuto meno il riconoscimento dell’idea cristiana
di una fecondità intrinseca del Padre nel seno della sostanza
unica e indivisibile delle tre persone coeterne.
2. Cogliere l’immensità di Cristo Salvatore e del suo atto salvifico
21. Al cuore del secondo articolo del
Simbolo di Nicea-Costantinopoli si trova la confessione
dell’Incarnazione e dell’atto redentore del Figlio. Dopo aver
professato la divinità di Cristo, Figlio di Dio, noi confessiamo
anche che:
[Noi crediamo in un solo
Signore Gesù Cristo]
che per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo,
e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della
Vergine Maria[32]
e si è
fatto uomo;
fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto,
e il terzo giorno è risuscitato secondo le Scritture, è salito
al cielo,
siede alla destra del Padre e di nuovo verrà nella gloria
a giudicare i vivi e i morti;
e il suo regno non avrà fine.
2.1. Vedere Cristo in tutta la sua grandezza
22. Nicea ci permette di
«concepire il Cristo in tutta la sua grandezza».[33]
Le due dimensioni che fanno di lui l’unico mediatore tra Dio e
gli uomini sono evidenziate mediante la menzione dei due attori
dell’Incarnazione: «Egli si è incarnato per opera dello Spirito
Santo da Maria Vergine». É pienamente Dio, lui che proviene da
una Vergine per la potenza dello Spirito di Dio; è pienamente
uomo, lui che nasce da una donna. É homooúsios al Padre
ma anche a noi secondo il duplice enunciato affermato più tardi
a Calcedonia[34] –
laddove il termine homooúsios non può avere un senso
univoco quando si tratta di rapportare il Figlio incarnato al
Padre piuttosto che agli esseri umani. Il Verbo che si fa carne
è la stessa Parola di Dio, che assume in maniera unica e
irreversibile un’umanità singolare e finita. Proprio perché Gesù
era personalmente (ipostaticamente) identico al Figlio eterno ha
potuto, patendo la morte umana in modo tragico, rimanere in
relazione vivente col Padre e trasformare la separazione da Dio,
cioè il peccato e la morte (cf. Rm 6,23), in accesso a
Dio (cf. 1Cor 15,54-56; Gv 14,6b). Proprio perché
Gesù era veramente uomo – «in tutto simile a noi, tranne che nel
peccato» (Eb 4,15) – ha potuto assumere il nostro peccato
e passare attraverso la morte. Questa duplice consustanzialità
fa sì che solo Cristo possa salvare. Lui solo può operare
la salvezza. Lui solo è la comunione degli esseri umani
col Padre.[35]Lui
solo è il Salvatore di tutti gli esseri umani di tutti
i tempi. Nessun altro essere umano lo potrebbe essere prima di
lui o dopo di lui. L’inaudito della perfetta comunione tra Dio e
l’uomo si è realizzato in Cristo, al di là di qualsiasi forma di
realizzazione che l’essere umano possa immaginare a partire da
sé.
23. Non possiamo ignorare
l’attuale difficoltà a credere nella piena divinità e nella
piena umanità di Cristo. Esiste in tutta la storia del
cristianesimo, e ancora oggi, una vera e propria resistenza a
riconoscere la piena divinità di Cristo. Gesù può essere più
facilmente considerato come un maestro spirituale iniziatico o
come un messia politico che predica la giustizia, mentre
invece, nella sua umanità, vive la sua relazione eterna col
Padre. Ma esiste anche una grande difficoltà ad
ammettere la piena umanità di Cristo, proprio lui che può
provare la fatica (Gv 4,6), sentimenti di tristezza e
d’abbandono (Gv 11,35; Getsemani), come pure la collera (Gv
2,14-17), e che, misteriosamente ma realmente, ignora alcune
cose («solo il Padre conosce l’ora…», cf. Mt 24,36). Il
Figlio eterno ha scelto di vivere tutto ciò che egli è
nell’infinito della natura divina, che rimane nella finitudine
della sua natura umana e attraverso di essa.
24. Notiamo tuttavia che, anche
se la parte del Simbolo consacrata alla seconda persona è la più
sviluppata, la prospettiva cristologica contenuta nella fede di
Nicea è necessariamente trinitaria. Cristo è semper major
proprio perché là dove egli è c’è sempre più di lui: il Padre
rimane il Padre, il “Santo d’Israele”. Certo, «colui che ha
visto [il Cristo] ha visto il Padre» (Gv 14,9),
ma, come dice Gesù, «il Padre è più grande di me» (Gv
14,28). Lo stesso Ario l’aveva visto quando citava il Vangelo:
«Uno solo è buono» (Mt 19,17).[36]Di
più, Cristo non può essere compreso senza il Padre e lo Spirito
Santo: prima di essere concepito come l’Uomo-Dio e lo Sposo, è
presentato nel Nuovo Testamento come Figlio del Padre e Unto
dallo Spirito. Allo stesso modo, egli non salva gli uomini senza
il Padre che è la fonte e il fine di tutte le cose – dal momento
che egli è unione filiale con il Padre. Egli non salva gli
uomini senza lo Spirito, che fa gridare «Abbà, Padre» (Rm
8,15) e la cui azione interiore permette all’essere umano di
essere trasformato e di entrare attivamente nel movimento che lo
conduce al Padre.
2.2. L’immensità dell’atto salvifico: la sua consistenza storica
25. La grandezza del Salvatore si
svela anche nella pienezza sovrabbondante dell’economia di
salvezza. Nicea presenta il realismo dell’opera di redenzione.
Nel Cristo, Dio ci salva entrando nella storia. Non invia un
angelo o un eroe umano, ma viene lui stesso nella storia degli
uomini, nascendo da una donna, Maria, nel popolo d’Israele
(«nato da donna, nato sotto la Legge», Gal 4,4), e
morendo in un periodo storico preciso, «sotto Ponzio Pilato»
(cf. 1Tim 6,13; si veda anche At 3,13).[37]Se
Dio è entrato lui stesso nella storia, l’economia della salvezza
è il luogo della sua Rivelazione: nella storia, Cristo rivela
autenticamente il Padre e lo Spirito e dona pienamente accesso
al Padre nello Spirito. Di più, poiché Dio entra nella storia,
non si tratta solo di un insegnamento da mettere in pratica,
come nel marcionismo o nella gnosi «dal nome menzognero», ma di
un’azione efficace di Dio. L’economia sarà il luogo dell’opera
salvifica di Dio. Noi confessiamo che un avvenimento storico ha
radicalmente cambiato la situazione di tutti gli esseri umani.
Confessiamo che la Verità trascendente si è inscritta nella
storia e agisce in essa. É per questo che il messaggio di Gesù
non può essere dissociato dalla sua persona: egli è per
tutti «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6) e non un
maestro di sapienza tra altri.
26. Malgrado la sua insistenza
sulla storia, il Simbolo non menziona né evoca esplicitamente
una gran parte del contenuto dell’Antico Testamento né, in
particolare, l’elezione e la storia di Israele. Evidentemente,
un Simbolo non deve essere esaustivo. Ciononostante, è utile
sottolineare che questo silenzio non significa in alcun modo la
caducità dell’elezione del popolo dell’antica alleanza.[38]Ciò
che rivela la Bibbia ebraica non è unicamente una preparazione
ma è già storia di salvezza, che proseguirà e si compirà nel
Cristo: «La Chiesa di Cristo riconosce che gli inizi (initia)
della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il
mistero divino della salvezza, nei Patriarchi, in Mosè e nei
Profeti».[39] Il
Dio di Gesù Cristo è il “Dio di Abramo, di Isacco e di
Giacobbe”, è il “Dio d’Israele”. Del resto, il Simbolo
sottolinea con discrezione la continuità tra il popolo d’Israele
e il popolo della nuova alleanza attraverso la menzione della
“Vergine Maria”, che colloca il Messia nel contesto di una
famiglia ebrea e di una genealogia ebrea e che riecheggia
ugualmente un testo veterotestamentario (Is 7,14 LXX).
Ciò crea un ponte tra le promesse dell’Antico Testamento e del
Nuovo, come lo farà anche l’espressione «egli è risuscitato il
terzo giorno secondo le Scritture» nel seguito dell’articolo,
laddove “Scritture” significa l’Antico Testamento (cf. 1Cor
15,4). La continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento si
incontra di nuovo laddove l’articolo sullo Spirito indica che
questi «ha parlato per mezzo dei profeti», cosa che rappresenta
forse una nota anti-marcionita.[40]Comunque
sia, per essere pienamente compreso, questo Simbolo nato dalla
liturgia assume tutto il suo significato quando è proclamato
nella liturgia e articolato con la lettura dell’insieme
delle Sacre Scritture, Antico Testamento e Nuovo Testamento. Ciò
situa la fede cristiana nel quadro dell’economia salvifica che
include in modo sorgivo e strutturale il popolo eletto e la sua
storia.
2.3. La grandezza dell’atto salvifico: il mistero pasquale
27. Il realismo e la dimensione
trinitaria della salvezza in Cristo trovano il loro compimento
nel mistero pasquale. Il Figlio, luce di Dio e vero Dio,
s’incarna, soffre, muore, discende allo sheol e risuscita. Si
tratta ancora qui di una novità inaudita. La difficoltà di Ario
non riguardava solo l’unità di Dio, incompatibile con la
generazione di un Figlio, ma anche la comprensione della sua
divinità, incompatibile con la passione di Cristo. Eppure, è
proprio nel Cristo e soltanto nel Cristo che noi comprendiamo
ciò di cui Dio stesso è capace, al di là di tutti i limiti posti
dalle nostre precomprensioni. Si tratta di prendere sul serio il
grido di Gesù come grido del Figlio di Dio, espresso nel sudore
di sangue e nella paura: «Padre mio, se è possibile, passi via
da me questo calice» (Mt 26,39b). La stessa parola
homooúsios aiuta a realizzare l’inaudito della kenosi
dell’Incarnazione: solo l’affermazione del Figlio
“consustanziale” al Padre permette di realizzare la radicalità e
la profondità di ciò a cui questo stesso Figlio ha acconsentito
assumendo la condizione umana. In un certo senso, si potrebbe
dire che il Figlio, semper major, si fa veramente
minor e che il Dio Altissimo discende quanto più in basso in
Gesù Cristo (cf. Fil 2,5-11). Ora, anche se solo il
Cristo nasce, soffre la passione e muore, noi possiamo dire che
«unus de Trinitate passus est».[41]
Tutta la Trinità è coinvolta, ciascuna persona in maniera
singolare, nella passione salvifica di Cristo. Così, la passione
ci rivela il senso realmente divino della “onnipotenza”.
L’onnipotenza del Dio trinitario è identica al dono di sè e
all’amore. Il Redentore crocifisso non è quindi la
dissimulazione, ma la rivelazione dell’onnipotenza del Padre.
28. La pienezza dell’atto
redentore di Cristo non si manifesta interamente se non con la
sua risurrezione, compimento della salvezza, in cui si trovano
confermati tutti gli aspetti della nuova creazione. La
risurrezione testimonia la piena divinità di Cristo, che sola è
capace di attraversare e di vincere la morte, ma anche la sua
umanità, dal momento che è proprio la stessa umanità,
numericamente identica a quella della vita terrena, ad essere
trasfigurata e glorificata. Non si tratta di un simbolo o di una
metafora: il Cristo risuscita nella sua umanità e nel suo corpo.
La risurrezione trascende la storia ma è accaduta al cuore della
storia degli esseri umani e di questo uomo Gesù. Per di più,
essa è profondamente trinitaria: il Padre ne è la fonte, lo
Spirito ne è il soffio vivente e il Cristo glorificato vive –
sempre nella sua umanità – nel seno della gloria divina e in
comunione inalterabile col Padre e lo Spirito. Notiamo che è la
risurrezione di Cristo, «primogenito di quelli che risorgono dai
morti» (Col 1,18; cf. Rm 8,29), che rivela la
generazione eterna del Figlio, «primogenito di tutta la
creazione» (Col 1,15). Così, la paternità e la filiazione
divine non sono anzitutto degli sviluppi di modelli umani, anche
se sono espressi con parole umane culturalmente connotate, ma
sono realtà sui generis della vita divina.
29. Il Simbolo sottolinea che la
risurrezione di Gesù Cristo si dispiega fino alla fine dei
tempi, quando il Cristo «ritornerà nella gloria per giudicare i
vivi e i morti; e il suo regno non avrà mai fine». Con la
risurrezione, la vittoria è definitivamente acquisita, ma dovrà
realizzarsi pienamente nella Parusia. La speranza cristiana è
piena: non si appoggia unicamente sull’ephàpax della
passione e risurrezione o sul dono attuale della grazia, ma
anche sull’avvenire del ritorno glorioso di Cristo e del
suo Regno. Notiamo che questo aspetto della fede di Nicea si
comprende meglio e riceve una forza accresciuta se viene letto
in un contesto in cui la Chiesa si mette all’ascolto dell’Antico
Testamento e della fede del popolo ebreo di oggi. L’attesa
messianica attuale del popolo d’Israele mette in luce
l’integralità delle promesse messianiche di pace su tutta la
terra e di giustizia per tutti, in un mondo completamente
rinnovato (Is 2,4; 61,1-2; Mi 4,1-3), che i
cristiani attendono con la Parusia. Ciò può e deve risvegliare
la speranza cristiana del ritorno del Risorto poiché solo allora
sarà pienamente visibile la sua opera redentrice.[42]
3. Cogliere l’immensità della salvezza offerta agli uomini e l’immensità della
nostra vocazione umana
30. Celebrare Nicea non consiste solo nel
meravigliarsi davanti alla pienezza sovrabbondante di Dio e del
Cristo Salvatore, ma anche davanti alla grandezza sovrabbondante
del dono offerto agli esseri umani e della vocazione umana che
in essa è svelata. Il mistero di Dio nella sua immensità è
rivelazione della verità sull’uomo, anche lui semper major.
Si tratta qui di sviluppare le implicazioni soteriologiche e
antropologiche delle affermazioni trinitarie e cristologiche del
Simbolo di Nicea, ma anche di tenere in considerazione
l’insegnamento contenuto nella finale del terzo articolo sullo
Spirito Santo, che presenta la fede nella Chiesa e nella
salvezza:
[Noi crediamo] una sola
Chiesa santa, cattolica e apostolica.
Confessiamo un solo battesimo per la remissione dei peccati;
Aspettiamo la risurrezione dei morti e la vita del mondo che
verrà. Amen.
3.1. La grandezza della salvezza: l’ingresso nella vita di Dio
31. Poiché Cristo ci salva, la fede
di Nicea confessa la “remissione dei peccati” e “la risurrezione
dei morti”. Il Simbolo menziona il peccato poiché noi abbiamo
bisogno di sapere da quale male siamo liberati. Il peccato, in
senso teologico stretto, non è soltanto il vizio o la colpa che
offende le intenzioni del Creatore nella creatura (cf. Rm
2,14-15), ma è anche una frattura deliberata nei confronti di
Dio nell’ambito di una relazione teologale con lui. In questo
senso pieno, il peccatore prende coscienza del suo peccato nella
luce dell’amore misericordioso di Dio: il peccato deve essere
“scoperto” per opera della grazia stessa in modo che essa possa
convertire i cuori.[43]
Così, la rivelazione del peccato è il primo passo della
redenzione e deve essere confessato come tale.
32. Con l’esorbitante pretesa della
risurrezione dei morti, la fede di Nicea professa che la
salvezza è completa e piena. L’uomo è liberato da ogni male,
compreso “l’ultimo nemico” che deve essere distrutto da Cristo
perché tutto sia sottomesso a Dio (cf. 1Cor 15,25-26). La
fede nella risurrezione implica non semplicemente la
sopravvivenza dell’anima ma anche la vittoria sulla morte.[44]Di
più, l’uomo non è salvato solo quanto alla sua anima ma anche
nel suo corpo. Nulla di ciò che fa l’identità e l’umanità
dell’uomo rimane al di fuori della creazione nuova offerta da
Cristo. Infine questo dono sarà acquisito per sempre, dal
momento che si dispiega nella “vita del mondo che verrà”, l’eschaton
pienamente realizzato. A partire dalla Pasqua, nessun peccato ha
più il potere di separare il peccatore da Dio – perlomeno se
questi afferra la mano del Crocifisso Risuscitato, che si
protende fino al più profondo dell’abisso per offrirsi alle
pecorelle smarrite: «Sono infatti persuaso che né morte né vita,
né angeli né potestà, né presente né futuro, né altezze né
profondità, né qualunque altra cosa creata potrà separarci
dall’amore che Dio ha per noi in Cristo Gesù nostro Signore» (Rm
8,38-39).
33. Poiché Cristo ci salva in
quanto vero Dio, la risurrezione significa per noi l’ingresso
nella vita divina, umanizzazione e divinizzazione a un tempo,
come testimonia il commentario fatto da Gesù del salmo 81,6 in
Gv 10,14: «Voi siete dèi».[45]E
poiché egli ci salva in quanto Figlio, generato dal Padre,
questa divinizzazione è una filiazione adottiva e una
conformazione al Cristo; è l’ingresso per opera dello Spirito
Santo nell’amore del Padre. Noi siamo amati e rigenerati dallo
stesso amore col quale il Padre ama e genera eternamente il
Figlio. Tale è l’implicazione soteriologica della paternità di
Dio professata a Nicea. Infine, poiché il Cristo ci salva in
quanto Figlio, con il Padre e lo Spirito Santo, questa
filiazione è un’immersione reale nelle relazioni trinitarie.
Ecco perché il Simbolo nasce dalla professione di fede
battesimale trinitaria e il battesimo si compie «nel nome del
Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo». L’immensità del dono
così rivelato si attualizza nel mistero dell’Ascensione di
Cristo: “è salito al cielo”, manifestando che lo stesso Cristo è
il “nostro cielo”.[46]
Il Figlio esaltato invierà il dono di Dio promesso, lo Spirito
di Pentecoste. Nessuna visione più limitata della salvezza potrà
essere realmente cristiana.
3.2. L’immensità della vocazione umana all’Amore divino
34. Tutto ciò che precede non può non avere
conseguenze sulla visione cristiana dell’essere umano. Anche
egli è rivelato nella grandezza sovrabbondante della sua
vocazione come homo semper major. Il Simbolo di Nicea non
comprende un articolo antropologico in senso stretto ma l’essere
umano, nella sua vocazione alla filiazione divina in Gesù,
potrebbe essere descritto come oggetto della fede.
Conformemente alle Sacre Scritture, la sua vera identità è
rivelata dal mistero di Cristo e dal mistero della salvezza come
mistero in senso stretto, analogo a quello di Dio e di
Cristo, benché essi lo superino incomparabilmente.
35. Questo grande mistero è anzitutto
legato a quello del Dio trinitario e di Cristo. La rivelazione
della paternità di Dio è la rivelazione del mistero della
paternità tout court: «Io piego le ginocchia davanti al Padre,
dal quale ha origine ogni discendenza in cielo e sulla terra» (Ef
3,14). La rivelazione del Figlio Unico, in particolare nel
Vangelo di Giovanni, è la manifestazione della filiazione in
senso proprio, che scaturisce ontologicamente dalla Prima
Generazione e proviene dal mistero stesso della Trinità. In una
sorta di inversione del rapporto di analogia, sono la paternità
e la filiazione trinitarie che illuminano e purificano la
paternità, la maternità, la filiazione e la fraternità umane,
culturalmente situate e segnate dal peccato. La paternità divina
manifesta innanzi tutto che la filiazione è la caratteristica
più profonda dell’essere umano: che è un dono donato a se stesso
da Dio Padre ed è chiamato a riceversi da Dio e, in Lui, dagli
altri e dal mondo creato che lo circonda per diventare sempre
più se stesso. Per questa ragione, la sua identità e la sua
vocazione sono rivelate in modo speciale nel Cristo, Figlio
incarnato, “uomo perfetto” che, «nella rivelazione del mistero
del Padre e del suo amore, manifesta pienamente l’uomo a se
stesso e gli svela la sublimità della sua vocazione».[47]
D’altra parte, gli esseri umani sono anche chiamati a
partecipare del mistero della paternità, essendo padri e madri
carnali e spirituali. A immagine della paternità divina, le
paternità e maternità umane implicano il dono di sé, una piena
uguaglianza tra genitori e figli, tra coloro che donano e coloro
che ricevono, ma anche una differenza e una tàxis tra di
loro. Infine, non vi è antropologia realmente cristiana che non
sia pneumatologica. Solo lo Spirito “che dona la vita” umanizza
interamente l’essere umano, lo rende figlio e figlia, padre e
madre. Analogicamente, si può senza dubbio parlare di una forma
di co-spirazione dello Spirito, o d’ispirazione
congiunta,[48]poiché
i nostri atti e le nostre parole più feconde sono tali nella
misura della cooperazione che offrono allo Spirito, il quale
attraverso di loro consola, rialza e guida. Così, la verità e il
senso della paternità, della filiazione e della fecondità umane
devono essere rivelate, perché non sono soltanto realtà naturali
o culturali ma una partecipazione al modo di essere del Dio
trinitario. Esse non possono venir comprese in profondità senza
la Rivelazione e, allo stesso modo, non possono essere
esercitate senza la grazia. Ecco un’altra buona notizia da
riscoprire oggi a partire da Nicea.
36. In un certo senso, l’homooúsios
stesso può avere una portata antropologica. Un uomo ha donato
l’accesso a Dio. Beninteso, Cristo dice in maniera unica e
propria: «Chi vede me, vede il Padre» (Gv 14,9) in
ragione del mistero dell’unione ipostatica. Tuttavia, questa
unione unica in lui si realizza in coerenza col mistero
dell’essere umano «creato a immagine e somiglianza di Dio» (Gn
1,27). In questo senso, e realmente, ogni essere umano riflette
Dio, fa conoscere e dona accesso a Dio. Il Papa Paolo VI
esprimeva questo paradosso sottolineando da una parte che «per
conoscere l’uomo, l’uomo vero, l’uomo integrale, bisogna
conoscere Dio», ma d’altra parte affermava anche che «per
conoscere Dio, bisogna conoscere l’uomo».[49]Queste
parole devono essere comprese in senso forte: non solamente ogni
essere umano fa vedere l’immagine di Dio, ma non è possibile
conoscere Dio senza passare per l’essere umano. Per di più, come
abbiamo visto sopra (§ 22), la Chiesa farà ricorso
all’espressione homooúsios per esprimere la comunità di
natura del Cristo in quanto vero uomo, «nato da donna» (Gal
4,4), la Vergine Maria, con tutti gli esseri umani.[50]I
due versanti di questa duplice “consustanzialità” del Figlio
incarnato si rafforzano l’un l’altro per fondare in maniera
profonda, efficace, la fraternità di tutti gli esseri umani. Noi
siamo in certo senso fratelli e sorelle di Cristo per l’unità
della medesima natura umana: «Perciò doveva rendersi in tutto
simile ai fratelli» (Eb 2,17; cf. 2,11-12). É questo
legame nell’umanità che permette a Cristo, consustanziale al
Padre, di coinvolgerci nella sua filiazione dal Padre, e di fare
di noi dei figli di Dio, suoi fratelli e sorelle e, di
conseguenza, fratelli e sorelle gli uni degli altri in un senso
nuovo, radicale e indistruttibile.
37. Il mistero dell’uomo nella
sua grande dignità è ugualmente rischiarato dalla dimensione
escatologica del Simbolo di Nicea. La fede nella “risurrezione
dei morti”, espressa anche come “risurrezione della carne”,[51]
afferma la bellezza del corpo e la bellezza di ciò che si vive
nel mondo attraverso il corpo, malgrado la fragilità e i limiti
umani. Essa afferma il valore di questo corpo personale e
concreto che sarà risuscitato, trasfigurato, ma si manterrà
numericamente identico.[52]
Tale fede pone dunque una richiesta etica: se gli atti di amore
vero posti nel e mediante il corpo in questa vita sono in
qualche modo i primi passi della vita risorta, il rispetto del
corpo implica che si viva rettamente e con purezza tutto ciò che
lo riguarda. Notiamo che le cristologie che non affermano una
piena umanità del Cristo rischiano di indurre una concezione
della salvezza come fuga dal corpo e dal mondo, piuttosto che
come piena umanizzazione dell’uomo. Ora, questo ancoraggio nel
mondo e nei corpi, creati buoni e portati a compimento nella
nuova creazione, è una delle caratteristiche del cristianesimo.
Ritroviamo qui il legame profondo tra creazione e salvezza:
tutti i tratti umani di Gesù, ricevuti da Maria, sua madre, sono
delle buone notizie e invitano ogni essere umano a prendere in
considerazione ciò che fa della sua umanità concreta una buona
notizia.
38. Inoltre, la speranza della
risurrezione come anche quella della “vita eterna del mondo che
verrà”, attesta l’immenso valore della persona individuale, che
non è destinata a sparire nel nulla o nel tutto, ma è chiamata a
una relazione eterna con quel Dio che ha eletto ciascuno prima
della fondazione del mondo (cf. Ef 1,4). Già l’elezione
di Abramo, Isacco e Giacobbe e l’alleanza irrevocabile col
popolo d’Israele rivelano l’alleanza che Dio vuole stringere con
tutte le nazioni e con ogni essere umano in una indistruttibile
fedeltà. Allo stesso modo, l’incarnazione del Figlio eterno in
un essere umano singolare conferma, fonda e compie la dignità
insopprimibile della persona in quanto fratello e sorella di
Gesù Cristo.
39. Il nostro mondo ha oggi un
immenso bisogno di riscoprire questi aspetti del mistero
dell’uomo che lo presentano nella sua grandezza senza ignorare
la sua miseria. «L’uomo sorpassa infinitamente l’uomo», ha detto
Blaise Pascal.[53]Questa
convinzione cristiana lancia una sfida a tutte le forme di
riduzionismo antropologico. La fede nella paternità, nella
filiazione e nell’ispirazione feconda (“pneumatica”) delle
persone umane fonda e orienta ogni autentica concezione
dell’autonomia, della libertà e della creatività umane. Queste
trovano la loro origine in Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo,
per i quali l’onnipotenza, la sapienza e l’amore fanno una cosa
sola nel dono di sé. Al contrario, la perdita della fede nella
risurrezione e nella vita eterna si trasformerà nel rifiuto di
attribuire il suo vero posto al corpo e al valore sacro di
ciascun individuo nella sua unicità e trascendenza. Ora, il
Creatore ci ha rivelato le sue intenzioni: «L’hai fatto poco
meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato» (Sal
8,6).
3.3. La bellezza del dono della Chiesa e del battesimo
40. I diversi fili tessuti fino
ad ora si annodano nelle affermazioni ecclesiologiche e
sacramentali del Simbolo. La fede di Nicea significa anche
credere la Chiesa “una, santa, cattolica e apostolica” e credere
il battesimo “per la remissione dei peccati”. La Chiesa e il
battesimo vanno celebrati come doni che sono anch’essi semper
majora. Dal momento che confermano e manifestano la pienezza
sovrabbondante di tutto ciò che è esposto nel resto del Simbolo,
essi sono oggetti paradossali di fede: si tratta di riconoscere
in essi molto più di ciò che si vede. La Chiesa è una al
di là delle sue divisioni visibili, santa al di là dei
peccati dei suoi membri e degli errori commessi dalle sue
strutture istituzionali, cattolica e apostolica al di là
dei ripiegamenti identitari e culturali e dei tormenti
dottrinali ed etici che la agitano senza tregua. In questo
senso, si tratta di evitare sia il “monofisismo” che
“l’arianesimo” ecclesiologici: il primo sottovaluta, quando non
nasconde, la dimensione umana della Chiesa, mentre il secondo
elude la dimensione divina della Chiesa a vantaggio di una
visione puramente sociologica e funzionale. Allo stesso modo,
nella fede, il battesimo è compreso come sorgente di una vita
nuova e della purificazione dal peccato al di là di ciò che è
visibile nella vita imperfetta e talvolta lontana da Dio degli
stessi battezzati. Esso manifesta ed eleva la dignità
inviolabile di ogni essere umano conformandolo a Cristo
sacerdote, re e profeta.
41. “Credere” la Chiesa e
“confessare” il battesimo significa ricevere un dono di fede che
permette di discernere al cuore stesso della loro dimensione
umana e fragile la presenza attiva e santificante dello Spirito
Santo. É lo Spirito che rende la Chiesa una, santa, cattolica e
apostolica e che dona la sua efficacia al battesimo. “Credere la
Chiesa e il battesimo, significa ugualmente percepire in essi e
attraverso di essi l’azione salvifica di Cristo. Come Cristo è
il sacramento fondamentale di Dio, la sua presenza reale e
agente nel simbolo reale della sua umanità, allo stesso modo la
Chiesa è «sacramento universale di salvezza».[54]Infine,
“credere” la Chiesa e il battesimo, significa discernere in essi
la presenza del Dio trinitario. La Chiesa è semper major,
poiché essa trova la sua fonte e i suoi fondamenti nel Dio trino
e in lei vivono il Padre, il Figlio incarnato e lo Spirito.
Proprio in questa Chiesa, la fede di Nicea è proclamata e
celebrata – nel battesimo e negli altri sacramenti: «Gloria al
Padre e al Figlio con lo Spirito Santo nella santa Chiesa».[55]
42. Al crocevia tra soteriologia
e antropologia, credere la Chiesa e confessare il battesimo
conferma e dispiega l’immensità della salvezza e del mistero
dell’essere umano. La salvezza non è un processo semplicemente
individuale, bensì comunitario e soprannaturale, recepito in
virtù della collaborazione di altri uomini e donne che ci sono
prossimi, e generatore di un frutto spirituale per altri che
pure ci sono prossimi.[56]Questo
processo illumina la natura dell’essere umano che non è una
monade isolata, ma un essere sociale, inserito in una famiglia,
in una nazione, in una comunità di fede e nell’umanità intera.[57]Di
conseguenza, la fede nella Chiesa e nel battesimo implica che la
redenzione s’inscriva in azioni e strutture visibili, legati
alla dimensione corporea dell’individuo e del corpo sociale, che
si dispiegano nella storia. Sono questi i luoghi dello Spirito
vivificante e ispiratore, che opera nei loro limiti e al di là
di essi per raggiungere ogni essere umano. In fondo,
testimoniando l’articolazione dell’individuo e del tutto, la
corporeità e l’iscrizione in una storia, la Chiesa si inserisce
nell’opera di Cristo che «manifesta pienamente l’uomo all’uomo».[58]In
modo particolare, come «sacramento di unità»,[59]
la Chiesa confessata dalla fede di Nicea è il segno e lo
strumento di unità di tutti questi aspetti dell’umano e
dell’umanità intera: la visione cristiana dell’uomo fa esplodere
la chiusura di quelle forme di riduzionismo che o rifiutano la
comunità a favore dell’individuo o l’individuo a vantaggio della
collettività, e che non tendono all’unità.
4. Celebrare insieme l’immensità della salvezza: la portata ecumenica della fede
di Nicea e la speranza di una data comune per la celebrazione della Pasqua
43. La fede di Nicea, nella sua
bellezza e nella sua grandezza, è la fede comune a tutti i
cristiani. Tutti sono uniti nella professione del Simbolo di
Nicea-Costantinopoli, anche se non tutti riconoscono a questo
Concilio e alle sue decisioni un identico statuto. L’anno 2025 è
dunque un’occasione inestimabile per sottolineare che ciò che
abbiamo in comune è molto più forte, quantitativamente e
qualitativamente, di ciò che ci divide: tutti insieme, noi
crediamo nel Dio trinitario, nel Cristo vero uomo e vero Dio,
nella salvezza in Gesù Cristo, secondo le Scritture lette nella
Chiesa e sotto la mozione dello Spirito Santo. Insieme, noi
crediamo la Chiesa, il battesimo, la risurrezione dei morti e la
vita eterna. Il Concilio di Nicea è in modo speciale venerato
dalle Chiese d’Oriente, non semplicemente come un concilio tra
altri o come il primo di una serie, ma come il Concilio
per eccellenza, che ha promulgato la confessione di fede dei
“318 padri ortodossi”.
44. Di conseguenza, il 2025 è
l’occasione per tutti i cristiani di celebrare insieme questa
fede e il Concilio che ha permesso di esprimerla. L’ecumenismo
teologico, legittimamente, concentra la sua attenzione e i suoi
sforzi sui nodi irrisolti delle nostre differenze, ma senza
dubbio non è meno fecondo, se non più fecondo, celebrare
insieme questo anniversario, per avanzare verso il
ristabilimento della piena comunione tra tutti i Cristiani,
affinché il mondo creda. Abbiamo già sottolineato come
l’insistenza delle differenti tradizioni cristiane permetta di
valorizzare le ricchezze del testo del Simbolo (cf. supra
§ 17). La celebrazione comune di Nicea potrà essere un percorso
ecumenico di arricchimento mutuo che offrirà, cammin facendo,
una migliore comprensione del mistero, una più grande comunione
tra le tradizioni ecclesiali e un attaccamento più forte alla
comune professione della fede cristiana.
45. Una delle finalità di Nicea
fu di stabilire una data comune della Pasqua, per esprimere
l’unità della Chiesa in tutta l’Oikoumenē.
Sfortunatamente nessuna data fino ad oggi ha trovato un consenso
unanime. La divergenza dei cristiani a proposito della festa più
importante del loro calendario crea dei disagi pastorali
all’interno delle comunità, al punto da dividere le famiglie, e
suscita scandalo presso i non cristiani, danneggiando così la
testimonianza resa al Vangelo. Per questo Papa Francesco, il
Patriarca Ecumenico Bartolomeo e altri capi di Chiese hanno
molte volte espresso il desiderio che si stabilisca una data
comune per la celebrazione della Pasqua. Ora, proprio nel 2025
la Pasqua sarà nella medesima data sia per l’Oriente che per
l’Occidente. Non è questa un’occasione provvidenziale da
cogliere, per continuare a celebrare la passione e risurrezione
di Cristo, la “festa di tutte le feste” (Mattutino bizantino di
Pasqua), in comunione in tutte le comunità cristiane? Esistono
già numerose proposte di data indivisa abbastanza realistiche.
Su questa questione la Chiesa cattolica rimane aperta al dialogo
e a una soluzione ecumenica. Già nell’appendice della
Costituzione
Sacrosanctum Concilium, il Concilio Vaticano
II non aveva obiezioni all’introduzione di un nuovo calendario e
sottolineava che ciò avrebbe dovuto realizzarsi «con l’assenso
di coloro che ne sono interessati, soprattutto i fratelli
separati dalla comunione con la Sede Apostolica».[60]Va
notata l’importanza assegnata dal mondo orientale agli elementi
posti successivamente a Nicea per determinare la data di Pasqua:
la Pasqua deve essere celebrata «la prima domenica dopo la luna
piena che segue o coincide con l’equinozio di primavera».[61]La
domenica evoca la risurrezione di Cristo il primo giorno della
settimana, mentre la luna piena che segue l’equinozio di
primavera richiama l’origine ebraica della festa, il 14 di
Nissan, ma richiama anche la dimensione cosmica della
risurrezione, dal momento che l’equinozio di primavera evoca il
momento in cui la durata del giorno supera quella della notte e
in cui la natura riprende vita dopo l’inverno.
46. Notiamo che è nel quadro del
Concilio di Nicea che la Chiesa sceglie in modo decisivo di
separarsi dalla data della Pasqua ebraica. L’argomento secondo
cui il Concilio ha voluto smarcarsi dall’ebraismo è stato
avanzato basandosi sulle lettere dell’Imperatore Costantino
riportate da Eusebio, che presentano in particolare delle
giustificazioni anti-ebraiche per la scelta di una data di
Pasqua che non fosse legata al 14 di Nissan.[62]Tuttavia,
bisogna distinguere le motivazioni attribuite all’Imperatore da
quelle dei Padri del Concilio. In ogni caso, nulla nei canoni
del Concilio esprime un simile rifiuto del modo di fare degli
ebrei. Non si può ignorare l’importanza per la Chiesa dell’unità
del calendario e della scelta della domenica per esprimere la
fede nella risurrezione. Oggi, nel momento in cui la Chiesa
festeggia il 1700o anniversario di Nicea, rimangono
questi gli scopi di una riflessione sulla data di Pasqua. Al di
là della questione del calendario, sarebbe auspicabile
sottolineare sempre meglio il rapporto tra Pasqua e Pesaḥ,
sia in teologia che nelle omelie come anche nella catechesi, al
fine di raggiungere una comprensione più ampia e più profonda
del significato della Pasqua.
47. Alla vigilia di Pasqua e in
ogni liturgia battesimale il Simbolo di Nicea-Costantinopoli è
proclamato nella sua forma più solenne che è quella dialogata.
Questa professione di fede, che fonda la vita cristiana
individuale e la vita della Chiesa, troverà tutta la sua forza
se rimane radicata nella rivelazione fatta ai nostri “fratelli
maggiori” e ai nostri “padri nella fede”[63]
e se sarà vissuta nella comunione visibile da tutti i discepoli
di Cristo.
Capitolo 2
Il Simbolo di Nicea nella vita dei credenti:
«Noi crediamo come battezziamo;
e preghiamo come crediamo»
Preludio: la fede confessata nella fede vissuta
48. La fede professata a Nicea ha un ricco
contenuto dogmatico che è stato determinante nello stabilire la
dottrina cristiana. Tuttavia, l’intento di questa dottrina era e
rimane quello di nutrire e guidare la vita del credente. In
questo senso, è possibile mettere in luce un vero e proprio
tesoro spirituale del Concilio di Nicea e del suo Simbolo, una
“fonte d’acqua viva” alla quale la Chiesa è chiamata ad
attingere oggi e sempre. É per proteggere l’accesso a
quest’acqua viva che sant’Antonio accettò di lasciare il suo
eremitaggio per andare a rendere testimonianza contro gli ariani
ad Alessandria.[64]Questo
tesoro si manifesta direttamente nel modo in cui la fede di
Nicea nasce dalla lex orandi e a sua volta la nutre.[65]
D’altronde, i sinodi non si proponevano mai di limitare i loro
dibattiti all’ambito speculativo degli enunciati di fede. Al
contrario, coloro che partecipavano a questi sinodi avevano a
cuore di confrontarsi sulla totalità della vita ecclesiale, sul
modo migliore di impregnarsi nel quotidiano delle verità di fede
e di praticarle e, viceversa, di regolare il loro insegnamento
sull’ortoprassi liturgica, sacramentale e anche etica.[66]I
vescovi, insomma, portavano con sé spiritualmente nei concili i
membri del corpo della Chiesa, coi quali condividevano la vita
di fede e di preghiera e coi quali cantavano la lode e la gloria
del Padre, e del Figlio e dello Spirito Santo, un solo Dio.
Così, per cogliere la portata spirituale e teologale del dogma
di Nicea, conviene esplorare la sua ricezione nella pratica
liturgica e sacramentale, nella catechesi e nella predicazione,
nella preghiera e negli inni del IV secolo.
1. Battesimo e fede trinitaria
49. Prima che la dottrina della Trinità
si sviluppasse teologicamente, la fede nella Trinità
era già al fondamento della vita cristiana celebrata nel
battesimo. La professione di fede battesimale pronunciata nella
formula sacramentale del battesimo non esprimeva solo un mistero
teorico quanto piuttosto la fede vivente riferita alla realtà
della salvezza donata da Dio e quindi a Dio stesso. La fede
battesimale dona una “conoscenza” di Dio che è allo stesso tempo
accesso al Dio vivente. In tal senso, l’apologista Atenagora
assicura: «Noi […] uomini […] che siamo spinti dal solo
(desiderio) di conoscere Dio e il Verbo che è presso di
lui, qual è l’unione del Figlio con il Padre, qual è la
comunione del Padre con il Figlio, che cosa è lo Spirito, quale
l’unione di questi esseri così grandi e la distinzione di loro
così uniti, dello Spirito, del Figlio, del Padre».[67]
50. Per questo la formula battesimale,
nella quale il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono posti su
un gradino di eguaglianza, costituisce l’argomento centrale
contro Ario e suoi discepoli, molto più che il ricorso a
ragionamenti teologici. É ciò che si trova anche in Ambrogio[68]
e Ilario,[69] come
pure in Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa o Efrem il Siro.[70]Allo
stesso modo, Atanasio insiste: il Figlio non è nominato nella
formula battesimale perché il Padre non sia sufficiente, e
neppure per caso, ma perché:
È il Logos di Dio e la sua propria Sapienza ed in quanto sua irradiazione (apaugasma)
è sempre insieme al Padre; per questa ragione è impossibile che, pur essendo il
Padre ad offrirla, la grazia non sia conferita nel Figlio: il Figlio è infatti
nel Padre come lo splendore nella luce […]. Colui che il Padre battezza anche il
Figlio lo battezza, e colui che il Figlio battezza viene iniziato nello Spirito
Santo.[71]
51. Detto questo, per Atanasio e per i
Padri Cappadoci, non si tratta semplicemente di pronunciare la
formula trinitaria, ma il battesimo presuppone la fede nella
divinità di Gesù Cristo. Così, l’insegnamento della retta fede è
necessario e fa parte della pratica conforme al battesimo.
Atanasio cita come fondamento la formulazione del comando in
Mt 28,19: «Andate... insegnate... e battezzate».[72]Per
questo Atanasio – come Basilio e Gregorio di Nissa[73]–
negano ogni efficacia al battesimo ariano, perché coloro che
considerano il Figlio come una creatura non hanno una giusta
concezione di Dio Padre: colui che non riconosce il Figlio
non comprende nemmeno il Padre e non “possiede” il Padre, dal
momento che il Padre non ha mai cominciato ad essere Padre.[74]
2. Il Simbolo di Nicea come confessione di fede
52. Non soltanto la confessione di fede di
Nicea è espressione della fede battesimale ma è possibile che
provenga direttamente da un Simbolo battesimale della Chiesa di
Cesarea in Palestina (se si dà credito a ciò che dice Eusebio).[75]Sarebbero
state fatte tre aggiunte: “…cioè della sostanza del Padre”,
“generato, non creato”, e “consustanziale al Padre (homooúsios)”.
In questo modo, è stabilito con una impressionante chiarezza che
colui che “ha preso carne per noi uomini... e ha sofferto” è
Dio, homooúsion tō Patri. Eppure, pur essendo “da la
sostanza del Padre” (ek tēs ousias tou Patros), Egli è
distinto dal Padre nella misura in cui è suo Figlio. Grazie a
lui, che «si è fatto uomo per la nostra salvezza», noi sappiamo
che cosa significa il fatto che il Dio trinitario «è amore» (1Gv
4,16). Queste aggiunte sono essenziali e dicono l’originalità
propria e l’apporto determinante di Nicea, ma conviene allo
stesso tempo sottolineare senza posa che il Simbolo in quanto
simbolo di fede si radica in modo originale nel contesto
liturgico, che è il suo ambito vitale e dunque il contesto nel
quale riceve tutto il suo senso. Non si tratta certo di
un’esposizione teorica ma di un atto di celebrazione
battesimale, che si arricchisce dal resto della liturgia e a sua
volta la illumina. I nostri contemporanei possono avere talvolta
l’impressione che il credo sia un’esposizione molto teorica
proprio perché ne ignorano il radicamento liturgico e
battesimale.
53. In tal senso, la fede di Nicea resta e
si propone come un “symbolon” (“ekthesis”, “pistis”),
cioè una confessione di fede. Essa può distinguersi da
un’interpretazione o da una definizione teologica tecnica più
precisa, che mira a proteggere la fede (“oros”, “definitio”),
come l’ha proposta ad esempio il Concilio di Calcedonia. In
quanto Simbolo, la Confessione di Nicea è una formulazione
positiva e un’esplicitazione della fede biblica.[76]Non
pretende di offrire una nuova definizione, ma piuttosto
un’evocazione della fede degli apostoli: «Questa fede, il
Cristo l’ha donata, gli apostoli l’hanno
annunciata, i Padri di tutta la nostra Oikoumenē
riuniti a Nicea l’hanno trasmessa (paradosis)».[77]
54. Ugualmente, è a motivo del suo statuto
di confessione di fede e precisamente di fede apostolica, e non
in quanto definizione o insegnamento, che il Simbolo di Nicea è
considerato nel periodo successivo (almeno fino alla fine del V
secolo) come la prova decisiva dell’ortodossia.[78]Per
questo è utilizzato come testo base nei concili successivi.
Così, Efeso e Calcedonia si vogliono interpreti del Simbolo
niceno: essi sottolineano il loro accordo con Nicea e si
oppongono alle prese di posizione dissidenti rispetto a Nicea.
Quando la Confessione di fede di Nicea-Costantinopoli è stata
letta al Concilio di Calcedonia, i vescovi riuniti hanno
esclamato: «Ecco la nostra fede. É in questa fede che siamo
stati battezzati, è in questa fede che noi battezziamo! Il papa
Leone crede così, Cirillo credeva così».[79]
Notiamo che la professione di fede può essere espressa al
singolare – “io credo” – ma che spesso è al plurale: “noi
crediamo”; allo stesso modo, la preghiera del Signore è al
plurale: “Padre nostro…”. La mia fede, radicalmente personale e
singolare, si inscrive altrettanto radicalmente in quella della
Chiesa, intesa come comunità di fede. Il Simbolo di Nicea e
l’originale greco del Simbolo di Nicea-Costantinopoli si aprono
col plurale “noi crediamo”, «per testimoniare che in questo
“Noiˮ, tutte le Chiese erano in comunione, e che tutti i
cristiani professavano la stessa fede».[80]
55. Come evocato nel capitolo precedente,
fino ad oggi “Nicea” – “la confessione di fede dei 318 padri
ortodossi”[81] – è
considerato nelle Chiese orientali come il Concilio per
eccellenza, cioè non come “un concilio tra altri”, e neanche
come “il primo di una serie”, ma come la norma della
retta fede cristiana. I “318 Padri” sono esplicitamente
menzionati nella liturgia di Gerusalemme. Inoltre, nelle Chiese
orientali, contrariamente alle Chiese occidentali, Nicea ha
ricevuto una sua propria commemorazione nel calendario
liturgico. É opportuno notare che le questioni disciplinari
trattate a Nicea ricevettero da subito un peso differente
rispetto alla confessione di fede. Mentre per le questioni
disciplinari valgono le decisioni maggioritarie, per le
questioni di fede è la tradizione apostolica a essere
determinante: «Per ciò che riguarda la Pasqua, [i Padri] hanno
scritto: “È stato decisoˮ. […] Per ciò che riguarda la fede,
hanno scritto non: “È stato decisoˮ, ma: “Così crede la Chiesa
cattolica!ˮ».[82]
3. Approfondimento nella predicazione e nelle catechesi
56. I Padri d’Oriente e d’Occidente non si
accontentavano di argomentare con l’aiuto dei trattati
teologici, ma illustravano ugualmente la fede nicena nelle
prediche destinate al popolo, al fine di premunire i fedeli
contro le interpretazioni errate, generalmente designate col
termine “ariano” – anche se gli “homei”d’Occidente all’epoca di
Agostino si distinguevano nettamente dai “neo-ariani” d’Oriente
nelle loro argomentazioni. La concezione teologica secondo la
quale il Figlio non è “Dio vero da Dio vero”, ma solo la
creatura più eminente del Padre e non è coeterno col Padre, è
stata riconosciuta dai Padri come una minaccia persistente e
combattuta anche indipendentemente dalla presenza di avversari
concreti. Il prologo del Vangelo di Giovanni offriva in
proposito l’occasione di spiegare la relazione tra Padre e
Figlio ovvero tra “Dio” e la sua “Parola”, in modo conforme alla
confessione di Nicea.[83]Cromazio
di Aquileia (ordinato vescovo nel 387/388, morto nel 407), ad
esempio, trasmette ai suoi fedeli la fede nicena senza
utilizzare la terminologia tecnica.[84]Perfino
i Padri della Chiesa che nutrivano un certo scetticismo di
principio riguardo alle “dispute teologiche”, presero una
posizione molto chiara contro “l’empietà ariana” (“asebeia”,
“impietas”): gli Ariani non comprendono “la generazione
eterna del Figlio”, né “l’uguaglianza-eternità originale” del
Padre e del Figlio.[85]Essi
si sbagliano anche sul monoteismo, accettando una seconda
divinità subordinata. Il loro culto è quindi perverso ed
erroneo.
57. Così, nelle sue catechesi, Giovanni
Crisostomo spiega la fede battesimale validamente formulata a
Nicea,[86]e
distingue la retta fede non soltanto rispetto alla dottrina
omea, ma anche nei confronti della dottrina sabelliana: i
cristiani credono in un Dio che è “una essenza, tre ipostasi”.
Agostino argomenta in maniera simile nelle istruzioni dei
candidati al battesimo.[87]L’Oratio
catechetica magna di Gregorio di Nissa, le cui parti più
voluminose sono dedicate al Verbo di Dio eterno e incarnato, può
essere considerata come il capolavoro di una catechesi
chiaramente destinata a coloro che dovrebbero diffonderla, cioè
i vescovi e i catechisti. A tema non c’è solo la relazione tra
il Figlio-Parola e il Padre (cap. 1.3.4.), ma anche il
significato dell’incarnazione in quanto azione redentrice
(cap. 5). Gregorio vuole far comprendere che la nascita e la
morte non sono qualcosa di indegno di Dio o di incompatibile con
la sua perfezione (cap. 9 e 10), e spiega l’incarnazione col
motivo dell’amore di Dio per gli uomini. Ma insiste soprattutto
sul fatto che il battesimo cristiano è compiuto nella “Trinità
increata”, cioè nelle tre Persone coeterne. È solo così che il
battesimo conferisce la vita eterna e immortale: «Poiché chi si
sottomette a qualche essere creato (e cioè se pensa che il
Figlio e lo Spirito Santo sono creati) non si accorge che ripone
in quello, e non in Dio, la propria speranza di salvezza».[88]
58. Il cuore del dibattito è piuttosto una
questione esistenziale che un problema teorico: il battesimo è
connesso a «l’instaurazione nella filiazione» (Basilio),
all’«inizio in noi della vita eterna» (Gregorio di Nissa), alla
«salvezza dal peccato e dalla morte» (Ambrogio)?[89]Tutto
ciò non è possibile se non a condizione che il Figlio (e lo
Spirito Santo) sia Dio. Solo quando Dio stesso diventa
“uno di noi” esiste una reale possibilità per l’uomo di
partecipare alla vita della Trinità, cioè di essere
“divinizzato”.
4. La preghiera al Figlio e le dossologie
59. La fede di Nicea serve da regola per la
preghiera personale e liturgica[90]e
quest’ultima è segnata da Nicea. Benché l’“invocazione del nome
del Signore (Gesù)” sia già attestata negli scritti del Nuovo
Testamento[91]e
benché soprattutto gli inni a Cristo[92]testimonino
l’offerta di lode e di adorazione, la preghiera al Figlio
diventa oggetto di controversia nella crisi ariana.
60. Nel rimando a certi testi di Origene,[93]alcuni
ariani del IV secolo, ma anche alcuni seguaci di Origene dei
secoli V e VII, si oppongono particolarmente alla preghiera
liturgica al Figlio. Gli ariani avevano interesse a
mettere in evidenza i passaggi delle Scritture che mostravano
Gesù stesso in preghiera, al fine di sottolineare la sua
inferiorità in rapporto al Padre. In combinazione con la
concezione (apollinarista), ugualmente diffusa presso gli
ariani, secondo la quale il Logos prende il posto dell’anima di
Gesù, la subordinazione del Logos al Padre sembrava così
provata. Per essi, quindi, la preghiera rivolta al Figlio era
inappropriata. A favore del loro punto di vista, gli ariani
argomentavano utilizzando la formulazione tradizionale della
dossologia, che riveste una grande importanza,
particolarmente nelle liturgie orientali: «Gloria e adorazione
al Padre per (dia / per) il
Figlio nello (en / in) Spirito
Santo».[94] La
differenza delle preposizioni veniva invocata come prova di una
differenza essenziale delle persone. Gli ariani cercavano
di ricorrere alla liturgia – riconosciuta come istanza di
testimonianza della fede della Chiesa – per provare ciò che essi
consideravano in tal modo teologicamente giustificato.
61. I difensori di Nicea hanno affermato
invece che la pratica della preghiera doveva sì
corrispondere alla fede, ma che questa corrispondeva a
sua volta al battesimo. Ora, la formula battesimale
manifesta l’uguaglianza in dignità del Padre, del Figlio e dello
Spirito Santo. Ne risulta che la preghiera – che sia personale o
liturgica – può e deve ugualmente rivolgersi al Figlio. Anche se
i niceni non hanno rigettato l’antica formula dossologica, ma ne
hanno difeso il senso ortodosso,[95]essi
hanno preferito altre formulazioni e preposizioni: “tō Patri,
kai…kai”, “tō Patri, dia… sun”, che sono
ugualmente attestate nella tradizione biblica e liturgica.[96]Basilio
si riferisce in tal senso, tra l’altro, all’inno molto antico “Phōs
hilăron” (forse del II secolo), nel quale il Padre, il
Figlio e lo Spirito sono oggetto di un canto di adorazione.[97]
62. Il principio: «Come siamo battezzati
così anche crediamo, come crediamo così anche glorifichiamo»,[98]
si applica ugualmente alla preghiera personale.
L’invocazione di Gesù – quale è stata praticata sotto forma di
preghiera a Gesù, soprattutto in ambiti monastici – è
esplicitamente giustificata dall’invocazione dell’“homooúsios
tôi Patri”. «Quando noi diciamo “Gesù” – spiega Shenuda, un
padre copto del V secolo – è insieme nominata la santissima
Trinità». Quando è invocato il Figlio incarnato, egli non è
invocato separatamente dal Padre e dallo Spirito Santo. Chi non
vuole pregare Gesù segue la “nuova empietà”; egli non
comprende nulla della Trinità, ma non comprende nulla nemmeno di
“Gesù”.[99]Il modo
in cui uno prega mostra ciò che crede.
63. La correttezza nella preghiera possiede
un’implicazione soteriologica. È Gregorio di Nissa a lanciare
l’avvertimento più incisivo: la speranza del credente è più di
una morale nel senso attuale del termine, ma si esprime anche
nella preghiera. La speranza è rivolta verso la divinizzazione
operata da Dio: se «la prima grande speranza non è più presente
presso coloro che si lasciano coinvolgere in un errore di
dottrina», ciò ha per conseguenza «che non c’è alcun vantaggio a
comportarsi correttamente col sostegno dei comandamenti». E
Gregorio prosegue:
Noi siamo dunque battezzati come l’abbiamo ricevuto, nel nome del Padre, del
Figlio e dello Spirito Santo; ma noi crediamo come siamo battezzati; conviene, in effetti, che la fede sia in accordo con la confessione; noi
glorifichiamo così come crediamo, perché non è naturale che la glorificazione si
opponga alla fede. Ma ciò in cui crediamo, anche lo glorifichiamo. Di modo che,
poiché la fede è nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo, la fede, la gloria
e il battesimo si tengono reciprocamente, a causa di ciò non si distingue la
gloria del Padre, da quella del Figlio e dello Spirito Santo.[100]
64. L’aggiunta della dossologia trinitaria
alla fine di ogni salmo, il cui ordine è attribuito al Papa
Damaso (morto nel 384 dopo Cristo), può essere compresa in
questa direzione. Cassiodoro rimarca che in questo modo tutte le
eresie vengono ridotte al nulla:
La Madre Chiesa aggiunge la lode della Trinità a tutti i salmi e cantici. Rende
omaggio a Colui dal quale provengono queste parole e taglia così l’erba sotto i
piedi alle eresie di Sabellio, Ario, Mani e altri.[101]
È soprattutto il caso dell’aggiunta “sicut
erat in principio...”, che è stato compreso, in modo
inequivocabile, come una professione di fede antiariana.[102]
5. La teologia negli inni
65. Gli inni, infine, sono un luogo di
espressione della fede di Nicea che ha trovato posto nella vita
del credente e che è stata influenzata da Nicea. Così numerosi
inni terminano con la dossologia trinitaria. Peraltro, il
confronto con l’eresia ariana ha giocato un ruolo importante
nello sviluppo della poesia cristiana. È anzitutto in Oriente
che sono stati composti inni e canti,[103]che
volevano rispondere ai poemi di propaganda dei gruppi
eterodossi. Quanto all’Occidente, si può perfino dire che il suo
contributo teologico più importante nel IV secolo è consistito
nella composizione degli inni.
66. Oltre a Giovanni Crisostomo, è
soprattutto Efrem il Siro (306-373) che, nella sua poesia
teologica (che ha segnato in seguito tutta la letteratura
siriaca classica) e in particolare negli inni De fide e
De nativitate, ha cantato il mistero di Cristo: il Cristo
è Dio, malgrado la debolezza della sua natura umana; la kenosi
del Cristo non è un miracolo così grande se non per il motivo
che Egli è Dio e che rimane Dio nella sua spogliazione.[104]È
con una profonda pietà che Efrem descrive le relazioni
intra-trinitarie: il Figlio è nel Padre «prima di tutti i
tempi», Egli è «uguale al Padre eppure distinto da Lui».[105]Efrem
utilizza volentieri l’immagine del sole, della sua luce e del
suo calore, che sono legati nell’unità.[106]Non
smette di fare riferimento ai tre “nomi” ai quali corrisponde la
realtà divina e nei quali «consistono il nostro battesimo e la
nostra giustificazione».[107]Tutto
ciò egli lo fa esplicitando bene il contesto della fede nicena,
dal momento che cita “il glorioso sinodo”, riferendosi
chiaramente a Nicea.[108]Altri
teologi-poeti siriaci del V secolo, come Isacco d’Antiochia e
Mar Balaï, hanno composto sermoni e canti in metrica
rivolgendosi a Cristo stesso e glorificandolo esplicitamente con
attributi divini: «Lode a Lui [Gesù Cristo] e a suo Padre
e gloria allo Spirito Santo» – «Lode a Lui, l’Altissimo, che è
venuto a riscattarci, lode a Lui, l’Onnipotente, il cui
movimento del capo decide le sorti del mondo».[109]
67. Ilario ha appreso il canto degli inni
durante il suo esilio e l’ha introdotto in Gallia; Ambrogio
confessa ugualmente d’aver adottato il “costume dell’Oriente”,
durante i duri conflitti con gli ariani a Milano nel 386-87. Il
Figlio è «sempre Figlio, come il Padre è sempre Padre.
Altrimenti, come il Padre potrebbe portare tale nome se
non avesse un Figlio?», sottolinea Ilario nell’inno
Ante saecula qui manens, dove espone la «duplice
nascita del Figlio, nato dal Padre, per il Padre che non conosce
nascita, e nato dalla Vergine Maria, per il mondo».
68. Contrariamente agli inni altamente
teologici di Ilario, che non hanno trovato molto posto nella
liturgia, gli inni di Ambrogio sono rapidamente divenuti celebri
dovunque e hanno potentemente incoraggiato la fede, secondo
l’intento che lo stesso Ambrogio loro attribuiva. Il suo inno
del mattino Splendor paternae gloriae potrebbe essere
considerato un commentario alla confessione di fede di Nicea.
Particolarmente efficaci sono le strofe finali di alcuni inni,
che sottolineano l’uguaglianza del Figlio col Padre: «Aequalis
aeterno Patri», o che si rivolgono direttamente al
Figlio: «Iesu, tibi sit gloria... cum Patre et almo Spiritu».
In un inno molto breve, di cui Ambrogio è forse l’autore, la
confessione del Dio unico in tre persone è quasi espressa in
versi come una frase chiave per i fedeli: «O lux beata
trinitas, et principalis unitas...».
69. Oltre ad Ambrogio, è soprattutto
Prudenzio (Aurelius Prudentius Clemens, 348-415/25) ad avere
inni importanti per la cristologia. Il poeta spagnolo è
particolarmente segnato dalla vera divinità e dalla vera umanità
del Redentore, nelle quali si fonda la nostra nuova creazione:
Cristo è forma del Padre, noi forma e immagine di Cristo;
siamo creati a somiglianza del Signore dalla bontà paterna,
e verrà nella nostra immagine Cristo dopo secoli.
Christus forma Patris, nos Christi forma et imago;
Condimur in faciem Domini bonitate paterna
Venturo in nostram faciem post saecula Christo.[110]
Capitolo 3
Nicea come evento teologico
e come evento ecclesiale
70. Celebrare Nicea, significa cogliere
come il Concilio resta nuovo, di quella novità escatologica
inaugurata il mattino di Pasqua, che continua a rinnovare la
Chiesa anche 1700 anni dopo l’evento di Nicea. In effetti si
tratta di un evento in senso forte, di una svolta che si
inscrive nella trama della storia con i suoi concatenamenti, ma
ne è ugualmente un punto di concentrazione, che introduce una
reale novità ed esercita un’influenza decisiva su ciò che segue.
A seconda delle lingue, il termine “evento” rinvia a ciò che
avviene, l’ad-ventus (avènement, avent,
avvenimento), o ancora a ciò che proviene da (évènement,
event), alla produzione di un fatto (acontecimiento)
o all’apparizione di qualcosa di nuovo (Ereignis). Così,
Nicea è l’espressione di una svolta che avviene, proviene, si
produce, si mostra nel pensiero umano, indotta dalla Rivelazione
del Dio uno e trino in Gesù, che feconda lo spirito umano
donandogli contenuti nuovi e nuove capacità. È un “evento di
Sapienza”. Allo stesso modo Nicea, che sarà qualificato subito
dopo come primo Concilio Ecumenico, è ugualmente
l’espressione di una svolta nel modo in cui la Chiesa si
struttura e veglia sulla sua unità e sulla verità della sua
dottrina mediante la stessa confessione di fede: è un “evento
ecclesiale”. Evidentemente, in entrambi i casi, la novità si
appoggia su un processo previo, su una realtà data, quella
stessa che questa novità trasforma. L’evento di Sapienza
presuppone la cultura umana, l’assume, per così dire, per
purificarla e trasfigurarla. L’evento ecclesiale si appoggia
sulla precedente evoluzione delle strutture della Chiesa dei
primi secoli, a loro volta appoggiata sull’eredità ebraica e
greco-romana.
71. Ora, la fonte di questi due eventi
rimanda a un altro evento, frutto di iniziativa divina, l’evento
della Rivelazione di Dio, l’“evento Gesù Cristo”. Questi è la
Novità per eccellenza: il Novus è il Novum.[111]Si
tratta della Rivelazione stessa, mentre l’evento di
Sapienza e l’evento ecclesiale fanno parte della trasmissione
di questo dono primordiale.[112]In
esso, Dio stabilisce l’alleanza con un popolo per fare alleanza
con tutti i popoli, assume una umanità per assumere tutta
l’umanità. Nicea è l’espressione e il frutto della Novità della
Rivelazione, e per questo il Concilio del 325 offre un paradigma
per ogni tappa del rinnovamento del pensiero cristiano, come
anche delle strutture della Chiesa. Inoltre, poiché il Concilio
di Nicea nasce dal Novum che è Cristo, potrà essere
compreso in modo sempre rinnovato e fecondare continuamente la
vita della Chiesa. Si tratta allora di esplorare in un primo
tempo l’evento fontale, l’evento Gesù Cristo, per esaminare in
seguito le sue conseguenze sul pensiero umano e sulle strutture
della Chiesa.
1. L’evento Cristo: «Dio nessuno l’ha mai visto. Il Figlio unigenito lo ha
rivelato» (Gv 1,18)
1.1. Il Cristo, Verbo Incarnato, rivela il Padre
72. Il Simbolo di Nicea è l’espressione, la
formulazione in parole, di un accesso inaudito, garantito e
pienamente salvifico a Dio, offerto dall’evento Gesù Cristo.
Nell’incarnazione, vita, passione, risurrezione e ascensione al
Cielo del Verbo consustanziale al Padre, testimoniata nelle
Sacre Scritture e nella fede della Chiesa apostolica, il Dio
semper major offre, di sua propria iniziativa, una
conoscenza e un accesso a Se stesso che solo lui può donare, e
che sono al di là di ciò che l’uomo può immaginare e anche
sperare.[113]In
effetti, il Nuovo Testamento trasmette alla Chiesa di tutti i
tempi, nel corso dei secoli, la testimonianza che Gesù ha donato
di Se stesso e che il Padre, nella luce e nella potenza dello
Spirito Santo, ha confermato una volta per tutte[114]nella
Pasqua della morte, risurrezione e ascensione al cielo del
Figlio fatto carne, dell’effusione pentecostale dello Spirito,
nella pienezza dei tempi, “propter nos et propter nostram
salutem”. In tal modo, se è vero che «Dio nessuno lo ha mai
visto», la fede della Chiesa attesta che Gesù, «Figlio unico del
Padre, lo ha rivelato» (Gv 1,18; cf. Gv 3,16.18 e
1Gv 4,9). Questa testimonianza si riassume nella risposta
che Gesù diede all’apostolo Filippo, che gli domandava:
«Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gesù gli risponde:
Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto
me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre?” Non credi che io
sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me
stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere (Gv 14,8-10).
73. Se Gesù ci fa vedere il Padre, tutto in
lui è accesso al Padre. Cristo, nella sua umanità fragile e
vulnerabile, è l’espressione vera di Dio Padre: vedere lui, è vedere il Padre (cf. Gv 14,9).[115]Ne deriva che Dio non si è dapprima nascosto sul Golgota nell’impotenza del
Crocifisso per poi manifestarsi, il mattino di Pasqua, di persona, infine
onnipotente. Al contrario, l’amore di Gesù Cristo che si lascia crocifiggere e
che, soffrendo la morte fisica, discende fino al luogo in cui il peccatore è
prigioniero del peccato (lo šəʾôl ossia gli inferi), è la rivelazione dell’amore del Dio trinitario che non
opera mediante la forza, ma che è proprio così più forte della morte e del
peccato. È appunto davanti alla croce che Marco fa dire al centurione pagano:
«Davvero quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39). Come affermava Papa
Benedetto XVI nel suo libro su Gesù:
La Croce è la vera “altezza”. È l’altezza dell’amore “fino alla fine” (Gv
13,1); sulla croce Gesù è all’“altezza” di Dio, che è Amore. Lì si può
“conoscerlo”, si riconoscere l’“Io Sono”. Il roveto ardente è la Croce. La
suprema pretesa di rivelazione, l’“Io Sono” e la Croce di Gesù sono
inseparabili.[116]
74. La conoscenza di Dio attraverso Cristo
non offre un semplice contenuto dottrinale ma inserisce nella
comunione salvifica con Dio, poiché fa immergere, per così dire,
nel cuore stesso della realtà, o meglio, della persona da
conoscere e amare. Il prologo del Vangelo di Giovanni è
un’espressione della più alta contemplazione del mistero di Dio
che ci è stato manifestato in Gesù perché noi entrassimo, nella
grazia dello Spirito Santo effuso «senza misura» (Gv
3,34), nella vita stessa del Dio trinitario rivelato dal Logos.
La figura di questo Logos fa eco non solo al Logos divino
intravisto dal pensiero greco, ma anche, e più profondamente,
all’eredità veterotestamentaria della Parola di Dio, il Dābār
testimoniato dall’Antico Testamento, poiché già la rivelazione
fatta a Israele e trasmessa nell’Antico Testamento introduce in
una conoscenza di Dio radicalmente nuova, che inaugura questo
avvenimento di Rivelazione. Questo Logos, il Figlio, “Dio da
Dio”, che è fin dal principio con Dio, come la sua Parola che lo
esprime in tutta verità, è lui stesso Dio come il Padre. Nella
pienezza dei tempi, il Logos «si fece carne e venne ad abitare
in mezzo a noi» (Gv 1,14), in modo che coloro che lo
accolgono ricevono «il potere (exousia) di diventare
figli di Dio» (Gv 1,12). Ammettendo gli esseri umani alla
piena comunione con lui, il Logos fatto carne li ha in tal modo
«resi partecipi della natura divina».[117]
75. Questa conoscenza e questa comunione
inaudite e autentiche di e con Dio operano anche una comunione
salvifica coi fratelli e le sorelle in umanità, amati da Dio,
poiché l’evento Gesù Cristo è inseparabilmente comunione con Dio
e con ogni essere umano. La fede della Chiesa apostolica
testimonia questa comunione in Cristo e mediante Cristo, nel
grembo della comunione trinitaria:
Colui che era fin da principio, colui che noi abbiamo sentito, colui che abbiamo
veduto con i nostri occhi, colui che abbiamo contemplato e che le nostre mani
hanno toccato, cioè il Verbo della vita [...], lo annunziamo a voi, affinché
anche voi abbiate comunione con noi. La nostra comunione è con il Padre e con il
Figlio suo Gesù Cristo. E noi scriviamo queste cose perché la nostra gioia sia
piena (1Gv 1,1.3-4).
La tradizione teologica sottolinea che la
carità ci fa amare Dio e il nostro prossimo, in quanto è amico
di Dio.[118]Noi
possiamo pensare che le tre virtù teologali ci introducono in
una conoscenza di Dio e in una comunione con Lui piene e
radicalmente nuove. Ma, secondo l’accesso rinnovato a Dio che
esse offrono, vengono donati in aggiunta un cammino di fede
verso la fraternità, una speranza inaudita nel prossimo e quella
carità che perdona tutto e porta a donare se stessi.
1.2. «Ora, noi abbiamo il pensiero (νοῦς) di Cristo» (1Cor 2,16): analogia della creazione e analogia della carità
76. L’evento Gesù Cristo, donandoci accesso
a Dio in una maniera incomparabile, suscita e implica a un tempo
una “via” di accesso che è essa stessa nuova e unica: accogliere
nella fede e con la propria intelligenza il Simbolo, o ancor
meglio, accogliere il Dio che vi si manifesta, fa entrare nello
sguardo di Cristo consustanziale al Padre, nel “nous”
ovvero nella stessa mens di Cristo e nella sua relazione
col Padre e con gli altri. «Ora, noi abbiamo il pensiero di
Cristo (noun Christou)», esclama san Paolo (1Cor
2,16).[119]È un
grido di ammirazione. Qui, ancora una volta, Nicea mostra
l’immensità del dono di Dio. Ma Nicea indica ugualmente che si
tratta dell’unica via per avere accesso a ciò che il Simbolo
esprime, sia nella sua res che nella sua lettera. Noi non
possiamo contemplare il Dio di Gesù Cristo, la redenzione che ci
è offerta, la bellezza della Chiesa e della vocazione umana, e
parteciparvi, senza “avere il pensiero di Cristo”. Non
semplicemente conoscendo Cristo, ma entrando nella stessa
intelligenza di Cristo, nel senso di un genitivo soggettivo. Non
si può aderire pienamente al Simbolo né confessarlo con tutto il
proprio essere senza «la sapienza che non è di questo mondo»,
«rivelata dallo Spirito Santo», Colui che solo «scruta le
profondità di Dio» (cf. 1Cor 2,6.10):
Nella fede, Cristo non è soltanto Colui in cui crediamo, la manifestazione
massima dell’amore di Dio, ma anche Colui al quale ci uniamo per poter credere.
La fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i
suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere. […] La vita di Cristo –
il suo modo di conoscere il Padre, di vivere totalmente nella relazione con Lui
– apre uno spazio nuovo all’esperienza umana e noi vi possiamo entrare.[120]
77. Ciò è possibile perché Cristo vede il
Padre attraverso i suoi occhi umani e ci invita a entrare nel
suo sguardo. D’altronde, questo cammino richiede una profonda
trasformazione del nostro pensiero, della nostra mens,
che deve passare attraverso una conversione e una
sovra-elevazione: «Non uniformatevi al mondo presente, ma
trasformatevi continuamente nel rinnovamento della vostra
coscienza» (Rm 12,2). È proprio questo ciò che apporta
l’evento Cristo: l’intelligenza, la volontà, le capacità d’amare
sono letteralmente salvate dalla Rivelazione professata a Nicea.
Esse sono purificate, orientate, trasfigurate. Esse rivestono
una forza nuova, forme e contenuti inauditi. Le nostre facoltà
non possono entrare in comunione col Cristo se non venendo
conformate a Lui, in un processo che rende i credenti
«conformati (symmorphizomenos)» (Fil 3,10) al
Crocifisso Risorto fin nella loro mens. Questo pensiero
nuovo si caratterizza per il fatto di essere inseparabilmente
conoscenza e amore. Come sottolinea Papa Francesco: «San Gregorio Magno ha scritto che “amor
ipse notitia estˮ, l’amore stesso è una conoscenza, che porta in sé una logica nuova».[121]È una conoscenza misericordiosa e piena di compassione, tanto la misericordia è
la sostanza del Vangelo[122] e riflette il carattere stesso del Dio di Gesù Cristo, professato nel
Simbolo di Nicea. La mens rinnovata implica una comprensione
dell’analogia rivisitata alla luce del mistero di Cristo. Essa tiene insieme ciò
che noi potremmo chiamare l’“analogia della creazione”, in virtù della quale si
può percepire la presenza divina nella pace dell’ordine cosmico,[123]e ciò che potremmo chiamare “l’analogia della carità”.[124]Questa analogia, che potremmo definire capovolta, di fronte al mistero
dell’iniquità e della distruzione ma alla luce del mistero più forte della
passione e risurrezione di Cristo, riconosce la presenza del Dio d’amore al
cuore della vulnerabilità e della sofferenza. Questa sapienza di Cristo è
descritta nella Prima lettera ai Corinzi come quella che «ha reso follia la
sapienza di questo mondo»:
Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunciare il Vangelo, non
con sapienza di parola, perché non venga resa vana la croce di Cristo. La parola
della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si
salvano, ossia per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la
sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è
il sapiente? Dov’è il dotto? Dov’è il sottile ragionatore di questo mondo? Dio
non ha forse dimostrato stolta la sapienza del mondo? Poiché infatti, nel
disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto
Dio, è piaciuto a Dio salvare i credenti con la stoltezza della predicazione (1Cor
1,17-21).
Questa conversione e questa trasfigurazione
non possono accadere senza la grazia. L’intelligenza umana si
rivela costitutivamente ordinata alla grazia e si appoggia sulla
grazia per essere pienamente se stessa, così come accade per la
persona umana.[125]È
ciò che permette di comprendere come le facoltà umane,
consegnate a se stesse e trasfigurate dall’evento Gesù Cristo,
sono portate al loro compimento grazie alla loro realizzazione
nei modi della fede, della speranza e della carità,
anticipazioni in questo mondo della vita nella gloria: «Abbiate
in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5).
1.3. L’ingresso teologale nella conoscenza del Padre attraverso la preghiera
del Cristo
78. Come entrare nel “pensiero di Cristo”
che è offerto dall’evento Gesù Cristo? Poiché Gesù Cristo non è
un semplice insegnante o una guida, bensì la rivelazione e la
verità stessa di Dio, i suoi destinatari sono più che semplici
ricettori di un’istruzione. Poiché la persona del Risorto non è
un oggetto del passato, colui che vuole comprendere il mistero
intimo di Gesù, la rivelazione di Dio nella sua umanità, deve
lasciarsi coinvolgere nella sua relazione di comunione col Padre
divino. Ciò avviene in virtù della vita teologale, grazie alla
lettura delle Scritture nella Chiesa, grazie alla preghiera
personale e liturgica, e soprattutto grazie all’Eucaristia.
79. La partecipazione per grazia alla
preghiera di Cristo costituisce la via regale del riconoscimento
di Cristo che svela la conoscenza del Padre («Il Padre mio e
Padre vostro», in Gv 20,17). Joseph Ratzinger / Papa
Benedetto XVI afferma: «Poiché la preghiera è il centro della
persona di Gesù, è partecipando alla sua preghiera che noi
possiamo conoscerlo e comprenderlo».[126]In
altri termini, la conoscenza di Cristo comincia con l’ingresso
nell’atto di preghiera di Gesù da parte di colui che lo
riconosce: «Dove non si dà rapporto con Dio, anche Colui che nel
più profondo non è altro che rapporto con Dio, con il Padre,
rimane incomprensibile».[127]
Ciò che vale per ogni credente vale anche per la Chiesa nel suo
insieme. Solo in quanto comunità di preghiera inscritta nella
relazione di Gesù col Padre la Chiesa è il “noi” che riconosce
Cristo tale quale è evocato in Gv 5,18-20[128]
e in 1Gv 3,11. Si tratta, di nuovo, della trama delle
affermazioni cristologiche del Simbolo: «La fondamentale
espressione dogmatica “Figlio consustanziale”, nella quale si
può riassumere tutta la testimonianza degli antichi concili, non
fa altro che tradurre il fatto della preghiera di Gesù in
linguaggio filosofico-teologico».[129]
La fede espressa a Nicea nasce dalla relazione di Gesù col Padre
e vi fa entrare, per offrire agli esseri umani e alla Chiesa la
partecipazione alla conoscenza e alla comunione di Gesù col
Padre e con lo Spirito Santo.
2. L’evento di Sapienza: una novità per il pensiero umano
2.1. La Rivelazione feconda e allarga il pensiero umano
80. Formulando la fede cristologica e
trinitaria, il Simbolo di Nicea si inscrive in un movimento di
fecondazione del pensiero umano, di “dilatazione della ragione”,[130]operato
dalla Rivelazione nel suo processo di trasmissione. In effetti,
l’accesso incomparabile a Dio che è l’evento di Gesù Cristo,
come anche la partecipazione al pensiero (phronēsis) e
alla preghiera di Cristo, non possono non avere un impatto
determinante sul pensiero e il linguaggio umani. Si assiste
quindi ad un “evento di Sapienza”, in virtù del quale pensiero e
linguaggio devono essere dilatati e lo sono per opera della
Rivelazione, in modo tale che essa possa trovare in essi la sua
espressione. In questo medesimo movimento, essi testimoniano di
essere disponibili a lasciarsi condurre al di là di se stessi.
Nella storia di questo evento di Sapienza, Nicea costituisce una
svolta di prima grandezza, «una via nuova e vivente» (Eb
10,20), della quale Pavel Florensky aveva colto l’importanza
decisiva, esprimendola con parole vigorose:
Non si può ricordare senza devoto tremore e santo stupore quel momento,
infinitamente significante e unico per importanza filosofica e dogmatica, in cui
tuonò a Nicea per la prima volta lo Ὁμοούσιος (omooúsios). Non si
trattava di una questione teologica particolare, ma della definizione radicale
che la Chiesa di Cristo dava a se stessa. Con questo solo termine vennero
espressi non solo il dogma cristologico, ma anche una valutazione spirituale
delle leggi razionali del pensiero: il razionalismo fu colpito a morte e per la
prima volta fu proclamato urbi et orbi un principio nuovo per l’attività
della ragione.[131]
Il Logos che è Cristo incarnato, Figlio del
Padre nella comunione dello Spirito Santo, manifesta che è
proprio lui la misura di ogni logos umano, che egli può
vivificare e dilatare, ma di cui può essere anche il giudice,
mettendolo in crisi (krisis), nel senso stretto del
termine. In effetti, è stupefacente osservare come Atanasio, in
un giudizio lapidario, consideri come il rifiuto da parte di
Ario della pienezza della figura di Cristo costituisca una
negazione della ragione, del logos tout court: «Negando
il Logos di Dio, giustamente non possono che diventare incapaci
di ragionare».[132]
In fondo, l’evento di Sapienza prodotto dall’evento Gesù Cristo
introduce la ragione e il pensiero umani nella loro più alta e
più vera vocazione. Li ridona per così dire a se stessi. Così
che, come vedremo, l’homooúsios non è solo un caso
esemplare di interculturalità, ma appartiene a un evento di
sapienza prototipico, inaugurale e fondatore della Chiesa nella
sua apostolicità.
81. L’evento Gesù Cristo rende possibile
una nuova ontologia, misurata dalle dimensioni del Dio uno e
trino e del Logos incarnato. La ragione umana si era già
lasciata aprire e penetrare dal mistero, reso accessibile dalla
rivelazione della creazione ex nihilo (cf. 2Mac
7,28; Rm 4,17), della trascendenza ontologica di un Dio
che è comunque più intimo ad ogni creatura di quanto essa lo sia
a se stessa.[133]Tale
ragione si lascia di nuovo rinnovare da cima a fondo, quando le
viene comunicato il senso profondo inscritto in ogni cosa dal
mistero del Dio trinitario che è amore (1Gv 4,8.16) –
alterità, relazione, reciprocità, mutua interiorità si
manifestano ormai come la verità ultima e le categorie
strutturanti l’ontologia. L’essere si ritrova illuminato e si
mostra ancor più ricco di quanto non sembrasse nei percorsi
filosofici anteriori, per quanto profondi e complessi essi siano
stati. Inoltre, Nicea, che parte dalla questione cristologica e
soteriologica per esporre il Dio Padre, Figlio e Spirito Santo,
riflette bene il modo in cui la fenomenalità cristologica motiva
l’inventio della dottrina trinitaria, con la dinamica
inscritta tra l’ordine della scoperta, cristologica e
pneumatologica, posta nel suo cuore, e l’ordine della realtà
trinitaria che lo struttura. Nicea accelera l’assunzione da
parte della riflessione cristiana della teo-logia ovvero
dell’esplorazione della “Trinità immanente”. Dal momento che il
mistero di Cristo, realizzato nella storia e in un’umanità
singolare, dona l’accesso a Dio, la materia e la carne, il tempo
e la storia, la novità, la finitudine e la stessa fragilità
guadagnano le loro credenziali di nobiltà e la loro consistenza
per dire la verità dell’essere. In fondo, anche l’essere, grazie
alla Rivelazione, si rivela semper major.
82. L’evento di Sapienza implica,
evidentemente, un rinnovamento dell’antropologia, nella misura
in cui l’evento Gesù Cristo getta una luce nuova sull’essere
umano. Evochiamo succintamente questi aspetti sviluppati nel
primo capitolo del presente documento.[134]
L’antropologia della Bibbia obbliga a rivisitare la concezione
dell’essere umano a partire dalla nobiltà della materia e della
singolarità. Il Creatore della Genesi ha voluto ciascun
individuo e l’ha «disegnato sulle sue palme» (Is 49,16).
Inoltre, Gesù chiama ogni essere umano suo fratello e sorella,
poiché l’evento dell’incarnazione ha nobilitato ogni essere
umano, individualmente, in modo insuperabile e inalienabile.
Quando il Simbolo di Nicea-Costantinopoli dichiara che Gesù
Cristo, in quanto vero uomo, è il Figlio di Dio e, in quanto
tale “uguale” a Dio Padre, ogni essere umano – qualunque sia la
sua origine, la sua nazione, i suoi talenti o la sua formazione
– si vede attribuita una dignità che obbliga l’intelligenza
umana a pensare in maniera nuova, a superare i limiti di una
visione soltanto naturale dell’umano. Esiste una dignità
propriamente cristologica degli esseri singolari.
83. Analogamente a ciò che accade quando si
tratta di entrare nel “pensiero di Cristo”, l’allargamento
dell’ontologia e dell’antropologia implica una conversione e può
imbattersi nella resistenza del pensiero, abituato ai suoi
limiti. L’evento di Sapienza obbliga a tenere in considerazione
non solo “l’analogia della creazione” ma anche “l’analogia della
carità”. Di fronte alla kenosi dell’incarnazione e della
passione di Cristo, davanti alla sofferenza e al male che
toccano l’umanità, lo spirito umano si imbatte nei suoi limiti.
S’impone la questione: perché il Padre onnipotente sembra
dapprima aver osservato dall’alto la via crucis del Figlio
sofferente e non ha agito se non dopo la sua morte? Perché non
ha esaudito immediatamente la preghiera dell’Orto degli Ulivi,
presentata col sudore di sangue per la paura: «Padre mio, se è
possibile, passi via da me questo calice!» (Mt 26,39b)?
Di fatto, l’uguaglianza d’essenza col Padre del Figlio incarnato
e crocifisso, professata nel Simbolo di Nicea, invita il
pensiero umano a convertirsi e a convertire il significato del
termine “onnipotenza”. Il Dio trinitario non è prima di tutto
onnipotenza e solo in seguito amore: la sua onnipotenza è
piuttosto identica all’amore che si è manifestato in Gesù
Cristo. In effetti, ciò che Gesù ha vissuto, tale quale è
attestato nel Nuovo Testamento è – per l’azione dello Spirito –
la rivelazione nella storia, sul piano dell’economia trinitaria,
della relazione e della realtà intratrinitarie immanenti in Dio.[135]Dio
è veramente tale quando la sua onnipotenza d’amore non impone
niente, ma piuttosto, dona al suo partner dell’alleanza, l’uomo,
la capacità di legarsi a Lui in modo libero e gratuito. Dio
corrisponde al suo proprio essere quando non converte con la
forza l’umanità pervertita dal peccato, ma la riconcilia con sé
attraverso gli avvenimenti di Betlemme e del Golgota. In tutto
questo, i nostri modi umani di vedere sono chiamati a lasciarsi
trasfigurare profondamente dal Cristo: «I miei pensieri non sono
i vostri pensieri» (Is 55,8; si veda anche Mt
16,23).
2.2. Un evento culturale e interculturale
84. Se l’evento Gesù Cristo rinnova il
pensiero ricreandolo secondo un evento di Sapienza, esso rinnova
e purifica, feconda e dilata ugualmente la cultura umana. Di
fatto, il Concilio di Nicea, che traduce in parole la fede
cristiana per la Chiesa diffusa tra tutte le nazioni nella
lingua greca e adottando un termine sorto dalla filosofia greca,
costituisce indubbiamente un evento culturale. È necessario che
la fede assuma la cultura umana, come assume la natura umana, in
quanto sia la natura che la cultura sono elementi costitutivi
dell’essere umano, e perciò sono inseparabili. «L’essere umano è sempre culturalmente situato»,[136]ci ricorda Papa Francesco. Poiché l’uomo è un essere relazionale e sociale che
si inscrive nella storia, è attraverso la cultura che egli arriva alla pienezza
della sua umanità.[137]Per di più, la Rivelazione, che stabilisce la comunione tra Dio e l’essere
umano, ha bisogno di destinatari che abbiano una loro consistenza propria per
poterla accogliere in piena libertà e responsabilità. Da qui l’elezione del
popolo delle dodici tribù di Israele, cha ha dovuto distinguersi da tutti gli
altri popoli e imparare laboriosamente a separare, dapprima per conto proprio,
la verità dall’errore. Da qui Gesù Cristo, in cui il Figlio di Dio si fa
veramente uomo, un Ebreo, un Galileo, la cui umanità porta i
segni culturali del percorso storico del suo popolo. Da qui la
Chiesa, costituita a partire da tutte le nazioni. Così,
appoggiandosi sul principio tomasiano per il quale «la grazia suppone la natura», e ampliandolo, Papa Francesco aggiunge: «La
grazia presuppone la cultura e il dono di Dio si incarna nella cultura di coloro
che lo ricevono».[138]
85. Questa assunzione della cultura da parte della Rivelazione implica una certa
reciprocità di influenza tra le due, malgrado la loro asimmetria. Come lo
spirito umano è capace di essere trasfigurato, la cultura ha per vocazione di
lasciarsi illuminare dalla Rivelazione, fino a poter accogliere, al prezzo di
una conversione, la sapienza del Crocifisso: «La forza del Vangelo [deve
impregnare] i modi di pensare, i criteri di giudizio, le norme d’azione; in una
parola, è necessario che tutta la cultura dell’uomo sia
penetrata dal Vangelo».[139]Tuttavia,
la fede non è un elemento estraneo alle culture nelle quali è
vissuta, poiché, dopo Pentecoste, la fede cristiana comporta la
certezza che non vi è una sola cultura umana che non attenda e
non speri di trovare il suo compimento dalla visita del Verbo di
Dio, il quale peraltro ha sparso i semina Verbi[140]in
tutte le culture, nell’attesa della sua visita. Per questo
incontro le culture diventano pienamente se stesse. È dunque
dall’interno, a partire dalla loro apertura verso ciò che è
vero, buono e bello, che la Rivelazione le purifica e le eleva.
Ma allora, le culture e le lingue assunte e trasfigurate dalla novità della rivelazione
permettono d’arricchire e di precisare l’espressione della fede. Questa
reciprocità la si è potuta constatare attraverso i secoli nella fecondazione
della lingua, della poesia, dell’arte da parte della Bibbia, la cui comprensione
si trova a sua volta illuminata “di rimando”, per la sua diffrazione in altre
parole e visioni del mondo. È precisamente ciò che accade a Nicea nell’impiego
dell’homooúsios, che precisa la comprensione che ha la Chiesa della
filiazione di Gesù Cristo, mentre trasfigura il termine che assume.
86. In questa assunzione della cultura, un
posto unico e provvidenziale deve essere riservato al rapporto
tra la cultura ebraica e quella greca. L’homooúsios
apparirà qui come il frutto della sintesi particolarmente forte
che si è prodotta tra la cultura semitica, già toccata e
trasfigurata dalla Rivelazione, ma anche modellata dagli
incontri e dai disaccordi coi popoli di altre culture, – Egiziani, Cananei, Mesopotamici, Romani –, e il mondo greco. Durante più di
tre secoli, prima della nascita di Gesù e fino al terzo secolo della nostra era,
l’insegnamento e la vita intellettuale del giudaismo ellenistico si erano
espressi non solo in aramaico, ma anche in greco, con la Settanta come centro di
gravità. L’insegnamento di Gesù è stato consegnato e trasmesso in greco per
poter comunicare il Vangelo a tutti nella lingua universale del
bacino del Mediterraneo, ma anche perché il Nuovo Testamento si
inscrivesse nella storia del rapporto del popolo ebreo con la
cultura e la lingua greche. Come nella Settanta, gli influssi
avvengono nei due sensi. Per esempio, il panta ta ethnē
di Mt 28,19 traduce l’antica idea ebraica di tutte le
nazioni che vengono a Gerusalemme, mentre măthētēs
(discepoli-allievi) traduce l’aramaico talmudim.
Reciprocamente, gli evangelisti hanno fatto ricorso al greco dei
tribunali per interpretare il processo e la passione di Gesù,
l’autore degli Atti si ispira alla poesia epica dell’Odissea per
narrare i viaggi di Paolo e quest’ultimo fa spesso eco a
elementi della filosofia stoica, e allo stesso modo certi
passaggi del Nuovo Testamento portano tracce di un vocabolario
ontologico greco.[141]È
quindi in modo naturale che il cristianesimo nascente continua
questa sintesi del pensiero semitico e greco, in dialogo con
autori giudaico-ellenistici e greco-romani, per interpretare le
Scritture e sviluppare il proprio pensiero. La ricchezza
dell’espressione greca del Giudaismo e del Cristianesimo può
dunque far pensare che vi sia una dimensione fondatrice in
questo innesto della cultura greca sulla cultura ebraica, che
permetterà di esplicitare in greco l’unicità e l’universalità
della salvezza in Gesù Cristo di fronte alla ragione filosofica.[142]Evidentemente,
una vasta porzione di cristiani, in particolare al di fuori
delle frontiere dell’Impero Romano, che non apparteneva a questa
area culturale, ha sviluppato la sua genialità propria a
servizio dell’espressione della fede nel mondo di lingua
siriaca, dell’Armenia e dell’Egitto, ma anch’essa si è
confrontata col pensiero greco, lasciandosene ispirare e
prendendo da esso le sue distanze.
87. Il Concilio di Nicea non è
semplicemente un evento di assunzione e di fecondazione della
cultura da parte della Rivelazione, ma è anche l’occasione di
incontri interculturali. Ora, questo incontro delle culture è
anch’esso un aspetto maggiore dell’evento di Sapienza che
l’evento di Gesù Cristo suscita, in quanto la Rivelazione
collega e mette in comunione le culture tra loro, rendendo
possibile il più alto grado di interculturalità. Lo scambio e la
fecondazione mutua fa già parte di tutte le culture, che non
esistono se non nel processo in cui sono poste in contatto le
une con le altre, e così si evolvono, si arricchiscono e
talvolta si oppongono e si mettono in pericolo reciprocamente.
Tuttavia, la potenza di rinnovamento della Rivelazione apporta a
queste relazioni un salto qualitativo in intensità. Da un lato,
donando accesso alla fonte trascendente del vero e del bene,
alla radice dell’universalità dello spirito umano che rende
possibile la loro comunicazione,[143]
essa apre in pienezza lo spazio comune per i loro incontri e i
loro scambi. Dall’altro lato, l’evento Gesù Cristo è potenza di
conversione e di liberazione di fronte alle forze di chiusura e
di opposizione all’altro, contenute nella vita dei popoli e
delle culture. Solo una cultura che sia per così dire “salvata”
può superarsi senza perdersi e aprirsi alle altre culture per
esserne arricchita come pure per arricchirle. L’ascolto della
Parola di Dio e della Tradizione, cioè della Parola dell’Altro,
abitua, per così dire, lo spirito e le culture all’ascolto degli
altri.[144]Tutto
ciò porta non a una giustapposizione esteriore e povera delle
culture, né a una fusione in un tutto indistinto, ma a una
interculturalità salvata ed elevata in cui ogni cultura si
supera venendo fortificata nella sua consistenza propria, in
virtù di una sorta di pericoresi delle culture.[145]Per
questo si tratta di tenere insieme la reale novità e la
“sopra-elevazione” delle culture, come il fatto che chi accetta
il Vangelo di Cristo preserva la sua identità culturale e vi si
trova fortificato:[146]«I
cristiani, infatti, non sono distinti dagli altri uomini, né per
territorio, né per lingua né per modi di vestire… adattandosi
agli usi del paese nel vestito, nel cibo e in tutto il resto del
vivere, danno esempio di una loro forma di vita sociale
meravigliosa, e che, a confessione di tutti, ha dell’incredibile».[147]
88. L’interculturalità è, di fatto, la
manifestazione di una problematica più profonda, che ne
costituisce la base: il disegno divino dell’unità dei popoli e
l’arduo cammino di questa unità nella diversità. Si tratta di
uno dei fili conduttori principali della storia biblica della
salvezza. Il racconto tipico della Torre di Babele in Gn
11,1-9 sottolinea la tensione tra la ricchezza della
molteplicità delle lingue, da un lato, e la capacità dell’essere
umano di dissolvere l’unità della casa comune, di confondere il
logos dell’oikos. La chiamata di Abramo, la
promessa a lui fatta che in lui saranno «benedette tutte le
famiglie della terra» (Gn 12,3), è la prima risposta
salvifica di Dio. I profeti prolungano questa promessa per i
popoli della terra annunciando l’unità di tutte le nazioni
attorno al popolo eletto e alla sua Legge.[148]Il
Nuovo Testamento presenta questa unità come realizzata nel
Messia, colui che col suo sangue e nella sua carne «abbatte il
muro di separazione, cioè l’inimicizia» tra Israele e le
nazioni, per «creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo»
(Ef 2,14.15b). Così, le nazioni sono associate al popolo
dell’alleanza, in quanto sono chiamate «a condividere la stessa
eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della
stessa promessa» (Ef 3,6). Tutto ciò è possibile in
Cristo, l’universale singolare, che tiene insieme alterità e
identità, e che assume tutta l’umanità assumendo una umanità
genealogicamente e culturalmente situata. L’antitipo di Babele,
la Pentecoste delle lingue di fuoco in At 2,1-18, è la
manifestazione e la realizzazione di questa potenza di comunione
del logos umano, che procede ultimamente dal Logos di Dio.[149]Non
è nell’unità fusionale di un’unica lingua che lo Spirito Santo
opera la comunione di questi ebrei di lingue e culture
differenti, ma ispirando la comprensione dell’altro, immagine di
ciò che sarà la Chiesa, che raduna tutte le nazioni, tutta tesa
verso il suo compimento, quando i «144000 segnati col sigillo»
delle Dodici tribù di Israele e «una moltitudine immensa, che
nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua»
realizzeranno la piena comunione escatologica dell’umanità nella
nuova Gerusalemme (Ap 7,4.9).
89. La dimensione interculturale
di cui Nicea è l’espressione fondatrice può anche essere
considerata come un modello per l’epoca contemporanea in cui la
Chiesa è presente in una varietà di aree culturali: culture
asiatiche, africane, latino-americane, oceaniche, nuove culture
popolari europee, senza contare le nuove forme culturali portate
dalla rivoluzione digitale e dalle tecnoscienze. Tutti questi
universi culturali contemporanei sembrano lontani dalla cultura
greca antica che ha accolto in maniera inaugurale la forma di
inculturazione dogmatica realizzata nell’evento di Nicea. Da un
lato, si tratta in effetti di sottolineare che è proprio in
queste categorie greche che si è espressa in modo normativo la
Chiesa e che queste sono dunque solidali per sempre col deposito
della fede.[150]D’altra
parte, tuttavia, nella fedeltà ai termini sorti in quest’epoca e
trovando in essi la sua radice viva, la Chiesa può inspirarsi ai
Padri di Nicea per cercare oggi espressioni significative della
fede nelle differenti lingue e nei vari contesti. Con la grazia
dello Spirito Santo, le comunità cristiane, i loro teologi e
pastori, in effettiva comunione col Magistero, sono chiamati a
realizzare, nelle situazioni culturali e con gli idiomi loro
propri, un lavoro analogo a quello di un tempo per affermare
l’unità radicale del Figlio col Padre. Nicea resta un paradigma
di ogni incontro interculturale e della possibilità di ricevere
o di forgiare modi autenticamente nuovi di esprimere la fede
apostolica.
2.3. La fedeltà creativa della Chiesa e il problema dell’eresia
90. La percezione di Nicea come momento
dell’evento di Sapienza suscitato dall’evento Gesù Cristo
permette di rileggere con maggior finezza la storia delle eresie
alle quali risponde il Concilio. L’eresia, che si discosta
intenzionalmente dalla testimonianza apostolica e ne mutila
l’integrità, è percepita dai Padri come la novità che abbandona
il cammino della regula fidei e della traditio e,
perciò, si allontana dalla realtà storica di Cristo. Il
rimprovero fatto ad Ario è precisamente quello di introdurre una
novità.[151]Eppure,
rispetto al novum inaugurato dall’evento Gesù Cristo può
essere illuminante considerare l’eresia anche come una
resistenza fondamentale, passiva e attiva, alla novità
soprannaturale che apre il pensiero e le culture umane al di là
di loro stesse – una novità di grazia di cui è testimonianza il
nuovo linguaggio della fede espressa dall’homooúsios. È
pressoché inevitabile che l’essere umano, con tutte le sue
facoltà, con tutto il suo essere, opponga resistenza a questa
novità inaudita che lo converte e lo trasfigura. Si tratta di
una resistenza e dunque di un peccato dell’«uomo vecchio» (Rm
6,6; si veda anche Ef 2,15), della difficoltà a concepire
interamente e ad accettare l’immensità di Dio e del suo amore,
così come l’immensa dignità dell’essere umano. Il cammino lento
e a tentoni, ma prudente, che intrapresero i primi tentativi di
comprendere il senso del mistero del Crocifisso e della sua
gloriosa risurrezione, il passaggio dal kerigma apostolico ai
primi passi di ciò che oggi chiamiamo teologia, è accompagnato
da tensioni costanti e da una pluralità di opinioni che si
discostano dalla pienezza della testimonianza apostolica e che
sono designate col termine eterodossia, come pure
eresia.
91. Piuttosto che ripercorrere in modo
esaustivo le eresie dei primi secoli, mettiamo in luce questa
resistenza al novum della Rivelazione facendo qualche
esempio. Spesso considerata come la prima eresia, la dottrina
razionalista degli gnostici fa perdere il realismo del mistero
dell’incarnazione mediante il docetismo e, riducendo la storia
santa a una serie di racconti mitologici, giunge a negare
l’integralità della salvezza umana, relegandola sul piano di una
spiritualità eterea. Ireneo, nella sua battaglia contro la
gnosi, sottolinea che si tratta di una resistenza a concepire
Dio come capace e desideroso di entrare di persona nella storia,
di unirsi fino in fondo all’umanità, fino a farsi realmente uomo
e conoscere la morte. Si tratta di una resistenza a credere
nella bellezza del singolare, della materia e della storia, una
bellezza rivelata proprio nell’evento Gesù Cristo e a cui
rendono testimonianza l’Antico e il Nuovo Testamento. I Padri
non esitano in seguito a ricorrere a concetti e sistemi di
pensiero ricavati dalla filosofia greca per affinare il pensiero
cristiano. Facendo ciò, sono costretti a far esplodere sistemi
di pensiero incapaci da soli di permettere di concepire che il
Logos si possa fare carne, che il Logos o il Nous
(νοῦς), che esprimono la divinità, siano uguali alla fonte da
cui provengono, o che sia possibile una molteplicità che non
contraddica l’unità divina e che sia proprio nel grembo di
questa unità. I sostenitori delle eresie cristologiche e
trinitarie sono coloro che non sono stati capaci di lasciare che
fossero dilatati dall’immensità inaudita del nous (νοῦς)
Christou i sistemi di pensiero di partenza, quale che
fosse la loro ricchezza e il loro apporto reale nel pensare la
dottrina cristiana. È ancora la medesima difficoltà che
ritroviamo nei dibattiti delle correnti cristologiche in Oriente
lungo il III secolo, che preparano in certo senso la via
all’eresia ariana. Occorre evitare di fare una caricatura delle
posizioni dei protagonisti di queste correnti, poiché sono
anzitutto dei pensatori individuali, ma tutti si confrontano con
le medesime difficoltà a mantenere la ricchezza trinitaria del
Dio Uno e la radicalità della piena assunzione di un’umanità
singolare da parte del Figlio uguale al Padre: alcuni devono
affrontare una teologia trinitaria di tendenza subordinazionista
e con una cristologia che rischia di essere docetista, mentre
altri devono resistere a forme di modalismo trinitario e di
adozionismo. Sono quindi sempre le medesime resistenze
provenienti dai vecchi schemi di pensiero che si esprimono,
qualche decennio prima di Nicea, nell’insegnamento di Ario: per
lui è inconcepibile che il Figlio, altro dal Padre, quel Figlio
che nasce e muore, possa essere coeterno e uguale a Dio, senza
compromettere l’unità e la trascendenza divine e dunque la
redenzione degli uomini.
92. Queste resistenze sono certo
comprensibili, in quanto sono umane. Testimoniano in negativo
l’incredibile luce proiettata sulla percezione di Dio e della
vocazione divina dell’essere umano dall’evento Gesù Cristo e
della non meno incredibile trasfigurazione del pensiero e della
cultura umana dispiegata nell’evento di Cristo e nell’evento di
Sapienza che ne deriva. Nulla di ciò che è umano viene abolito,
ma l’accesso all’immensità della verità di Dio esige
l’autorivelazione da parte di Dio e la grazia che converte ed
eleva le facoltà e la realizzazione dell’essere umano. In un
certo senso, la resistenza delle eresie ci permette di vedere
Nicea in tutta la sua forza di novità incommensurabile.
3. L’evento ecclesiale: il Concilio di Nicea, primo Concilio Ecumenico
3.1. La Chiesa si inscrive con la sua natura e le sue strutture nell’evento
Cristo
93. Il Concilio di Nicea non è
solo un evento nella storia della dottrina, ma può senz’altro
essere compreso come un evento ecclesiale, corrispondente a una
tappa fondamentale nel processo di strutturazione della Chiesa.
Nel corso di un lungo cammino che ha fatto seguito a Nicea, il
“Concilio Ecumenico” è diventato il faro di orientamento per le
decisioni dottrinali e giuridiche di tutta la Chiesa, il suo
luogo di comunione e di autorità ultima. Vi si potrebbe vedere,
dal punto di vista della sua strutturazione, una svolta che
orienta il seguito della vita della Chiesa, simile a ciò che il
Simbolo di Nicea rappresenta dal punto di vista dell’accesso a
Dio (evento Gesù Cristo) e del pensiero umano (evento di
Sapienza)? Sarebbe questo il caso se il Concilio Ecumenico in
quanto tale potesse essere considerato come il frutto e
l’espressione specificamente ecclesiale dell’evento Gesù Cristo.
94. Fin dai suoi inizi, la Chiesa ha
coscienza di essere inscritta nella continuità del popolo
eletto, assemblea convocata (qāhāl/ekklēsia – cf. Dt
5,22) per vivere la Torah rivelata e per rendere un culto al
Signore suo Dio. Essa si considera anche come «stirpe eletta,
sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato
perché proclami le opere ammirevoli» (1Pt 2,9) del Dio di
Israele. Negli Atti degli Apostoli essa è presentata come una
comunità del discernimento della volontà di Dio di cui attore
principale è lo Spirito Santo,[152]guidata
da uomini che prolungano il ruolo dei dodici apostoli,
«testimoni della Risurrezione» (At 1,22). In certo senso,
è nella comunità ecclesiale, in quanto Corpo di Cristo, che si
possono discernere i «sentimenti di Cristo» (Fil 2,5; si
veda supra, § 77).
95. Questa coscienza si esprime nei primi
Padri, che legano la struttura e il funzionamento della Chiesa
alla sua natura profonda e alla sua chiamata. Così, all’inizio
del II secolo, Ignazio di Antiochia sottolinea che le diverse
Chiese particolari si considerano solidalmente quali espressioni
dell’unica Chiesa. I suoi membri sono synodoi, compagni
di viaggio, dove ciascuno è chiamato a giocare un ruolo secondo
l’ordine divino che stabilisce l’armonia, espressa nella sinassi
eucaristica. Così, con la sua unità e il suo ordine, la Chiesa
canta la lode di Dio il Padre nel Cristo, tesa verso la sua
piena unità che sarà realizzata nel Regno di Dio. Cipriano di
Cartagine approfondisce questo insegnamento a metà del III
secolo precisando il fondamento sinodale ed episcopale sul quale
deve fondarsi la vita della Chiesa: nulla si fa senza il vescovo
(nihil sine episcopo), ma ad un tempo nulla si fa senza
il “vostro parere” (quello dei presbiteri e dei diaconi) e senza
l’approvazione del popolo (nihil sine consilio vestro et sine
consensu plebis).[153]Unità
legata all’unità della Trinità, ispirazione dello Spirito Santo,
cammino insieme (synodos) verso il Regno, fedeltà alla
dottrina degli apostoli e alla celebrazione dell’Eucaristia,
ordine e armonia dei ministri e dei battezzati, con un ruolo
peculiare conferito ai vescovi: questi elementi manifestano che
la Chiesa, fin dentro le sue strutture e il suo funzionamento,
si inscrive profondamente nell’evento Gesù Cristo, come suo
momento e sua espressione privilegiata. Nella celebrazione di
Nicea è tutto il processo sinodale che precede e che trova nel
Concilio Ecumenico il suo apice, che noi raccogliamo e
celebriamo.
3.2. La collaborazione strutturale dei carismi della Chiesa e il cammino
verso Nicea
96. Questi elementi propri della natura
teologale della Chiesa, che non possono essere che il frutto
dell’evento della Rivelazione, si sono manifestati nel cammino
storico che ha portato al Concilio Ecumenico di Nicea attraverso
l’interazione di tre carismi, messi a disposizione per il
governo, l’insegnamento e la presa di decisioni comunitarie
nella Chiesa: anzitutto la gerarchia tripartita, poi i maestri e
il sinodo. Un ordine di presidenza che pone gli apostoli al
primo posto, sembra già ben stabilito nel corpo paolino: «Alcuni
perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come
apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come
maestri…» (1Cor 12,28; cf. Ef 4,11). La prima
caratteristica è lo sviluppo progressivo della gerarchia
tripartita dei vescovi, presbiteri e diaconi. Essa, che aveva la
supervisione dei profeti e dei maestri itineranti dei primi 150
anni del cristianesimo (spesso chiamati “apostoli”, in senso
generale), giunse a soppiantarli in una certa misura e divenne
la struttura locale di governo della Chiesa. La figura del
vescovo, in particolare, esprime la dimensione apostolica della
Chiesa. A partire dal IV secolo si formano delle provincie
ecclesiastiche che manifestano e promuovono la comunione tra le
Chiese particolari, con a capo un metropolita.
97. Essendo i cristiani chiamati ad
annunciare Cristo e a trasmettere il suo insegnamento e
l’insegnamento degli apostoli a tutte le nazioni, non sorprende
che la seconda caratteristica del cristianesimo del periodo
preniceno fosse l’importanza decisiva delle scuole e dei
maestri, che impartivano un insegnamento ai catecumeni e
interpretavano le Scritture. Essi potevano essere o non essere
ministri ordinati. Pelagio, ad esempio, insegnava a Roma
all’inizio del V secolo, pur non essendo presbitero, come
Melania l’anziana e Rufino a Gerusalemme, Gerolamo a Betlemme e
poi a Roma. Anche Origene ha diretto la Scuola di Alessandria,
dopo la morte di suo padre Leonida, prima di essere ordinato.
98. Infine, dopo la seconda metà del II
secolo e all’inizio del III, soprattutto in Asia Minore, il
sinodo prende un posto sempre più importante per decidere di
questioni rilevanti di disciplina, di culto e di insegnamento.
All’inizio, i sinodi erano locali, ma l’invio di lettere
sinodali che comunicavano le loro decisioni (acta) alle
altre Chiese, lo scambio di delegazioni e le richieste di mutuo
riconoscimento, testimoniano la «ferma convinzione che le
decisioni prese fossero espressione della comunione con tutte le
Chiese», in quanto «ogni Chiesa locale è l’espressione della
Chiesa una e cattolica».[154]
Notiamo che il sinodo possiede una dimensione giuridica o
canonica molto netta, in quanto istituzione che legifera. I
documenti e le collezioni di canoni sinodali sono raccolti negli
archivi episcopali, in particolare a Roma: lo sviluppo del
diritto canonico e quello dei sinodi vanno di pari passo e si
accompagnano l’un l’altro. Non è possibile attribuire unicamente
alla legittimazione della Chiesa da parte di Costantino la
svolta verso una Chiesa istituzionalizzata di tipo statuale.
Percepita come una polis (città) che riflette la Città di
Dio, la Gerusalemme celeste (cf. Is 60 e 62; 65,18; Ap
3,12; 21,1-27), o come un synodos, inteso nel senso
letterale di un popolo che percorre lo stesso cammino di Gesù
verso il Regno, avendo proprio lui alla testa come suo
proestos, o presidente, la Chiesa è costitutivamente
“politica” e istituzionale.[155]
99. Questi tre carismi si sono evoluti
diversamente e in maniera propria in seno alla Chiesa, ma
nessuno di essi si è emancipato o separato dagli altri due.
Anche se alcune tensioni si sono naturalmente manifestate tra di
loro e al loro interno, essi si sono arricchiti, informati e
rinforzati mutuamente. I maestri partecipavano spesso come
membri ai sinodi. Parimenti, i vescovi erano fin da principio
maestri e predicatori secondo il modello di Ignazio di
Antiochia. Naturalmente, i vescovi presiedevano i sinodi e vi
giocavano un ruolo di primo piano in quanto custodi
dell’ortodossia della fede e della pratica. Per di più, nel suo
ruolo sacramentale, il vescovo presiedeva la celebrazione
eucaristica che apriva e chiudeva ogni sinodo, quale fonte e
culmine di quel “camminare insieme” che è il synodos.[156]
Segno della ricezione delle decisioni sinodali, così come della
comunione dei credenti coi loro vescovi, stabiliti nella
successione apostolica nel seno della “Catholica”, cioè
nella Chiesa di Dio una e unica, l’Eucaristia manifestava e
realizzava in modo visibile l’appartenenza al Corpo di Cristo e
l’appartenenza reciproca dei cristiani (cf. 1Cor 12,12).[157]
100. Non solo questi elementi del processo
di strutturazione della Chiesa manifestano il suo radicamento
nell’evento Gesù Cristo, ma è possibile anche discernere in
questo processo una certa analogia con ciò che costituì l’evento
di Sapienza, più sopra analizzato. Così come il pensiero umano,
profondamente rinnovato dall’evento Gesù Cristo, assume e
trasfigura le culture umane, a partire specialmente
dall’incontro del pensiero semitico, già lavorato all’interno
dalla Rivelazione, con la cultura greca e altre culture, allo
stesso modo le tre dimensioni o carismi che abbiamo rilevato
erano assunti un tempo dalle istituzioni giudaiche e da versioni
locali delle istituzioni greco-romane dei primi secoli della
nostra era, sia civili che religiose. Da un lato, il giudaismo
del Secondo Tempio aveva la sua gerarchia sacerdotale, le sue
scuole e i suoi sinodi. Dall’altro, siccome non esistevano
scuole specifiche per loro, i maestri cristiani erano quasi
tutti formati come oratori e interpreti nella enkyklios
paideia, ovvero nel sistema educativo generale del mondo
greco-romano, e facevano dunque appello alla retorica e alla
filosofia, che hanno contribuito a inscrivere nel patrimonio
della dottrina cristiana. Il sinodo (concilium in latino)
era già anch’esso un’istituzione antica nel mondo greco-romano
quando i cristiani gli hanno attribuito un ruolo importante. Ora
questi differenti aspetti acquistano dimensioni proprie,
trasfigurate, potremmo dire, quando sono a servizio della
missione della Chiesa di annunciare il Vangelo ed essere segno
di unità per il genere umano.
3.3. Il Concilio Ecumenico di Nicea
101. Nel 325 viene celebrato a Nicea un
sinodo che si inscrive in parte all’interno di questo processo
come un punto di arrivo, ma che ne rappresenta ugualmente una
forma eccezionale per la sua portata ecumenica. Convocato
dall’imperatore per risolvere una contesa locale che si era
estesa a tutte le Chiese dell’Impero romano d’Oriente e a
numerose Chiese dell’Occidente, esso raduna vescovi provenienti
da diverse regioni dell’Oriente e i legati del vescovo di Roma.
Per la prima volta, dunque, vescovi di tutta l’Oikouménè
sono riuniti in sinodo. La sua professione di fede e le sue
decisioni canoniche sono promulgate come normative per tutta la
Chiesa. La comunione e l’unità inaudite suscitate nella Chiesa
dall’evento Gesù Cristo sono rese visibili ed efficaci in modo
nuovo da una struttura di portata universale, e l’annuncio della
buona notizia di Cristo in tutta la sua immensità riceve
anch’esso uno strumento di un’autorità e di una portata senza
precedenti:
Nel Concilio di Nicea per la prima volta, attraverso l’esercizio sinodale del
ministero dei vescovi, si esprime istituzionalmente a livello universale l’ἐξουσία del Signore risorto che guida e orienta nello Spirito Santo il cammino del
Popolo di Dio. Analoga esperienza si realizza nei successivi Concili ecumenici
del primo millennio, attraverso i quali si staglia normativamente l’identità
della Chiesa una e cattolica.[158]
102. Col Concilio di Nicea, si è imposta
l’idea stessa di un sinodo o di un concilio ecumenico. Anche se
nessuno dei suoi acta è sopravvissuto, secondo ogni
probabilità e nonostante una ricezione lenta e ardua, la
proclamazione dell’homooúsios e i canoni di Nicea sono
sopravvissuti. Dopo questo lungo processo di ricezione – che
sarà tipico di ogni concilio –, Nicea è divenuto l’ideale del
concilio nello spirito di molti. La sua presentazione
tradizionale come un concilio unificato, ispirato dallo Spirito
Santo, ha aiutato a farlo diventare il concilio ideale nella
tradizione ulteriore e a poco a poco ha creato la stima dei
cristiani per i concili ecumenici. Nicea ha aperto la via ai
concili ecumenici successivi e dunque a un nuovo modo di vivere
la sinodalità o la conciliarità che segnerà la vita della Chiesa
fino ad oggi, sia nel suo ruolo di definire e proclamare la fede
che nella manifestazione dell’unità dell’insieme dell’Oikoumenē
rappresentata nel suo seno.
Capitolo 4
Custodire una fede accessibile a tutto il popolo di Dio
Preludio: il Concilio di Nicea e le condizioni di credibilità del mistero
cristiano
103. L’idea principale e legittima che si
ricava dal Concilio di Nicea è che si tratta di un concilio
dogmatico che ha difeso e precisato la fides quae
cristologica e trinitaria. Ora, si tratta di esplicitare in
questo ultimo capitolo come l’evento del concilio ha costituito
anche una sorta di dispositivo istituzionale della Chiesa una e
cattolica per risolvere un conflitto dogmatico in condizioni che
potessero rendere ricevibile la sua decisione. L’esame di
teologia fondamentale deve dunque completare l’inchiesta
dogmatica e storica. È la fides quae, la verità
salvifica, che genera l’adesione alla salvezza, cioè la fides
qua; ma a Nicea la stessa fides qua è stata posta a
servizio dell’accoglienza e della comprensione della fides
quae. Ora, la considerazione del processo della fides qua,
ossia delle condizioni della definizione e della ricezione della
fides quae, manifesta la natura e il ruolo della Chiesa.
Evidentemente, è chiaro che l’invenzione di questo dispositivo
istituzionale sarebbe stata progressiva, che non sarebbe uscita
armata come Atena dalla testa di Zeus, in breve, che il concetto
dogmatico di “Concilio Ecumenico” non poteva essere esattamente
contemporaneo all’evento del 325. Come abbiamo già spiegato nel
capitolo II, il luogo per eccellenza in cui si incontrano la
fides qua e la fides quae è il battesimo. È qui che
l’individuo è incorporato alla fede della Chiesa, che egli
riceve la Chiesa come madre. In questo contesto di battesimo e
di catechesi di iniziazione, la Chiesa antica ha elaborato la
regola della fede come la sintesi più sostanziale della fede.
Tenendo conto della sua pertinenza, questa è stata utilizzata
per discernere la verità della fede rispetto all’eresia (Ireneo,
Tertulliano, Origene, ad esempio). La regola della fede è quindi
il precursore della posizione dogmatica del Simbolo, inteso come
riassunto degli elementi normativi della fede. Questa coscienza
di una norma (regula; kănōn) è presente nella
procedura dei sinodi preniceni che facevano discernimento a
proposito della fede.
104. Fondandosi sulle molteplici
esperienze dei sinodi regionali o locali dei secoli II e III, si
può sostenere la tesi dogmatica che è una determinata verità
ecclesiologica ritenuta operativa a priori che è stata
sollecitata per risolvere il problema di una verità trinitaria,
cristologica e soteriologica minacciata di essere alterata,
falsificata o perduta. I processi della fides qua
manifestano la natura della Chiesa. Il Verbo di Dio, fattosi
carne (cf. Gv 1,14), fa realmente conoscere il Padre e
questa conoscenza, per la potenza dello Spirito Santo, è
affidata alla Chiesa, incaricata di custodirla e di
trasmetterla. Ora, questa missione implica che la Chiesa possa
interpretare le Scritture con autorità. Ciò mostra anche che
credere la Chiesa – come professa il Simbolo – e credere alla
sua autorità nel definire la dottrina cristologica e trinitaria
si fonda sull’atto di fede in Gesù Cristo e nella Trinità, in
una forma di “mutua anteriorità”, secondo la felice espressione
tomista.[159]Infine,
anche lo scopo ultimo di tutta questa procedura ecclesiale deve
attirare la nostra attenzione. Avanziamo l’ipotesi che la
procedura conciliare è stata messa al servizio dei piccoli, a
servizio dunque della fede dei bambini, che è il paradigma della
fede del vero discepolo agli occhi del Signore Gesù e quindi
dell’annuncio del Vangelo a tutti. Ciò illumina il senso del
Magistero della Chiesa, che tende a una carità di protezione nei
riguardi del “più piccolo” tra i fratelli di Cristo (cf. Mt
25,40).
1. La teologia a servizio dell’integralità della verità salvifica
1.1. Il Cristo, la verità escatologicamente efficace
105. Nella misura in cui Nicea propone una
verità nelle questioni riguardanti la salvezza e la distingue
dall’errore, la sua prima sfida dal punto di vista della
teologia fondamentale è quella del posto che deve avere la
verità nella soteriologia. Questa convinzione proviene anzitutto
dalla stessa forma della Rivelazione, che, lasciandosi
trascrivere in parole messe per iscritto, manifesta che la
dimensione della verità le è costitutiva. La fede cristiana
suppone che la verità di Cristo sia resa accessibile ai suoi
discepoli. In effetti, il Salvatore è lui stesso la verità: «Io
sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Nel
cristianesimo, la verità è una persona. La verità non è più un
semplice affare di logica o di ragionamenti, non è possibile
possederla, non è separabile dagli altri attributi identificati
con la persona di Cristo, come il bene, la giustizia o l’amore.
Resta vero che l’adesione a Cristo interpella sempre
l’intelligenza dei discepoli: «Credo ut intelligam».[160]In
effetti, non è immaginabile né coerente pensare che il Dio
creatore dell’uomo intelligente e libero – una delle dimensioni
della creazione a immagine e somiglianza dello stesso Creatore (Gn
1,26-27) –, possa in quanto Dio salvatore disinteressarsi dell’accesso
conoscitivo alla sua verità e alla verità che salva. Per di
più, questa verità salvifica possiede una dimensione
comunitaria. Nicea è un atto comunitario di espressione della
verità, con lo scopo di comunicarla a tutta la Chiesa. Di fatto,
non è neppure immaginabile né coerente pensare che il Creatore
della famiglia umana, e in particolare della sua capacità di
comunicazione intelligibile attraverso il linguaggio (cf. Gn
11,1-9 – la torre di Babele, e At 2,1-11 – la
Pentecoste), possa disinteressarsi dell’accesso comunitario
alla sua verità e alla verità salvifica. Per questo la
disgregazione dell’unità della fede compromette la forza e
l’efficacia della salvezza in Gesù Cristo.
106. Questo posto costitutivo della verità
nella salvezza ricade sulla natura stessa della Chiesa
“portatrice della verità” (alēthefora). Essa porta un
Altro da sé, il Cristo-Verità, e non sarebbe se stessa senza di
Lui. La Chiesa è per necessità d’origine un luogo di ricerca, di
scoperta, di protezione e di dispiegamento della verità compiuta
nel Verbo a beneficio personale ed ecclesiale dei suoi discepoli
e di tutti gli esseri umani. Essa è anche un luogo di comunione
con la forza vivificante di questa verità, che in essa circola,
irrigando ugualmente la ricerca della verità propria del mondo,
il suo pensiero e la sua cultura.[161]La
tradizione (trasmissione) vivificante della stessa verità
salvifica è dunque uno dei significati più potenti che possa
rivestire il concetto dogmatico della Tradizione ecclesiale.[162]
107. Il posto capitale della verità spiega
il profondo rifiuto dell’idolatria nelle Scritture. Il Santo di
Israele è un Dio che parla, contrariamente agli idoli. «Hanno
bocca e non parlano», dicono i salmi (115,5 e 135,16), ripresi
in 1Cor 12,2: «Quando eravate pagani, vi lasciavate
trascinare senza alcun controllo verso gli idoli muti». Inoltre,
la verità, la potenza, la giustizia, la santità di Dio sono
sempre state concepite, biblicamente, in rapporto con la pretesa
di portare la salvezza vera e universale, mentre le pratiche
idolatriche non pretendono altro che offrire un dono parziale e
locale. D’altra parte, poiché è questa Persona che viene da Dio
e che è Dio essa stessa e Signore (cf. Gv 13,14), la
verità della salvezza deve essere ricevuta, mentre l’idolatria
costruisce il divino a partire dall’umano. Il fatto che Dio non
possa essere fabbricato come la statua di un idolo (si veda
l’ironia di Sap 13,11-19) rinvia alla nozione di
autorivelazione divina, opposta in maniera frontale all’idea di
autorealizzazione così frequente nelle offerte religiose, anche
antiche, come testimonia lo gnosticismo designato da Ireneo come
una vera e propria eresia e come la «gnosi dal nome menzognero».
La gnosi “mente”, in quanto contraddice la nozione stessa di
verità salvifica, dal momento che essa non è verità accolta da
Dio e ricevuta liberamente nell’amore. Al contrario, mediante la
sua incarnazione, il Verbo di Dio sollecita l’atto di fede
ecclesiale e personale come un ricevere, mediante l’intelligenza
e tutto l’essere, i misteri che salvano nello Spirito Santo:
«Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che
conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei» (Gv
4,22). Infine, Gesù è il Verbo di Dio inviato nel mondo per una
missione di parola, per una parola di verità integrale, che
sollecita la risposta di fede dell’essere umano. Per questo si
tratta di una verità realmente salvifica, escatologicamente
efficace: «Oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43). La
scelta di Nicea di esprimere in parole una verità integrale di
salvezza per tutti, da ricevere nella fede, è fedeltà non
soltanto alla verità cristologica (fides quae) ma anche
alla relazione personale alla verità che è lo stesso Cristo (fides
qua).
1.2. La salvezza e il processo di filiazione divina
108. Questa verità soteriologica va intesa
in senso forte, ontologico. Senza pretendere di offrire una
comprensione esaustiva che comprometterebbe il mistero della
salvezza in quanto mistero, essa dà tuttavia accesso alla verità
stessa della filiazione e della paternità di Dio. Il Dio della
verità ha per così dire voluto mettere gli uomini alla prova
della pretesa filiale, inaudita, del suo Figlio unico
Gesù. La verità rivelata da Dio si concentra nella verità del
suo “Figlio” unico. Questo termine non si riduce a una semplice
metafora o a una analogia, poiché ciò che è metaforico si apre
qui da sé al registro dell’ontologia, come il symbolon,
nel senso forte del termine, dona realmente ed efficacemente
accesso alla realtà che significa. La testimonianza del Padre
donata a Gesù fonda questa verità: «Se accettiamo la
testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è superiore:
e questa è la testimonianza di Dio, che egli ha dato riguardo al
proprio Figlio. Chi crede nel Figlio di Dio, ha questa
testimonianza in sé» (1Gv 5,9). L’autore aggiunge: «Chi
non crede a Dio, fa di lui un bugiardo» (1Gv
5,10). I nostri vecchi catechismi amavano esprimere questa
convinzione intima dell’atto di fede dei cristiani con una
semplicità diretta: «Dio che non può ingannarsi né ingannare»,[163]nella
quale Tommaso d’Aquino avrebbe potuto riconoscere le sue
formulazioni.[164]Così
si trova giustificata l’opzione ontologica del neologismo di
Nicea, l’homooúsios, che intende prolungare e
chiarificare la terminologia biblica e innica. La conferma della
verità ontologica della filiazione divina di Gesù sta nel fatto
che, come abbiamo visto nel primo e nel terzo capitolo, il
rapporto della paternità e della filiazione si trova
misteriosamente capovolto tra il divino e l’umano: la paternità
umana e terrena è divenuta una denominazione secondaria e
derivata rispetto al suo prototipo, Dio il Padre (cf. Ef
3,14; Mt 23,9). È questa verità della filiazione divina,
nella quale il credente è invitato a entrare, che sottende la
verità della filiazione battesimale.[165]Essere
salvati, secondo il Vangelo di Gesù, consiste nell’entrare nella
piena verità della filiazione che è inserita nella filiazione
eterna di Cristo.
2. La mediazione della Chiesa e l’inversione del concatenamento dogmatico:
Trinità, cristologia, pneumatologia, ecclesiologia
2.1. Le mediazioni della fede e il ministero della Chiesa
109. Questa verità salvifica ed efficace è
esplicitata e comunicata a Nicea da un atto di interpretazione
del testo biblico in termini che provengono dagli inni e dalla
filosofia, e attraverso l’esercizio dell’intelligenza della
fede. In effetti, tutta l’economia della Rivelazione biblica
attesta che non bisognerebbe certamente intendere la forza della
convinzione circa la verità cristologica nei termini di un
fondamentalismo per il quale il senso delle Scritture è
disponibile unicamente in modo immediato. Perché la tradizione
interpretativa della dottrina ecclesiale e la ricerca dei
teologi mostrano, al contrario, che la fede ha bisogno di molte
mediazioni, a cominciare dalla prima unica e fondatrice,
che è quella dell’umanità del Figlio unico, che egli ha ricevuto
da Maria. Dio ha disposto che la sua verità divina inaudita si
muovesse verso l’umanità attraverso la mediazione del suo Verbo
incarnato: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il
mio compiacimento. Ascoltatelo» (Mt 17,5; cf. 3,17).
Inoltre, i differenti generi letterari nell’espressione della
Rivelazione che costituiscono i libri biblici richiedono
altrettante economie ermeneutiche.[166]Il
Simbolo, nato dalla liturgia e proclamato in contesto liturgico,
testimonia inoltre che la mediazione interpretativa non si
riduce a un commento del testo, ma si fa gestis verbisque
dove la fede è vissuta in una comunità di preghiera e di grazia.[167]È
quanto leggiamo nel racconto di Lc 24, dove il Risorto in
persona non si accontenta di dare una spiegazione attraverso
l’esegesi della Legge e dei Profeti, ma infine anche lo fa
attraverso la sua presenza e la sua autodonazione eucaristica,
nello “spezzare il pane”, come spiega Papa Benedetto XVI in
Verbum Domini:
Parola ed Eucaristia si appartengono così intimamente da non poter essere
comprese l’una senza l’altra: la Parola di Dio si fa carne sacramentale
nell’evento eucaristico. L’Eucaristia ci apre all’intelligenza della Sacra
Scrittura, così come la Sacra Scrittura a sua volta illumina e spiega il Mistero
eucaristico. In effetti, senza il riconoscimento della presenza reale del
Signore nell’Eucaristia, l’intelligenza della Scrittura rimane incompiuta.[168]
110. Così, il concatenamento ordinato dei
misteri tale quale è offerto nella dogmatica può essere
utilmente capovolto in teologia fondamentale. È per il mistero
della Chiesa, «il mistero più difficile da credere»,[169]che
vengono proposti dapprima i misteri inauditi della fede
cristiana, misteri da cui questa dipende logicamente e
ontologicamente. È infatti alla Chiesa che compete, anzitutto,
di stabilire il regime di credibilità dell’itinerario della
fede. Evidentemente, esiste un «ordine o una “gerarchiaˮ delle
verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso
col fondamento della fede cristiana».[170]
La dottrina cristologica, trinitaria e soteriologica del Simbolo
costituisce questo fondamento. Tuttavia, all’interno del
nexus mysteriorum dei dogmi,[171]
l’atto di interpretazione del Concilio illumina la
partecipazione della Chiesa, secondo il suo posto e il suo ruolo
specifici, all’ordinamento della salvezza.
2.2. Dissenso e sinodalità
111. La mediazione interpretativa della
Chiesa si manifesta negli arbitrati, in particolare di fronte ai
dissensi o di fronte al bisogno di tradurre il testo sacro. Il
“Concilio di Gerusalemme” in Atti 15 testimonia per la prima
volta un dissenso di dottrina (il rapporto dei discepoli di
Cristo provenienti dalle nazioni pagane con la Legge mosaica) e
di pratica (circoncisione, idolotiti e impudicizia), che
portavano conflittualità e la cui regolamentazione e soluzione,
in forma di ritrovato consenso ecclesiale, sono state precedute
da un esame da parte del collegio radunato degli «apostoli e
anziani» (At 15,6). Viene avviato un processo: si nota
anzitutto una successione di testimonianze autorizzate (Pietro,
Paolo e Barnaba, Giacomo) accolte in un ascolto mutuo,[172]in
seguito un appello all’autorità di Mosè, l’istituzione di
messaggeri con mandato rispetto a messaggeri “senza incarico”
(cf. At 15,24), e infine la redazione di uno scritto
prescrittivo da consegnare ufficialmente all’assemblea di
Antiochia (cf. At 15,30-31) riunita su iniziativa dei
messaggeri con mandato. Tutti sono attori, dal momento che la
questione è sottoposta a tutta la Chiesa di Gerusalemme (cf.
At 15,12), che è presente durante lo svolgimento del
discernimento ecclesiale e che è implicata nella decisione
finale (cf. At 15,22).[173]Il
segno di questo aspetto comunitario è che i messaggeri sono
inviati in coppia (cf. At 15,27). L’essenziale per la
nostra riflessione è che la Chiesa assistita dallo Spirito Santo
e funzionante in maniera sinodale, appoggiandosi sul sensus
fidei fidelium[174]e
sull’autorità particolare degli apostoli, costituisce il mistero
vivente e operante nel quale è stato elaborato lo sviluppo
dottrinale a proposito della distinzione, di fronte alla Legge
mosaica, tra i discepoli di Cristo provenienti dal popolo ebreo
e quelli provenienti dalle nazioni. L’arbitrato di fede che
riguardava l’intento universalistico di Dio, quanto all’ingresso
delle nazioni nel mistero rivelato dapprima a Israele, si è
operato qui nello scambio tra fides qua e fides quae,
nel seno del mistero dinamico della Chiesa.
112. Fin dai tempi che precedettero
l’incarnazione del Verbo, il popolo eletto aveva dovuto trattare
un problema analogo per la conservazione, ma soprattutto per la
diffusione della Rivelazione nella diaspora di Israele e, al di
là, tra le popolazioni che il Nuovo Testamento chiama i
“proseliti” (cf. Mt 23,15; At 2,11, 6,15), o anche
i “timorati di Dio” (cf. At 10,2), d’origine pagana. Si
tratta della scelta fondamentale, la cui origine reale si perde
tra varie leggende (Lettera di Aristea o Talmud-Soferim
1,7), che autorizzava la traduzione della Bibbia del popolo
ebraico dall’ebraico al greco, e finì nella versione
alessandrina della Settanta. Queste traduzioni, come più tardi
il ricorso al neologismo homooúsios, avrebbero implicato
molteplici arbitrati lessicali perché le verità del testo
originale, concepite nel campo semantico di una lingua semitica,
non andassero perdute quando il testo fu trasferito nel campo
semantico di una lingua indoeuropea.
113. Questi arbitrati esprimono
la stessa natura della Chiesa e permettono di comprendere il
senso del magistero che essa esercita. Dal momento che la Chiesa
è una realtà di grazia inscritta nella storia, essa è costituita
e mossa dallo Spirito Santo, quello stesso che ha operato
nell’Incarnazione del Verbo e che continua a operare
l’incorporazione dei credenti nel Corpo mistico confrontato con
le gioie, le tentazioni e le vicissitudini della storia. La sua
missione salvifica si realizza non solo mediante la
predicazione, con l’insegnamento delle Scritture e la
celebrazione dei sacramenti, ma anche mediante il magistero
esercitato dai vescovi, successori degli apostoli, in comunione
col vescovo di Roma, successore di Pietro. Ciò non significa
affermare che la verità della fede è storica e mutevole:
significa piuttosto che il riconoscimento della verità e
l’approfondimento della sua comprensione costituiscono un
compito storico dell’unico soggetto-Chiesa. La Chiesa non ha
dunque a sua disposizione la verità, che non può essere
fabbricata, dal momento che si tratta fondamentalmente di Cristo
stesso, ma essa la riceve, la richiama e la interpreta. Credere
con la Chiesa significa per ogni generazione partecipare ai suoi
sforzi incessanti per una comprensione più profonda e più
completa della fede. L’obbligo di fedeltà non può essere
ricondotto solo a una forma di docilità passiva: si tratta di un
obbligo di appropriazione attiva per tutti i discepoli, col
sostegno e sotto la vigilanza del magistero vivente del collegio
dei vescovi. Questi ultimi, quando concordano, detengono
l’autorità per decidere in modo obbligante se un’interpretazione
teologica è fedele o meno alla fonte – il Cristo e la Tradizione
apostolica. Il Magistero non aggiunge nulla alla Rivelazione
compiutasi in Cristo e attestata nelle Scritture, se non le
esplicitazioni dello sviluppo dogmatico, dal momento che la
Chiesa vi esercita il suo ruolo di interprete autentico della
Parola di Dio mediante atti di fedeltà creativa alla
Rivelazione:[175]
«Così, il giudizio che riguarda l’autenticità del sensus
fidelium appartiene in ultima analisi non ai fedeli stessi
né alla teologia, ma al magistero».[176]Il
Magistero detto ordinario dei successori degli apostoli
consiste in un insegnamento abituale che elabora continuamente
la Tradizione – già designata nel Nuovo Testamento come «la sana
dottrina» (2Tm 4,3). In confronto ad esso, il Magistero
straordinario è esercitato più di rado, ma lo è ogni
volta che deve essere presa una decisione di portata dottrinale
concernente l’insieme della Chiesa, specialmente di fronte a una
messa in discussione da una parte della Chiesa. È ciò che si è
prodotto in modo eminente ed esplicito al Concilio Ecumenico di
Nicea.
2.3 Le lingue dello Spirito Santo per la formazione e il rinnovamento del
consenso
114. In fondo, il compito ecclesiale sarà
anzitutto un compito pneumatologico di metafrasi. Essa
opera sul registro della traduzione, come la Settanta e i
targoumim, che cercano la fedeltà al testo ebraico
situandosi decisamente nei modi di pensiero e nel genio propri
del greco e dell’aramaico. Si può supporre che il medesimo
processo sia all’opera nella traduzione delle parole di Gesù,
pronunciate in aramaico, nel greco dei Vangeli. Si tratta anche
del lavoro di esegesi del testo sacro, cominciato coi
midrashim e gli scritti dei primi Padri della Chiesa. È
questo duplice movimento che fiorisce negli scambi viventi di un
Concilio Ecumenico celebrato sotto la mozione dello Spirito di
Pentecoste, nel quale i locutori potevano provenire dal mondo
siriano o greco o copto o latino e che si concretizza in
definizioni che sono esse stesse traducibili in altre lingue e
in altre forme di espressione. Assistiamo qui a una duplice
audacia ricevuta dallo Spirito Santo. Anzitutto un rafforzamento
della comprensione della fede professata a Nicea da parte di
coloro che la proclamano con parrēsia ed efficacia a
beneficio del popolo di Dio nei differenti contesti del mondo;
in seguito, l’audacia nello Spirito Santo da parte di coloro che
ascoltano (auditus fidei) e ricevono (obsequium fidei)
questa proclamazione.[177]Questo
movimento manifesta sia la natura della Chiesa sia l’identità
dello Spirito di verità, che “fa ricordare” le parole di Cristo
e guida alla “verità tutta intera” (cf. Gv 16,13; cf.
14,26). Non vi è nulla di sorprendente nel constatare che un
simile compito ecclesiologico, che postula le operazioni della
terza persona divina, doveva risalire attraverso la storia della
salvezza fino al mistero originario delle relazioni trinitarie,
dall’economia all’ontologia divina.
115. In questo compito di “metafrasi
pneumatologica”, che introduce un concetto nuovo, sconosciuto
alle Sacre Scritture, il famoso homooúsios, è
indispensabile notare che le narrazioni bibliche come pure le
metafore dei testi scritturistici non sono abolite o occultate
dalle trasposizioni speculative che ne contraggono e ne
chiarificano la sostanza. La chiarificazione dogmatica vale solo
se conserva il suo radicamento, che la vivifica, nell’humus
biblico e nella comunione della fede liturgica. È questo,
chiaramente, il caso del testo del Simbolo. In circostanze come
quelle della crisi ariana, in cui la Parola di Dio sembrava
fornire dei supporti ambivalenti per la conservazione della
verità di fede (Lc 18,19: «Perché mi chiami buono?
Nessuno è buono, se non Dio solo»), diventa necessario che
l’espressione speculativa possa dirimere la disputa esegetica.
Tuttavia, lo sviluppo dottrinale, con le risorse specifiche dei
neologismi, deve accontentarsi di mettere in luce le verità
immanenti al linguaggio di rivelazione, nello stesso modo con
cui Cristo spiega la sua parabola del seminatore in Mt
13,3-9 e poi 18-23. In questo senso, non si mancherà di rilevare
che nella storia della Chiesa i neologismi dogmatici sono stati,
tutto sommato, poco numerosi e hanno corrisposto a dei nodi del
mistero cristiano veramente decisivi: “consustanzialità” e
“unione ipostatica” in cristologia; e in ambito trinitario
“relazioni sussistenti” e “pericoresi”; ma anche “persona” (prosôpon
et hypostasis), col suo senso specificamente
cristiano, in teologia trinitaria, cristologia e antropologia.
3. Vegliare sul deposito della fede: una carità al servizio dei più piccoli
3.1. La fede unanime del popolo di Dio offerta a tutti
116. Il Simbolo di fede e i canoni adottati
dal Concilio di Nicea non sono semplicemente atti ecclesiali di
interpretazione, di traduzione e di metafrasi, ma intendono
anche “custodire” o “vegliare su” (phȳlaxein) il
deposito della fede trasmessa dagli apostoli (1Tm 6,20).
Ora, questa protezione si opera in particolare a beneficio dei
più esposti. Come, sul piano della fides quae, l’homooúsios
è il principio e fondamento della koinonia in Cristo di
tutti gli esseri umani tra loro, sino al più piccolo, così, sul
piano della fides qua, la decisione del Concilio di
definire una professione di fede comune, protegge tutti i
discepoli. In effetti, la chiarezza dottrinale rende la fede
capace di resistere alle forze del regionalismo culturale
assolutizzato e della frattura geopolitica così come a quelle
dell’eresia, spesso legate a una forma di sottigliezza elitaria.
117. Soffermiamoci su quest’ultimo aspetto.
Nel IV secolo, in quest’epoca di “pace della Chiesa”, nel quale
si è rischiato lo sbiadirsi della convinzione cristiana nel
momento della sua diffusione universale, i sostenitori del
paganesimo antico tentavano, invece, di restituire ad esso il
suo vigore perduto sottolineando il carattere accessibile
ai comuni mortali degli dèi del loro pantheon, della sua pratica
e dei costumi degli avi. Ora, la fede predicata da Gesù ai
semplici non è una fede semplicistica. Le parabole e altre
sentenze, o alcune dichiarazioni giovannee come la magistrale:
«Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30), sono
testimonianza del fatto che l’accesso al mistero di Dio è, per
lo meno, paradossale. Né ciò che il dogma chiamerà la Trinità,
né l’unione ipostatica enunciata al Concilio di Calcedonia, né
il duotelismo dinamico salvaguardato dalla soteriologia di
Massimo il Confessore, potrebbero passare come proposizioni
semplici. Tuttavia, il cristianesimo non si è mai considerato
come una forma di esoterismo riservato a una élite di iniziati.
Il Cristo lo afferma in una dichiarazione fondamentale: «Io ho
parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga
e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai
detto nulla di nascosto. Perché interroghi me? Interroga quelli
che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa
ho detto» (Gv 18,20-21). Anche la disciplina mistagogica
dell’arcano, in un certo periodo del paleocristianesimo, non
esprimeva una preoccupazione gelosa di segretezza, quanto
piuttosto l’esigenza di tener conto della serietà e delle tappe
dell’iniziazione cristiana. E col passare dei secoli si vede
bene come la fede cristiana abbia assunto pienamente il suo
stile decisamente essoterico e popolare. In fondo, ogni
cristiano, facendo su di sé il segno della croce, esprime in
maniera adeguata e piena il cuore della fede trinitaria e
pasquale.[178]Il
popolo di Dio nella sua interezza deve dare ragione della sua
fede e della sua speranza (cf. 1Pt 3,5): in questo senso
è teologo.[179]
118. Nello stesso senso,
l’esercizio del Magistero, tale quale si realizza al Concilio di
Nicea e che conferisce all’insegnamento della Chiesa “cattolica”
uno stile autenticamente pubblico e istituzionale, istituisce
con ciò un’uguaglianza di tutti nei confronti del contenuto
della fede. Il credo liturgico, confessato da tutti i membri del
Corpo mistico, nel contesto di una liturgia pubblica e comune,
formerà come una pietra di paragone per la contesseratio
(il legame di ospitalità) della comunione ecclesiale, cara a
Tertulliano.[180]Il
bene comune della Rivelazione vi è realmente messo “a
disposizione” di tutti i fedeli, come conferma la dottrina
cattolica dell’infallibilità in credendo del popolo dei
battezzati: «La totalità dei fedeli, avendo l’unzione che viene
dal Santo (cf. 1Gv 2,20.27), non può sbagliarsi nel
credere».[181]I
vescovi hanno un ruolo specifico nella definizione della fede,
ma non possono assumerlo senza essere nella comunione ecclesiale
di tutto il popolo di Dio.[182]In
tal senso, la Legge nuova del Nuovo Testamento riveste le
caratteristiche della Legge antica, di cui non si valuta mai a
sufficienza ordinariamente la dimensione pubblica: poiché la
Legge è solennemente promulgata, essa è da tutti conosciuta come
legge divina. Così, anche i capi sono tenuti proprio per il
carattere pubblico della Legge alla sua osservanza. I
“privilegi personali”, spesso rilevati e denunciati nella Torah,
vi appaiono più facilmente in maniera oggettiva come una colpa
nei confronti dell’uguale dignità dei figli di Dio (cf. Lv
19,5; Dt 10,17; At 10,34; Rm 2,11).
3.2. La protezione della fede di fronte al potere politico
119. Il Concilio di Nicea, con
tutto ciò che deve all’iniziativa dell’imperatore Costantino,
rappresenta comunque una pietra miliare nel lungo cammino verso
la libertas Ecclesiae, che è dovunque una garanzia di
protezione della fede dei semplici e dei più vulnerabili di
fronte al potere politico. Senza dubbio, nasce nello stesso
momento un movimento in concorrenza che tende verso ciò che sarà
chiamato il “cesaropapismo” e che è una tentazione permanente
tra le Chiese cristiane. Bisogna allora identificare in questo
Concilio le primizie di una garanzia ecclesiale per la libertà
di coscienza dei piccoli rispetto a quelle di una
strumentalizzazione politica della religione di Cristo? È vero
che oggi si tende spesso a far valere la preoccupazione politica
dell’imperatore Costantino; si sottolinea che il Concilio di
Nicea era tra l’altro destinato a celebrare il ventesimo
anniversario del suo regno, e si insinua anche, in certi casi,
che la professione di fede adottata a Nicea intendeva anzitutto
restaurare la concordia all’interno dell’Impero. Allo stesso
modo, si rimprovera alla nozione di eresia di essere associata
al potere repressivo dello Stato confessionale. Non potendo
trattare in modo esaustivo queste questioni molto complesse nei
limiti del presente documento, possiamo però distinguere nel
nostro caso le forme di unità e gli obiettivi, l’unità di fede
tra i cristiani e l’unità dei cittadini. Da un lato, in effetti,
il monoteismo trinitario di Nicea, nella sua verità dogmatica,
non permetteva senz’altro di onorare così bene come l’arianesimo
la pretesa del Basileus di essere il simbolo statale e
religioso dell’unità romana e di gettare quindi i fondamenti di
un ordine teologico-politico stricto sensu.[183]D’altra
parte, senza la vigilanza magisteriale della Chiesa apostolica
assistita dallo Spirito Santo di fronte alla resistenza opposta
dall’eresia all’inaudito della Rivelazione, i misteri della fede
comunicati dall’autorivelazione del Verbo incarnato, crocifisso
e risorto, non avrebbero resistito alla dissoluzione e alla
cacofonia.
120. La protezione della fede di
tutti, così come l’importanza dell’ascolto della voce stessa
degli ultimi e dei meno ascoltati, si manifesta nel fatto che
Nicea non ha seguito il cammino dell’arianesimo. In effetti, san
Girolamo sottolinea la maggioranza numerica degli ariani e anche
il numero anch’esso assai maggioritario dei vescovi conquistati
all’arianesimo. Storicamente bisognerebbe sfumare la lettura
fatta da Girolamo, poiché la più parte dei vescovi e dei
cristiani non aveva optato direttamente per l’arianesimo, ma era
piuttosto esitante di fronte a una terminologia che non si
trovava nel Nuovo Testamento. Detto ciò, siccome si era prodotto
un effetto di forza messo in atto dall’autorità politica, il
Concilio ha permesso di salvaguardare il sensus fidelium[184]
che abitava nel popolo di Dio. In questo senso si può dire che
la professione di fede di Nicea è un’eco fedele dell’esultanza
di Cristo vissuta nella Chiesa: «Ti rendo lode, Padre, Signore
del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai
sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre,
perché così hai deciso nella tua benevolenza» (Mt
11,25-26).
Conclusione
Annunciare a tutti Gesù nostra Salvezza oggi
121. La celebrazione dei 1700 anni del Concilio
di Nicea è un pressante invito rivolto alla Chiesa perché riscopra
il tesoro che le è stato affidato e vi attinga per condividerlo con
gioia, in un rinnovato slancio, e perfino in una «nuova tappa
dell’evangelizzazione».[185]
Annunciare Gesù nostro Salvatore a partire dalla fede espressa a
Nicea, così come è professata nel Simbolo di Nicea-Costantinopoli,
significa anzitutto lasciarsi stupire dall’immensità di Cristo, così
che tutti ne siano meravigliati, rianimare il fuoco del nostro amore
per il Signore Gesù, così che tutti possano ardere d’amore per lui.
Nulla e nessuno è più bello, più vivificante, più necessario di lui.
Dostoevskij lo dichiara con forza: «Ripongo in me il simbolo della
fede nel quale per me è tutto limpido e santo. Questo simbolo è
molto semplice, ed è questo: credere che non ci sia niente di più
bello, profondo, disponibile, sensato, coraggioso e perfetto di
Cristo».[186] In
Gesù, homooúsios al Padre, Dio stesso viene a salvarci, Dio
stesso si è legato all’umanità per sempre, al fine di portare a
compimento la nostra vocazione di esseri umani. In quanto Figlio
Unigenito, ci conforma a sé come figli e figlie amati dal Padre per
la potenza vivificante dello Spirito Santo. Coloro che hanno visto la gloria (doxă) di Cristo la possono cantare e
lasciare che la dossologia si trasformi in annuncio generoso e fraterno, cioè in
kerigma.
122. Annunciare Gesù nostra salvezza a partire
dalla fede espressa a Nicea non porta a ignorare la realtà
dell’umanità. Non distoglie dalle sofferenze e dagli scossoni che
tormentano il mondo e oggi sembrano compromettere ogni speranza. Al
contrario, essa si confronta con queste difficoltà confessando la
sola redenzione possibile, acquistata da colui che ha conosciuto
fino in fondo la violenza del peccato e del rifiuto, la solitudine
dell’abbandono e la morte e che, dall’abisso del male, è risuscitato
per portare anche noi nella sua vittoria fino alla gloria della
risurrezione. Questo annuncio rinnovato non ignora neppure la
cultura e le culture, ma, al contrario, anche qui con speranza e
carità, si mette al loro ascolto e si arricchisce di queste, mentre
le invita alla purificazione e le eleva. Entrare in una simile
speranza esige senz’altro una conversione, ma anzitutto da parte di
colui che annuncia Gesù con la vita e la parola, poiché questa
speranza significa rinnovamento dell’intelligenza secondo il
pensiero di Cristo. Nicea è il frutto di una trasformazione del
pensiero che è implicata e resa possibile a un tempo dall’evento
Gesù Cristo. Parimenti, una nuova tappa dell’evangelizzazione non
sarà possibile che da parte di coloro che si lasciano rinnovare da
questo evento, da parte di coloro che si lasciano coinvolgere dalla
gloria del Cristo, sempre nuovo.
123. Annunciare Gesù nostra salvezza a partire
dalla fede espressa a Nicea, significa rendersi particolarmente
attenti ai più piccoli e ai più vulnerabili tra i nostri fratelli e
le nostre sorelle. La luce nuova proiettata sulla fraternità tra
tutti i membri della famiglia umana da Cristo, Figlio homooúsios
del Padre e partecipe della natura umana comune, illumina in
particolare coloro che hanno più bisogno della speranza della
grazia. Noi siamo legati, mediante un legame radicale
indistruttibile, a tutti coloro che soffrono e che sono scartati:
siamo tutti chiamati a operare perché la salvezza possa
raggiungerli, specialmente loro. Annunciare significa qui “dare da
mangiare”, “dare da bere”, “accogliere”, “vestire” e “andare a far
visita” (Mt 25,34-40), fare risplendere la gloria umile della
fede, della speranza e della carità per colui che non è creduto, in
cui nessuno spera e che è reietto dal mondo. Annunciare significa
far brillare queste virtù teologali nell’umiliazione e nella
sofferenza: ciò non può che venire da Cristo nostro Salvatore, e
dunque si tratta di rendere testimonianza a Lui e permettere di
incontrarlo. Non ci dobbiamo però ingannare: questi crocifissi della
storia sono il Cristo tra di noi, nel senso più forte
possibile: «L’avete fatto a me» (Mt 25,40). Il
Crocifisso-Risorto conosce intimamente le loro sofferenze ed essi
conoscono le sue. Così, essi sono gli apostoli, i maestri e gli
evangelizzatori dei ricchi e dei benestanti. Si tratta di aiutare i
poveri, ma anzitutto di entrare in relazione con loro e di vivere
con loro per lasciarsi istruire da loro: loro comprendono meglio di
tutti l’immensità del dono del Figlio homooúsios che va fino
alla croce, confessato a Nicea. Essi possono introdurci alla
speranza più forte della morte, alla sequela del Verbo di Dio
disceso fino alla condizione più umile tra noi per esaltarci fino
alla condizione più elevata con Lui.[187]
124. Annunciare Gesù nostra salvezza
a partire dalla fede espressa a Nicea, significa annunciarlo in
quanto Chiesa. Significa annunciarlo con la testimonianza della
fraternità inaudita fondata in Cristo. Significa far conoscere le
cose meravigliose per cui la Chiesa “una, santa, cattolica e
apostolica” è il “sacramento universale di salvezza” e dona accesso
alla vita nuova: il tesoro delle Scritture che il Simbolo
interpreta, la ricchezza della preghiera, della liturgia e dei
sacramenti che derivano dal battesimo professato a Nicea, la luce
del Magistero che sta al servizio della fede condivisa. Questo
tesoro, tuttavia, «lo abbiamo in vasi di creta» (2Cor 4,7).
Ora tutto questo è giusto, perché l’annuncio sarà fecondo unicamente
se vi è consonanza tra la forma del messaggio e il suo contenuto,
tra la forma di Cristo e la forma dell’evangelizzazione. Nel mondo
di oggi, si tratta in particolare di tener presente che la gloria
che abbiamo contemplato è quella del Cristo «mite e umile di cuore»
(Mt 11,29), che ha proclamato: «Beati i miti, perché avranno
in eredità la terra» (Mt 5,5). Il Crocifisso-Risorto è
realmente vincitore, ma si tratta di una vittoria sulla morte e il
peccato e non su degli avversari – non vi sono perdenti nel
Mistero Pasquale, se non lo sconfitto escatologico, Satana il
divisore.[188]
L’annuncio di Gesù nostra salvezza non è un combattimento, ma
piuttosto una conformazione al Cristo, lui che guardava a coloro che
incontrava con amore e compassione (cf. Mc 10,21; Mt
9,36) e si lasciava condurre da un altro, lo Spirito del Padre.[189]L’annuncio
sarà fecondo se è Cristo che agisce in noi:
Infatti, è bene ricordare che quando mandò i suoi discepoli in missione “il
Signore agiva insieme con loro” (Mc 16,20). Egli è lì, lavora, lotta
e fa del bene con noi. In modo misterioso, è il suo amore che si manifesta
attraverso il nostro servizio, è Lui stesso che parla al mondo in quel
linguaggio che a volte non trova parole.[190]
[1] Francesco, Bolla di indizione del Giubileo ordinario dell’anno 2025
Spes non confundit,
9 maggio 2024, 17.
[2] Efrem, Inni sulla natività, III, 3, trad. it. di I. De Francesco, Efrem,
Inni sulla natività e sull’epifania, Paoline, Milano 2003, pp. 149-150.
[3] Francesco,
Discorso ai membri della Commissione Teologica
Internazionale, 30 novembre 2023.
[4] «Benchè si fosse dapprima concordato che un sinodo dei vescovi si tenesse
ad Ancira, in Galazia, ora ci è sembrato meglio, per diverse [ragioni], che si
riunisse nella città di Nicea, in Bitinia: sia a causa dei vescovi provenienti
dall’Italia e da altre regioni dell’Europa, sia perché io sarei stato un
osservatore più vicino e partecipe delle cose che si sarebbero svolte», Costantino, Lettera ai vescovi circa la convocazione del Concilio di Nicea (H.-G. Opitz,
Athanasius Werke III/1, 3. Urkunde 20,
Walter de Gruyter & Co., Berlin - Leipzig 1934/1935, pp. 41-42) nostra
traduzione.
[5] Cf. Concilio di Calcedonia, Preambolo, DH 300.
[6] Cf. Concilio di Efeso, VI sessione dei Cirilliani, DH 265.
[7] Citato in K. Schatz, Storia dei Concili. La Chiesa nei suoi punti
focali, Dehoniane, Bologna 2012, p. 36.
[8] «La Chiesa cattolica riconosce il valore conciliare ecumenico, normativo e
irrevocabile, quale espressione dell’unica fede comune della Chiesa e di tutti i
cristiani, del Simbolo professato in greco dal II Concilio Ecumenico a
Costantinopoli nel 381. Nessuna professione di fede propria ad una tradizione
liturgica particolare può contraddire questa espressione di fede insegnata e
professata dalla Chiesa indivisa», Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani,
«Le tradizioni greca e latina riguardanti la processione dello Spirito Santo»,
13 settembre 1995, in L’Osservatore Romano, mercoledì 13 settembre 1995,
p. 5.
[9] Francesco,
Discorso al Dicastero per la Dottrina della Fede, 26 gennaio 2024.
[10] Seguiremo la versione greca del Simbolo Niceno-Costantinopolitano, salvo
ulteriori precisazioni.
[11] La tematica di Dio Padre in quanto Creatore è molto presente presso i
primi Padri della Chiesa. Clemente Romano si riferisce al «Padre e creatore del
mondo intero», Lettera ai Corinti 19,2 e 35,3, in C. Dell’Osso, I
Padri apostolici, Città Nuova, Roma 2011, pp. 51 e 60; Giustino parla del
«Padre e Signore dell’universo», I Apologia 12,9; 61,3, trad. it. di G.
Girgenti, Rusconi, Milano 1995, pp. 57 e 157; Taziano evoca anche l’«Autore
degli spiriti» e il «Padre del sensibile e del visibile», Ai Greci IV,3,
trad. it. di G. Aragione, Paoline, Milano 2015, pp. 155-157. É un’idea che si
trova già presso gli autori greci: Platone considera il dio come «l’autore e il
padre di tutto l’universo»: Timeo 28c; 41a, trad. it. di G. Lozza,
Mondadori, Milano 1994, pp. 25. 47; si veda anche Epitteto, Diatribai
I,9,7. trad. it. di D. Bassi, Razzolini, Firenze 1915, p. 13.
[12] Contrariamente ad Eschilo, che parla del «τῶν θεῶν φθόνος», “l’invidia degli dèi” (I Persiani 362, trad. it. di C. Carena,
Eschilo, Le supplici. I Persiani. Prometeo incatenato. I sette contro Tebe,
Mondadori, Verona 1960, p. 95), si veda Tommaso d’Aquino, Contra Gentiles,
l. 1 cap. 89 n. 12: «Invidiam igitur in Deo impossibile est esse, etiam secundum
suae speciei rationem: non solum quia invidia species tristitiae est, sed etiam
quia tristatur de bono alterius, et sic accipit bonum alterius tanquam malum
sibi».
[13] Cf. Ilario di Poitiers, De Trinitate, IX, 61, trad. it. di A.
Orazzo, vol. 2, Città Nuova, Roma 2011, pp. 161-162.
[14] Cf. Ippolito, C. Noet. 10,1-2, trad. it. di M. Simonetti,
Ippolito, Contro Noeto, Dehoniane, Bologna 2000, p. 171. Tertulliano: «Ante Omnia enim Deus erat solus, ipse sibi et mundus et locus et omnia. Solus
autem quia nihil aliud extrinsecus praeter illum. Ceterum ne tunc quidem solus;
habebat enim secum quam habebat in semetipso, rationem suam»: Adversus
Praxean, 5,2, CCL 2, p. 1163.
[15] Cf. Martyre de saint Polycarpe, in C. Dell’Osso, I Padri
apostolici, pp. 145-156; Giustino, I Apologia 63, trad. it. di G.
Girgenti, pp. 161-165.
[16] Si veda l’anatematismo diretto contro Ario alla fine del Simbolo di Nicea:
DH 126.
[17] Ario, Lettera a Eusebio di Nicomedia 5, in M. Simonetti, Il Cristo,
vol. 2, Mondadori, Roma 1986, p. 73.
[18] In una lettura posteriore a Nicea, Cromazio di Aquileia afferma: «Come la
nostra prima creazione avvenne per l’intervento della Trinità, così per
l’intervento della Trinità avviene la seconda. Infatti, non c’è opera del Padre
senza il Figlio né senza lo Spirito Santo, perché l’opera del Padre è l’opera
del Figlio, l’opera del Figlio è l’opera dello Spirito Santo»: Cromazio d’Aquileia,
Sermone 18, 4, trad. it. di G. Banterle, San Cromazio di Aquileia,
I sermoni, Scrittori dell’area santambrosiana 3/I, Biblioteca Ambrosiana
– Città Nuova, Milano-Roma 1989, p. 113.
[19] Sull’“oblio” dello Spirito Santo, si veda Y. Congar, Credo nello
Spirito Santo, Queriniana, Brescia 1998, pp. 180-186. Le analisi di Congar
si concentrano soprattutto sui secoli XIX-XX, ma i fenomeni che descrive
esistono ancora, anche se in maniera più sottile.
[20] «Credimus […] Patrem […] fontem et originem totius divinitatis», VI Concilio di Toledo, DH 490.
Si veda anche Agostino, per il quale il Padre è «il Principio di tutta la Divinità», Agostino, De Trinitate, IV, 29,trad.
it. di G. Beschin, Sant’Agostino, La Trinità, Città Nuova, Roma 20033,
p. 225.
[21] Versione del Simbolo di Nicea (325).
[22] «Non è un Dio di altro genere, ma il Padre e il Figlio sono una cosa
sola»: Ilario di Poitiers, De Trinitate, VIII, 41, trad. it. di A.
Orazzo, vol. 2, p. 89.
[23] Cf. B. Sesboüé, Storia dei Dogmi. 1. Il Dio della salvezza: I-VIII secolo, Dio, la Trinità, il
Cristo, l’economia della Salvezza, Casale Monferrato, Piemme 1996, p. 222.
[24] Versione latina del Simbolo di Nicea-Costantinopoli, a partire dalla
versione tradotta da Rustico nel VI secolo: cf. I. Ortiz de Urbina, Storia
dei Concili Ecumenici vol. I, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano
1994, p. 172.
[25] Si vedano Efrem e Gregorio Palamas, ma anche Ambrogio: Splendor
paternae gloriae come commento a lumen de lumine, in Sant’Ambrogio,
Opere poetiche e frammenti. Inni – Iscrizioni – Frammenti, a cura di
G. Banterle, G. Biffi, I. Biffi, L. Migliavacca, Opera Omnia di Sant’Ambrogio
22, Biblioteca Ambrosiana – Città Nuova Editrice, Milano-Roma 1994, Inno
II, pp. 34-37.
[26] «La dottrina trinitaria può e deve essere vista non come appendice o
indebolimento del monoteismo cristiano, bensì come la sua radicalizzazione»: K. Rahner,
Unicità e Trinità di Dio nel dialogo con l’Islam, in Idem, Dio e
rivelazione, Nuovi Saggi 7, Paoline, Roma 1981, pp. 155-177 (qui p. 161).
[27] Cf. M. Wyschogrod, Abraham’s Promise, Judaism and Jewish-Christian
Relations, SCM Press, London 2006, p. 178.
[28] Cf. D. Boyarin, Le Christ Juif, Cerf, Paris 2019, pp. 42-66; P. Lenhardt,
L’Unité de la Trinité. À l’écoute de la tradition d’Israël, Éd. Parole et Silence, Paris, 2011; P. Schäfer, Two Gods in Heaven: Jewish
Concepts of God in Antiquity, Princeton University Press, Princeton (NJ)
2020.
[29] Cf. D. Boyarin, Le Christ Juif, pp. 55-56, ad esempio. Questa
posizione è realmente considerata nel mondo giudaico come una possibile
interpretazione del libro di Daniele nel testo aramaico e di diversi testi del
periodo del Secondo Tempio, anche se è oggetto di molte discussioni.
[30] Prv 1,9.14; 8,1-36; Sap 1,7; 7,22-27; Sir 24,1-22. Alcuni
esegeti utilizzano ugualmente l’espressione “duoteismo” a proposito della
Sapienza personificata: cf. J. Trublet [dir.], La Sagesse Biblique. De l’Ancien au Nouveau Testament, Lectio Divina 160, Cerf, Paris 1995.
[31] Cf. L. W. Hurtado, One God, one Lord. Early Christian Devotion and Ancient Jewish Monotheism, T&T Clark, Edinburg 19982 (1988); R. Bauckham, «God Crucified»
(1996), in R. Bauckham, Jesus and the God of Israel, Paternoster,
Crownhill (UK) 2008, pp. 1-59. Ad esempio, una parte del Simbolo di Nicea è stata formulata nella prima
letteratura giudaico-cristiana primitiva, cioè nelle Odi di Salomone, che
datano circa tra il 70-125 d.C. (cf. Ode 14:12-17, in A. Rahlfs, R. Hanhart
[ed.], Septuaginta, SESB Edition, Stuttgart 2006).
[32] La versione latina del Simbolo distingue il fatto che il Cristo abbia
preso carne “per opera (de)” dello Spirito Santo e “dalla (ex)”
Vergine Maria.
[33] J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul Simbolo
apostolico, Queriniana, Brescia 202326, p. 24.
[34] «Seguendo i santi Padri, all’unanimità noi insegniamo a confessare un solo
e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e
perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo [composto] di anima razionale e
di corpo, consustanziale al Padre per la divinità, e consustanziale a noi per
l’umanità, simile in tutto a noi, fuorché nel peccato (Eb 4,15), generato
dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi per noi
e per la nostra salvezza da Maria vergine e madre di Dio, secondo l’umanità», Concilio Ecumenico di Calcedonia,
DH 301.
[35] «L’uomo non sarebbe stato divinizzato se fosse stato unito ad una
creatura, ovvero se il Figlio non fosse stat overo Dio, e l’uomo non starebbe da
presso al Padre se non fosse stato il naturale e vero Logos del Padre ad
indossare il corpo. Come non saremmo stati liberati dal peccato e dalla
maledizione se la carne indossata dal Logos non fosse stata per natura umana
(non avremmo infatti nulla in comune con ciò che è da noi estraneo)»: Atanasio,
Trattati contro gli ariani II, 70, trad. it. di P. Podolak, Città Nuova,
Roma 2003, p. 227.
[36] Ibid., III, 7,3, p. 254.
[37] Questa espressione si trova presso i Padri, dove altri attori della storia
sono a volte menzionati con Pilato, come “Erode il Tetrarca” (Ignazio di Antiochia,
Lettera agli Smirnesi 1, 2, in C. Dell’Osso, I Padri apostolici,
p. 117) o “Tiberio Cesare” (Giustino, I Apologia 13,3, trad. it. di G.
Girgenti, pp. 58-59).
[38] «L’antica Alleanza, un’Alleanza che non è mai stata revocata da Dio», Giovanni Paolo II,
Incontro con i rappresentanti della comunità ebraica, Magonza 17 novembre
1980, 3; «L’Antica Alleanza non è mai stata revocata», Catechismo della
Chiesa Cattolica, 121: cf. Francesco, Esort. Ap.
Evangelii gaudium,
24 novembre 2013, 247.
[39] Concilio Ecumenico Vaticano II, Dich.
Nostra aetate, 28 ottobre 1965, 4.
[40] Già in Ireneo di Lione, Contro le eresie IV, 34,3, trad. it. di A.
Cosentino, vol. 2, Città Nuova, Roma 2009, p. 271: «Da dove i profeti
avrebbe potuto prevedere la venuta del re, preconizzare la libertà che sarebbe
venuta da lui, preannunziare tutte le cose che sarebbero state fatte dal Cristo,
le sue parole, le sue azioni, la sua passione, predicare il Nuovo Testamento, se
avessero ricevuto l’ispirazione profetica da un altro Dio, che ignorava –
secondo voi – il Padre indicibile, il suo regno, le sue economie, le quali il
Figlio di Dio ha portato a compimento in questi ultimi giorni quando è venuto
sulla terra?». Cf. A. De Halleux, «La profession de l’Esprit-Saint dans le Symbole de
Constantinople», Revue théologique de Louvain, 10e année,
fasc. 1, 1979, pp. 5-39. Un Simbolo di Epifanio di Salamina, datato attorno al 374,
sviluppa ulteriormente questo tema: «Crediamo nel Santo Spirito,
che parlò nella Legge e predicò nei profeti e discese sul Giordano, parla negli
apostoli e abita nei santi», DH 44.
[41] Giovanni II, Lettera Olim quidem, marzo 534, DH 401. «Se qualcuno non confessa che
il Signore nostro Gesù Cristo, crocifisso nella sua carne, è vero Dio, Signore
della gloria e Uno della santa Trinità, costui sia anatema», II Concilio Ecumenico di Costantinopoli,
Anatematismo 10, DH 432.
[42] «Ciò che è già compiuto in Cristo deve ancora compiersi in noi e nel mondo. Il
compimento definitivo sarà quello della fine, con la risurrezione dei morti, i
cieli nuovi e la terra nuova. L’attesa messianica ebraica non è vana. Essa può
diventare per noi cristiani un forte stimolo a mantenere viva la dimensione
escatologica della nostra fede. Anche noi, come loro, viviamo nell’attesa. La
differenza sta nel fatto che per noi Colui che verrà avrà i tratti di quel Gesù
che è già venuto ed è già presente e attivo tra noi»: Pontificia Commissione Biblica,
Il popolo ebraico e le sue Scritture nella Bibbia cristiana, 2001, 21.
[43] Cf. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1848.
[44] Cf. Concilio di Orange (529), canone 1, DH 371, e canone 2, DH 372.
[45] Secondo Ireneo, Gesù si riferisce qui a «coloro che hanno ricevuto
l’adozione filiale» in lui. Cf. Ireneo di Lione, Contro le eresie III,
6,1, trad. it. di A. Cosentino, vol. 2, p. 24.
[46] «Cristo, l’uomo che è in Dio, per l’eternità una cosa sola con Dio, è al
tempo stesso il perpetuo essere aperto di Dio per l’uomo. Egli stesso è, quindi,
ciò che noi chiamiamo “cielo”, poiché il “cielo” non è uno spazio, ma una
persona, la persona di Colui nel quale Dio e uomo sono per sempre
inseparabilmente uno. E noi ci avviciniamo al “cielo”, anzi, entriamo nel
“cielo”, nella misura in cui ci avviciniamo a Gesù Cristo ed entriamo in Lui», J. Ratzinger,
Gesù di Nazaret. Scritti di cristologia, ed. it. di P. Azzaro, Libreria
Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2023, (Opera Omia 6/2) pp. 273-274.
Cf. anche H.U. von Balthasar, «Eschatologie», in J. Feiner, J. Trütsch et F. Böckle (éd.), Fragen der
Theologie heute, Einsiedeln, Zurich, Cologne 1957, pp. 403-421 (qui pp.
407-408).
[47] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Past.,
Gaudium et spes, 7 dicembre 1965, 22.
[48] Cf. Giovanni della Croce, Cantico spirituale A 38, 3-7; B 39, 2-7, trad. it. del Carmelo di
Legnano, Paoline, Milano 1991, pp. 400-404.
[49] Paolo VI, «Allocuzione finale del Concilio Vaticano II», 7 dicembre 1965, § 8.
[50] Cf. Concilio di Calcedonia, DH 301.
[51] Cf. il Simbolo degli Apostoli.
[52] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa contra Gentiles, IV, 81.
[53] B. Pascal, Pensieri 434, in Pensieri e altri scritti, San
Paolo, Cinisello Balsamo 1987, p. 270; cf. Francesco, Lett. Ap.
Sublimitas et
miseria hominis per il IV centenario della nascita di Blaise
Pascal, 19 giugno 2023.
[54] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm.
Lumen gentium, 21 novembre 1964, 48; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich.
Dominus Iesus, 6 agosto 2000, 20.
[55] Ippolito di Roma, Traditio Apostolica, 6, trad. it. di E. Peretto, Città Nuova,
Roma 1996, p. 113.
[56] «Come l’unica bontà di Dio è realmente diffusa in vari modi nelle creature, così
anche l’unica mediazione del Redentore non esclude, bensì suscita nelle creature
una varia cooperazione partecipata da un’unica fonte», Concilio Ecumenico Vaticano
II, Cost. Dogm. Lumen gentium, 21 novembre 1964, 62.
[57] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Past.
Gaudium et spes, 7 dicembre 1965, 24-25.
[58]
Ibid., 22.
[59] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm.
Lumen gentium, 21 novembre 1964, 1.
[60] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost.
Sacrosanctum Concilium, 4 dicembre 1963, Appendice.
[61] Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica I, 9, trad. it. di A. Gallico, Città Nuova, Roma
2000, pp. 90-94.
[62] Cf. La Lettera alle Chiese, pubblicata in H. Pietras, Concilio
di Nicea (325) nel suo contesto, GBPress, Roma 2021, pp. 204-208 (Eusebio,
Vita Constantini, 3.17-20); «Purtroppo con questa decisione venne
abbandonata la data comune di Pasqua tra cristiani ed ebrei», Card. K. Koch,
«Verso una celebrazione ecumenica del 1700° anniversario del Concilio di Nicea
(325-2025)», L’Osservatore Romano, 30 aprile 2021.
[63] Rispettivamente Giovanni Paolo II,
Incontro con la comunità ebraica
nella sinagoga della città di Roma, 13 aprile 1986, 4, e Benedetto XVI,
Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con P.
Seewald, ed. it. a cura di P. Azzaro, Libreria Editrice Vaticana, Città del
Vaticano 2010, p. 123.
[64] Atanasio, Vita di Antonio, trad. it. di L. Cremaschi, Paoline, Milano 1995, pp.
192-193.
[65] «Se non venisse data anche a noi la possibilità di un incontro vero con Lui,
sarebbe come dichiarare esaurita la novità del Verbo fatto carne. Invece,
l’incarnazione oltre ad essere l’unico evento nuovo che la storia conosca, è
anche il metodo che la Santissima Trinità ha scelto per aprire a noi la via
della comunione. La fede cristiana o è incontro con Lui vivo o non è. La
Liturgia ci garantisce la possibilità di tale incontro», Francesco, Lett. Ap.
Desiderio desideravi, 29 giugno 2022, 10-11.
[66] Cf. A Diogneto, V, 10-11, in C. Dell’Osso, I Padri apostolici,
p. 346.
[67] Atenagora, Legatio (Supplicatio) pro Christianis (176-180 d.C.) 12,3; cf.
24,2, trad. it. di C. Burini, Gli apologeti greci, Città Nuova, Roma
1986, pp. 264; 294-295.
[68] Ambrogio,
De fide ad Gratianum I, 1,8, in Sant’Ambrogio, Opere dogmatiche I. La Fede, a cura di C.
Moreschini, Opera Omnia di Sant’Ambrogio 15, Biblioteca Ambrosiana – Città Nuova Editrice,
Milano-Roma 1984, pp. 58-59.
[69] Ilario di Poitiers,
De Trinitate II, 1, trad. it. di A. Orazzo, vol. 1, Città Nuova, Roma 2011, pp. 147-148.
[70] Efrem, De fide (Against the Disputers) trad. J. B. Morris, Select Works of St. Ephrem the Syrian, 1847, rhythm 52, n.
1 (Morris, p. 273); 59, n. 2 (ibid., p. 300); 76, n. 1 (ibid., p.
347).
[71] Atanasio, Trattati contro gli ariani
II, 41,4, e 41,5, trad. it. di P. Podolak, p. 188.
[72] Cf. anche Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo X, 26, trad. it. di
G. Azzali Bernardelli, Città Nuova, Roma 1998, pp. 121-122: «Per qual motivo noi
siamo cristiani? Per la fede, potrebbe dire ognuno. In qual modo siamo salvati?
Rinati dall’alto, evidentemente, per la sua grazia (conferitaci) nel battesimo.
Come lo saremmo infatti diversamente? Avendo conosciuto questa salvezza
assicurata dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito santo, getteremo via la forma,
“il tipo di insegnamento” (typon didachès, Rm 6,17) ricevuto? […]
Se infatti il battesimo è per me principio di vita e se il primo dei giorni è
quello della rigenerazione, è chiaro che la parola più preziosa fra tutte è
quella pronunziata al momento in cui mi è stato fatto il dono dell’adozione
filiale». Allo stesso modo, per quanto riguarda lo Spirito Santo: Atanasio, Lettere a Serapione
I, 30,3, trad. it. di E. Cattaneo, Città Nuova, Roma 1986, p. 97.
[73] Atanasio, Trattati contro gli ariani
II, 42,3, trad. it. di P. Podolak, p. 189; Basilio di Cesarea, Lo Spirito
Santo X, 26, trad. it. di G. Azzali Bernardelli, pp. 121-123; Gregorio di Nissa,
Grande discorso catechetico, 1,2, trad. it. di C. Moreschini, Gregorio
di Nissa. Opere dogmatiche, Bompiani, Milano 2014, p. 205.
[74] Cf. Ambrogio, De fide ad Gratianum I, 9,58, in Sant’Ambrogio,
Opere dogmatiche I. La Fede, a cura di C. Moreschini, pp. 82-85; ugualmente Zenone di Verona,
Discorsi II 5,9, trad. it. di G. Banterle, Scrittori dell’area
santambrosiana 1, Biblioteca Ambrosiana – Città Nuova, Milano-Roma 1987, p. 253.
[75] Cf. Atanasio, De decretis Nicaenae synodi, 33-1 – 33-7, trad. it.
di E. Cattaneo, Atanasio, Il credo di Nicea, Città Nuova, Roma 2001, pp.
127-128.
[76] Cf. Ilario di Poitiers, Contro l’imperatore Costanzo 16, trad. it. di L.
Longobardo, Città Nuova, Roma 1997, pp. 62-63; Ilario difende Nicea dal
rimprovero di non essere conforme alle Scritture: secondo lui, le nuove malattie
esigono la composizione di nuovi rimedi. Allo stesso modo anche l’espressione
“innascibile”, che era un cavallo di battaglia di Ario, Aezio ed Eunomio, non è
di per sé un termine biblico per designare il Padre: «Tu stabilisci che il
Figlio è simile al Padre [similem Patri Filium]. Ma i Vangeli non lo
proclamano: perché non respingi anche questa espressione?».
[77] Atanasio, Epistula ad Afros episcopos, 1,1.3, trad. it. in A. Gallico,
Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica I 8,7-16, Città Nuova, Roma
2000, pp. 87-89; il credo di Nicea è “sufficiente”. Cf. Atanasio,
Epistula ad Epictetum, 1 (Werke I/1, p. 705s.).
[78] Il termine “niceno” poteva ugualmente essere applicato a formulazioni di
confessioni di fede che ampliavano il Simbolo di Nicea, a condizione che queste
ne conservassero il contenuto e non adottassero dottrine opposte. Cf. DH 300 (e
supra, § 4).
[79] Concilio di Calcedonia, Actio 3, 10.12; 2,1,2, 79 [gr.]; 2,3,2, 5f [lat.], DH 300; la “definizioneˮ (horos)
di Calcedonia si fonda su Nicea, insieme al Simbolo dei 150 Padri riuniti a
Costantinopoli (ACO 2,1,2, 126-129 [gr]): «Questo sapiente e salutare simbolo
della divina grazia sarebbe già sufficiente alla piena conoscenza e conferma
della fede. Offre infatti un perfetto insegnamento intorno al Padre, al Figlio e
allo Spirito Santo e presenta, a chi l’accoglie con fede, l’incarnazione del
Signore»: «Sufficeret quidem ad plenam cognitionem pietatis et confirmationem sapiens hoc
et salutare divinae gratiae Symbolum; de Patre enim et de Filio et de Spiritu
sancto perfectionem docet et inhumanationem fideliter accipientibus repraesentat» (COeD, 1962, p. 60).
[80] Francesco, Bolla di indizione del Giubileo ordinario dell’anno 2025,
Spes non
confundit, 9 maggio 2024, 17.
[81] Si tratta di un rimando simbolico a Gn 14,14.
[82] Atanasio,
De synodis 5, 3 (Athanasius, Werke II/1 p. 234), nostra traduzione.
[83] Cf. Basilio di Cesarea, Homilia 16 in illud “In principio erat Verbum”,
PG 31, coll. 471-482. Si noterà, comunque, che il Simbolo, a differenza del
Prologo di Giovanni, evita il termine “Logos”. In quanto concetto centrale della
filosofia greca, il termine veniva inevitabilmnete compreso in modo
subordinazionista (ariano) dai Padri più familiarizzati con la filosofia greca.
[84] Chi, come Fotino o Ario, “non crede che Cristo è Dio, o che il Figlio
procede dal Padreˮ, “rende amaro” l’evangelista Giovanni: Cromazio d’Aquileia,
Sermone 21,3, trad. it. di G. Banterle, p. 127. «Cammina sempre di giorno
chi segue Cristo, eterna luce»: Sermo 18,1, p. 109. «Unico è, dunque, il
trono della maestà del Padre e del Figlio», «non c’è nessuna distinzione di
dignità»: Sermo 8,4, p. 57.
[85] Zenone di Verona,
Discorsi II, 5, 9 e 10, trad. it. di G. Banterle, p. 253; Sermo II, 8, pp. 269-273.
[86] Giovanni Crisostomo, Catechesi battesimali III,1, trad. it. di A. Ceresa-Gastaldo, Città
Nuova, Roma 1982, pp. 75-76.
[87] Agostino, De agone christiano, 18, trad. it. di C. Carena – L. Manca – P.
Siniscalco – C. Fabrizi – V. Tarulli – F. Cruciani, Sant’Agostino, Morale e
ascetismo cristiano, Città Nuova, Roma 2001, p. 101; De fide et symbolo,
5 e 18, trad. it. di A. Pieretti, Sant’Agostino, La fede e il
simbolo, Città Nuova, Roma 1995, pp. 261; 279-281. Il dibattito propriamente
teologico con gli homei è condotto da Agostino nel De Trinitate I-VII
così come nel Contra sermonem Arianorum e nel Contra Maximinum
haereticum Arianorum episcopum: trad. it. di E. Peroli, Sant’Agostino,
Opere antiariane, Città Nuova, Roma 2000.
[88] Gregorio di Nissa, Grande discorso catechetico, 39, 5, trad. it. di C.
Moreschini, Gregorio di Nissa. Opere dogmatiche, p. 333: «Allora colui
che ha senno dovrà necessariamente scegliere una delle due eventualità: o crede
che la santa Trinità sia di natura increata e che per questo è l’iniziatrice,
per mezzo della generazione spirituale, della sua stessa vita, oppure, se pensa
che il Figlio e lo Spirito Santo siano estranei alla natura del Dio primo e vero
e buono (intendo dire il Padre), e non accetta, nel momento della generazione,
la fede in queste Persone, faccia attenzione a non venire a far parte di quella
natura che è manchevole e bisognosa di chi la renda buona; a non ricondursi, in
certo qual modo, alla sostanza a lui connaturata, allontanando la sua fede dalla
natura suprema».
[89] Ambrogio, In Lucam IV, 67, in Sant’Ambrogio, Opere esegetiche IX/1,
Esposizione del Vangelo secondo Luca, trad. it. di G. Coppa, Opera Omnia
di Sant’Ambrogio 11, Biblioteca Ambrosiana – Città Nuova Editrice,
Milano-Roma 1978, pp. 353-355.
[90] Cf. A. Grillmeier, «Das “Gebet zu Jesusˮ und das “Jesusgebetˮ», in
Fragmente zur Christologie. Studien zum altkirchlichen Christusbild,
Fribourg 1997, pp. 357-371.
[91] Cf.2Cor 12,8.9; Rm 10,12; 2Pt 3,18; invocazioni inserite nella
liturgia: 1Cor 16,22; Ap 22,20; cf. Didachè 10,6.
[92] In particolare Fil 2,6-11; Col 1,15-20; Ef 1,3-10;
1Tm 3,16; Ap 5,6-14.
[93] Cf. Origene, De oratione X, 2; XV, 1: «Se abbiamo compreso la vera
essenza della preghiera, non dobbiamo pregare mai alcuno dei mortali, neppure lo
stesso Cristo»; XVI,1, trad. it. di N. Antoniono, Origene, La preghiera, Città Nuova, Roma 1997,
pp. 64-65; 84-85; 88-89.; Contra Celsum, VIII, 13, trad. it. di P. Ressa, Origene, Contro Celso, Morcelliana, Brescia 2000,
p. 573.
[94] Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo 25-29.68, trad. it. di G. Azzali Bernardelli, pp.
120-128; 185-186.
[95] Ad esempio Atanasio, che utilizza la dossologia tradizionale in funzione
anti-sabelliana, e Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo 3.4.16, trad. it. di G. Azzali Bernardelli, pp. 89-91; 106-108, che sottolinea
la differenza tra oikonomia (la mediazione salvifica di Cristo) e
theologia (figlio della stessa dignità).
[96] Si veda ad esempio la
Traditio apostolica: durante la consacrazione dei vescovi e dei presbiteri, così come
durante la preghiera eucaristica, la dossologia finale era la seguente: «Per il
tuo servo Gesù Cristo, per il quale la gloria è al Padre, al Figlio e allo
Spirito Santo»; Origene, Omelie su Luca 37, 5, trad. it. di S. Aliquò,
Origene, Commento al Vangelo di Luca, Città Nuova, Roma, 1969, p. 234; Gregorio di Nazianzo,
Oratio 19, n. 17: «Offriamo a Dio l’obbligo della lode, che è una sola
per il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo»; Oratio 17, n. 13: «In Cristo
Gesù Signore nostro. A lui la gloria e la potenza, l’onore ed il regno con il
Padre e lo Spirito Santo, come era e sarà ed è ora e nei secoli dei secoli», in
Gregorio di Nazianzo. Tutte le orazioni, a cura di C. Moreschini,
trad. it. di C. Sani e M. Vincelli, Bompiani, Milano 2000, pp. 493, 429.
[97] Basilio di Cesarea, Lo Spirito Santo 29,73, trad. it. di G. Azzali Bernardelli, pp.
192-193. L’esempio del vescovo Leonzio di Antiochia mostra a che punto la
questione della forma della dossologia poteva diventare esplosiva nella vita
delle Chiese locali: per non creare confusione con gli ariani o i loro
avversari, egli non pronunciava più le parole della dossologia ad alta voce,
così che «i vicini sentivano soltanto la conclusione nei secoli dei secoli»: Teodoreto di Cirro,
Storia ecclesiastica 2,24,3, trad. it. di A. Gallico, p. 199.
[98] Basilio di Cesarea, Epistula 159, 2; cf. Ep. 125, 3, Courtonne II, pp. 86s., poi
pp. 33s. Cf. anche Lo Spirito Santo VII, 16; X, 24; X, 26, trad. it. di
G. Azzali Bernardelli, pp. 106-108.
[99] Testo di A. Grillmeier, Fragmente zur Christologie, Fribourg 1997,
p. 365.
[100] Gregorio di Nissa, Epistula 5,7, trad. it. in R. Criscuolo, Associazione di studi
tardoantichi, Napoli 1981, pp. 93-94.
[101] Cassiodoro, Expositio psalmorum, prooem. n. 17, trad. it. di A. Caruso,
Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, Spaccati di vita. 1. I salmi di Gesù,
Vivere in, Roma 2004, p. 2.
[102] Il Sinodo di Vaison (524 d.C.), Canone 5, Mansi 8, col. 725: «Quia non solum in sede apostolica, sed etiam per totum Orientem et totam
Africam vel Italiam propter Haereticorum astutiam, qui Dei filium non semper cum
Patre fuisse, sed a tempore coepisse blasphemant, in omnibus clausulis post
Gloriam patri etc. Sicut erat in principio dicitur; etiam et nos in
universis ecclesiis nostris hoc ita dicendum esse decernimus».
[103] Cf. Sozomeno, Storia ecclesiastica VIII, 8,1-3, trad. it. di S.
Borzì, Città Nuova, Roma 2024, pp. 612-613; Ambrogio, Contra Auxentium sermo
de basilicis tradendis n. 34, in Sant’Ambrogio, Discorsi e Lettere
II/III. Lettere, a cura di G. Banterle, Opera Omnia di Sant’Ambrogio 21, Biblioteca Ambrosiana – Città Nuova Editrice,
Milano-Roma 1988, p. 135.
[104] Si veda per esempio, De Nativitate IV, 143-214 e XI. Il testo De
Nativitate IV, 154-156 è molto chiaro: «E mentre abitava nel grembo di sua
madre, nel suo grembo abitavano tutte le creature. Stava in silenzio come un
feto mentre impartiva tutti i suoi precetti a tutte le sue creature. Senza il
primogenito nessuno può avvicinarsi all’essenza [divina]: lui [solo] ne è
all’altezza» (trad. it. di I. De Francesco, pp. 194-195).
[105] De fide LXXVI, 1-3. 7 (ed. Beck, Louvain, 1955, CSCO 154, pp. 232-233; CSCO 155,
pp. 198-199); ibid., VI, 1-8 (CSCO 154, pp. 24-27; CSCO 155, pp. 18-20).
[106] Si vedano gli inni De fide, XL e LXXIII.
[107] Inni De fide, LII, 1-3 (CSCO 154, pp. 161-162; CSCO 155, p. 138).
[108] Efrem, Hymnes contre les hérésies. Hymnes contre Julien, tome I. Hymnes contre les hérésies I-XXIX, XXII, 20, Testo critico di
CSCO di E. Beck, o.s.b.; introduzione, traduzione, note e indice di D.
Cerbelaud, o.p., SC 587, Cerf, Paris 2017, p. 399. Bisogna notare che, anche se
l’insegnamento di Efrem è perfettamente in accordo con l’ortodossia nicena, il
vocabolario e le espressioni non sono quelle di Nicea; la cosa è certamente
dovuta alla forma poetica, consapevolmente scelta, e non discorsiva, di questo
insegnamento.
[109] Balaï (Balaeus), Gebete, BKV 26, p. 92s; Isacco di Antiochia, 1er poème
sur l’Incarnation (S. Isaaci Antiochi Opera omnia I, ed. G. Bickell,
1873, p. 23).
[110] Prudenzio, Apotheosis, linea 309-311, testo critico, trad., commento e
indici di G. Garuti, Mucchi editore, Modena 2005, p. 70.
[111] Si veda Ireneo, così spesso citato da Henri de Lubac: «Omnem novitatem
attulit, semetipsum afferens», Ireneo di Lione, Contro le eresie IV,
34,1, trad. it. di A. Cosentino, vol. 2, pp. 270-271; cf. anche Francesco, Esort. Ap.
Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 11.
[112] Su questa distinzione, si veda Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm.
Dei Verbum, 18 novembre 1965, 2-5 e 7-8.
[113] «Noi non possiamo conoscere Dio senza l’aiuto di Dio», Ireneo di Lione,
Contro le eresie IV, 5,1, trad. it. di A. Cosentino, vol. 2, p. 158.
[114] «Se noi riceviamo la testimonianza degli uomini, la testimonianza di Dio è
più grande. Questa infatti è la testimonianza di Dio: egli ha reso testimonianza
a suo Figlio. Chi crede nel Figlio di Dio, ha questa testimonianza in sé» (1Gv
5,9-10).
[115] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm.
Dei Verbum, 18 novembre
1965, 2.
[116] J. Ratzinger, Gesù di Nazaret. La figura e il messaggio, (Opera Omia 6/1), ed. it. a cura di P. Azzaro, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano
2013, p. 438.
[117] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm.
Dei Verbum, 18
novembre 1965, 2; cf. 2Pt 1,4.
[118] Cf. Tommaso d’Aquino, Summa theologica, II-II, q.25, a.1, Resp.
[119] Paolo sottolinea che Cristo ci fa entrare nel pensiero di Dio stesso,
quando cita Isaia 40,13: «Chi ha conosciuto il pensiero del Signore (LXX:
noun Kuriou; Heb: ruah Adonai) per istruirlo? Ora, noi abbiamo il
pensiero di Cristo» (cf. anche Rm 11,34). Cf. M. Quesnel, La première épître aux Corinthiens,
Commentaire Biblique: Nouveau Testament 7, Cerf, Paris 2018, pp. 88-92.
[120] Francesco, Lett. Enc.
Lumen fidei, 29 giugno 2013, 18.
[121]
Ibid., n. 27, dove si cita Gregorio Magno, Homiliae in Evangelia, II, 27, 4:
PL 76, 1207.
[122] Cf. Francesco,
Discorso a Napoli in occasione della conferenza “La
teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del mediterraneo”, 21
giugno 2019, p. 9.
[123] «Dalla grandezza e bontà delle creature per analogia si può
conoscere il loro autore» (Sap 13,5). Cf. Sancti Thomae de Aquino Scriptum super Sententiis liber I, q. 1, a. 2, ad 2, che evoca l’«analogia creaturae ad Creatorem».
[124] Cf. M. Lochbrunner, Analogia Caritatis. Darstellung und Deutung der Theologie Hans Urs von Balthasars, Freiburg im Breisgau – Basel – Wien, Herder, coll. «Freiburger Theologische Studien», n. 120, 1981, p. 62 e pp. 292-293. Si veda
anche Commissione Teologica Internazionale,
Teologia, Cristologia e
antropologia, 1981, D, 1: «L’annuncio che ha per oggetto Gesù Cristo, Figlio
di Dio, si presenta sotto il segno biblico per voi, per cui la
cristologia tutta va trattata in prospettiva soteriologica. Giustamente, quindi,
in un certo senso, alcuni autori moderni hanno tentato di elaborare una
cristologia “funzionale”. Viceversa, però, bisogna parimenti ritenere che
“l’esistenza per gli altri” di Gesù Cristo non può separarsi dalla sua relazione
al Padre, né dalla sua comunione intima con lui e che, di conseguenza, deve
fondarsi sulla sua filiazione eterna. La pro-esistenza di Gesù Cristo,
mediante la quale Dio stesso si comunica agli uomini, presuppone la sua
pre-esistenza».
[125] Per questo san Tommaso d’Aquino insiste sul fatto che Adamo è stato dotato
della grazia fin dalla creazione, senza la quale non avrebbe potuto realizzare
la sua vocazione umana. Cf. Sancti Thomae de Aquino Scriptum super Sententiis liber II, d.29,
q.1, a.2; d.30, q.1, a.1; Summa theologica, I, q.95, a.1; I-II, q.109,
a.5.
[126] J. Ratzinger, Gesù di Nazaret. Scritti di cristologia, (Opera Omnia 6/2), ed.
it. a cura di P. Azzaro, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2015, p.
85.
[127] Ibid., p. 86.
[128] «In verità, in verità io vi dico: il Figlio da se stesso non può fare
nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio
lo fa allo stesso modo. Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto
quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, perché voi
ne siate meravigliati» (Gv 5,19-20); «Poiché questo è il messaggio che
avete udito da principio: che ci amiamo gli uni gli altri» (1Gv 3,11).
[129] J. Ratzinger, Gesù di Nazaret, op. cit., p. 92.
[130] Cf. Benedetto XVI, Lett. Enc.
Caritas in veritate, 29 giugno 2009,
33.
[131] P. Florensky, La Colonna e il fondamento della verità. Saggio di
teodicea ortodossa in dodici lettere, San Paolo, Milano 2024, pp. 63-64.
Quando Florensky evoca la «definizione della Chiesa», piuttosto che
l’istituzione ecclesiale, egli intende il Mistero della Chiesa in tutta la sua
profondità mistica e teologica.
[132] «Τοῦ Θεοῦ Λόγον ἀρνούμενοι, εἰκότως καὶ λόγον παντός εἶσιν ἕρημοι», Atanasio,
Il credo di Nicea, Introduzione, 2,1, trad. it. di E. Cattaneo, p.
57.
[133] Cf. Agostino, Confessioni, III, vi, 11, trad. it. di C. Carena,
Città Nuova Roma 20078, p. 67; Tommaso d’Aquino, Summa theologica,
I, q.104, a.1, Resp.
[134] Cf. supra, §§ 32-37.
[135] Cf. Commissione Teologica Internazionale,
Teologia, Cristologia e
antropologia, 1982, C.
[136] Francesco, Esort. Ap.
Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 115.
[137] «É proprio della persona umana non poter giungere ad una personalità vera
e piena se non per mezzo della cultura, coltivando cioè i beni e i valori della
natura», Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Past.
Gaudium et spes, 7 dicembre 1965, 53, § 1.
[138] Francesco, Esort. Ap.
Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 115. Si veda anche, come esempi, Id.,
Lettera sul ruolo della letteratura nella
formazione, 17 luglio 2024; Id.
Lettera sul rinnovamento dello studio
della storia della Chiesa, 21 novembre 2024.
[139] Francesco, Cost. Ap.
Veritatis gaudium, 27 dicembre 2017, 2, che si ispira
all’Esortazione Apostolica di Papa Paolo VI,
Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, 19.
[140] Concilio Ecumenico Vaticano II, Decr.
Ad gentes, 7 dicembre 1965, 11.
[141] Ad esempio, l’Egô eimi del IV Vangelo, o la terminologia
di Eb 1,3 o di 2Pt 1,4.
[142] «Quando la Chiesa entra in contatto con grandi culture precedentemente non ancora
raggiunte, non può lasciarsi alle spalle ciò che ha acquisito
dall’inculturazione nel pensiero greco-latino. Rifiutare una simile eredità
sarebbe andare contro il disegno provvidenziale di Dio, che conduce la sua
Chiesa lungo le strade del tempo e della storia», Giovanni Paolo II, Lett. Enc.
Fides et Ratio, 14 settembre 1998, 72.
[143]
Ibid., 71.
[144] Si veda la tematica della “teologia dell’ascolto” come antidoto alla “sindrome
di Babele”, Francesco,
Discorso in occasione del Convegno “La teologia dopo
Veritatis gaudium nel contesto del mediterraneo” promosso dalla
Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Napoli 21 giugno 2019,
AAS 111 (2019) 1101; 1103-1104.
[145] Questa purificazione e trasfigurazione delle culture è ciò che permette di
evitare il rischio del relativismo, sottolineato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede,
Dich.
Dominus Iesus, 6 agosto 2000, 4.
[146] «L’incontro della fede con le diverse culture ha dato vita di fatto a una
realtà nuova», Giovanni Paolo II, Lett. Enc.
Fides et Ratio, 14 settembre 1998, 70.
Sul mantenimento dell’identità culturale si veda ibid., 71.
[147] A Diogneto, V, 1-4, in C. Dell’Osso, I Padri apostolici, pp. 345-346.
[148] «Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla
cima dei monti e s’innalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le
genti. Verranno molti popoli e diranno: “Venite, saliamo sul monte del Signore,
al tempio del Dio di Giacobbe […]. Poiché da Sion uscirà la legge e da
Gerusalemme la parola del Signore. […] Una nazione non alzerà più la spada
contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerraˮ». (Is
2,2-4; cf. Mic 4,1-4); «La mia casa si chiamerà casa di preghiera per
tutti i popoli» (Is 56,7; cf. Zc 14,16).
[149] É sorprendente constatare come Paolo, proclamando il Vangelo nella scia di
Pentecoste, celebri all’Areopago l’unità della famiglia umana: «Egli creò da uno
solo tutte le nazioni degli uomini degli uomini, perché abitassero su tutta la
faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del
loro spazio» (At 17,26).
[150] Cf. Giovanni Paolo II, Lett. Enc.
Fides et Ratio, 14 settembre 1998, 95-96.
[151] Cf. Alessandro di Alessandria, Lettera ad Alessandro di Bisanzio 5,
trad. it. in A. Gallico, Teodoreto di Cirro, Storia ecclesiastica I,
4,1-60, pp. 59-75.
[152] Cf. Commissione Teologica Internazionale,
La sinodalità nella vita e
nella missione della Chiesa, 2018, 19.
[153] Cipriano, Epistula 14, 4, trad. it. di M. Vincelli, Scrittori cristiani
dell’Africa romana 5/1, Città Nuova, Roma 2006, p. 163. Questo sviluppo su
Ignazio di Antiochia e Cipriano segue da vicino il documento della Commissione Teologica Internazionale,
La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, 25, che potrà essere consultato per maggiori dettagli.
[154] Commissione Teologica Internazionale,
La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa, 28.
[155] Cf. J. A. Brundage, Medieval Canon Law, Longman, London-New York
1995, p. 5.
[156] Un sinodo è per principio «governato secondo il principio del consenso e
della concordia (harmonia) espresse dalla concelebrazione eucaristica,
come implicato dalla dossologia finale del Canone apostolico, n. 34», Commissione Internazionale Mista per il Dialogo Teologico tra la Chiesa
Cattolica e la Chiesa Ortodossa, Documento di Ravenna: Conseguenze
ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa, Comunione
ecclesiale, conciliarità e autorità, 2007, 26; «La Chiesa si [rivela]
essa stessa come cattolica nella sinassi della Chiesa locale»: ibid.,
22.
[157] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost.
Sacrosanctum Concilium, 4
dicembre 1963, 10; Commissione Teologica Internazionale,
La sinodalità nella
vita e nella missione della Chiesa, 47.
[158] Commissione Teologica Internazionale,
La sinodalità nella
vita e nella missione della Chiesa, 29.
[159] Rousselot considerava che certi procedimenti euristici di san Tommaso
corrispondevano a una «priorità e ad una anteriorità reciproca» di due principi
inseparabili e ordinati l’uno all’altro: P. Rousselot, s.j., «Les Yeux de la
foi», Recherches de Science Religieuse, 1 (1910), p. 448.
[160] Cf. Agostino: “Crede ut intelligas”, Sermo 43, 7 e 9, trad. it. di
P. Bellini – F. Cruciani – V. Tarulli, Sant’Agostino, Discorsi, Città
Nuova, Roma 2015, pp. 757-761; Anselmo di Aosta: “Credo ut intelligam”,
Proslogion, 1,100, trad. it. di G. Sandri, Cedam, Padova 1959, p. 95.
[161] «Al Concilio stesso non s’è voluto dare, e giustamente, uno scopo pastorale,
tutto rivolto all’inserimento del messaggio cristiano nella circolazione di
pensiero, di parole, di cultura, di costume, di tendenze dell’umanità, quale
oggi vive e si agita sulla faccia della terra?», Paolo VI, Lett. Enc.
Ecclesiam suam, 6 agosto 1964, 70.
[162] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm.
Dei Verbum, 18
novembre 1965, 7-8.
[163] Cf. Catechismo della Chiesa cattolica, 156, con rimando alla
Costituzione Dogmatica
Dei Filius del Concilio Vaticano I, al cap. 3, DS
3008.
[164] «Hoc autem testimonium vel est hominis tantum: et istud non facit virtutem
fidei, quia homo et fallere et falli potest. Vel istud testimonium est ex
iudicio divino: et istud verissimum et firmissimum est, quia est ab ipsa
veritate, quae nec fallere, nec falli potest. Et ideo dicit, ad Deum, ut
scilicet assentiat his quae Deus dicit»: Sancti Thomae de Aquino Super
Epistolam B. Pauli ad Hebraeos lectura [rep. vulgata], cap. 6, l. 1.
[165] Il termine impiegato abitualmente è «filiazione», ma si tratta qui di
insistere sul cominciare della filiazione, sullo stesso movimento mediante il
quale si diventa figli e figlie di Dio.
[166] «Per ricostruire l’intenzione degli agiografi si deve tenere conto tra
l’altro anche dei generi letterari. Infatti, la verità viene diversamente
proposta ed espressa nei testi secondo i diversi stili storici o profetici o
poetici, o altri generi discorsivi. […] Ora, la Scrittura deve essere letta e
interpretata con lo stesso Spirito con il quale è stata scritta», Concilio Ecumenico Vaticano II,
Cost. Dogm. Dei Verbum, 18 novembre 1965, 12.
[167] «Questo progetto della rivelazione avviene con fatti e con parole (gestis
verbisque) intrinsecamente connessi tra loro, sicché le opere compiute da
Dio nella storia della salvezza manifestano e corroborano la dottrina e le
realtà significate dalle parole, e le parole proclamano le opere e spiegano il
mistero in esse contenuto»,
Dei Verbum, 18 novembre 1965, I, n. 2.
[168] Benedetto XVI, Esort. Ap.
Verbum Domini sulla Parola di Dio nella
vita e nella missione della Chiesa, 30 settembre 2010, 55.
[169] «Mistero della Chiesa, più profondo ancora, se possibile, più “difficile a
credersiˮ del Mistero di Cristo, come quest’ultimo era già più difficile a
credersi del Mistero di Dio», in H. de Lubac, Cattolicismo. Aspetti sociali
del dogma, Opera Omnia 7, trad. U. Massi, Jaca Book, Milano 1978, p.
43.
[170] Concilio Ecumenico Vaticano II, Decr.
Unitatis redintegratio, 21
novembre 1964, 11.
[171] Si veda il testo di riferimento
L’interpretazione dei dogmi (1990),
II, 3, § 3, in Commissione Teologica Internazionale, Documenti 1969-2004,
Seconda edizione riveduta e corretta, prefazione Card. W. J. Levada;
introduzione L. Ladaria, s.j., Edizioni Studio Domenicano, Bologna 2010, p. 403;
cf. anche Concilio Ecumenico Vaticano I, Cost. Dogm.
Dei Filius, 24
aprile 1870, IV, DH 3016.
[172] Si può pensare all’idea di una «conversazione nello Spirito Santo», cf. Francesco,
«Discorso di apertura della XVI sessione del Sinodo dei Vescovi», 4
ottobre 2023: «La Chiesa, un’unica armonia di voci, ha diverse voci, suscitate
dallo Spirtio Santo: è così che dobbiamo concepire la Chiesa».
[173] Cf. Commissione Teologica Internazionale,
La sinodalità nella
vita e nella missione della Chiesa, 19-21.
[174] Cf. Commissione Teologica Internazionale,
Il “sensus fidei” nella vita
della Chiesa, 2014, 67-86.
[175] Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm.
Dei Verbum, 18
novembre 1965, 10.
[176] Commissione Teologica Internazionale,
Il “sensus fidei” nella vita della Chiesa, 2014, 77.
[177] Concilio Ecumenico Vaticano II, Decr.
Ad gentes, 7 dicembre 1965, 15.
[178] «Tutta la mia fede è nel più banale dei miei segni di croce e, quando
pronuncio “Padre Nostroˮ, vi ho incluso tutto quello di cui mi sarà data
conoscenza soltanto nella rivelazione della gloria»: Y. Congar, La tradizione
e le tradizioni, Saggio teologico, vol. 2, Paoline, Roma 1965, p. 356.
[179] Commissione Teologica Internazionale,
La teologia oggi: prospettive, principi e criteri, 2012, 33:
«Soggetto della fede è il popolo di Dio nel suo insieme, che nella potenza dello
Spirito afferma la Parola di Dio. Per tale ragione il Concilio dichiara che la
totalità del popolo di Dio partecipa al ministero profetico di Gesù e che,
avendo l’unzione che viene dallo Spirito Santo, (1Gv 2, 20.27), “non può
sbagliarsi nel credereˮ».
[180] Tertulliano, Liber de praescriptionibus adversus haereticos, XX,
8-9, trad. it. di I. Giordani, Tertulliano, L’apologetico. La
prescrizione contro gli eretici, Città Nuova, Roma 1967, p. 188.
[181] Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost. Dogm.
Lumen gentium, 21 novembre 1964, 12.
[182]
Ibid., 24 in fine, e 25.
[183] «Tale concetto propagandistico politico-teologico venne adottato dalla chiesa
durante la sua espansione nell’impero romano. Esso si incontra poi con un
concetto della teologia politica dei pagani, secondo cui il monarca divino
certamente domina, ma sono gli dèi nazionali a governare. Per poter affrontare
questa teologia pagana, tagliata su misura per l’impero romano, si affermava ora
da parte cristiana, che gli dèi nazionali non potevano affatto governare, perché
con l’impero romano era stato annullato il pluralismo nazionale. [….] Ma
l’annuncio cristiano del Dio unitrino si pone al di là del giudaismo e del
paganesimo, in quanto il mistero della Trinità esiste soltanto nella divinità
stessa, non nella creatura umana. Così come la pace, che il cristiano cerca, non
viene garantita da nessun imperatore, ma è soltanto un dono di colui, il quale è
‘più di ogni ragione’», in E. Peterson, Il monoteismo come problema politico, trad. it. di F. Della Salda Melloni - H. Ulianich, Queriniana, Brescia 1983,
pp. 71-72.
[184] Commissione Teologica Internazionale,
Il “sensus fidei” nella vita della Chiesa: al n. 26, su Newman e il
criterio del sensus fidei fidelium contro le divergenze dei vescovi nel
IV secolo; al n. 34, sulla concezione rinnovata nel XIX secolo riguardo al
carattere attivo e non solo passivo del sensus fidei fidelium; al n. 113
e al n. 118, sul rapporto tra sensus fidei e opinione pubblica
maggioritaria, dentro e fuori la Chiesa.
[185] Francesco, Cost. Ap.
Veritatis gaudium, 8 dicembre 2017, 3.
[186] Lettera 61, «A Natalia Dmitrievna Fonvizina, fine gennaio – fine febbraio
1854, Omsk», in F. Dostoevskij, Lettere, a cura di A. Farina, a cura di A. Farina, trad. di G. De Florio, A. Farina, E.
Freda Piredda, Il Saggiatore, Milano 2020, pp. 220-221.
[187] «[I poveri] hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del
sensus fidei, con le
proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci
lasciamo evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a
riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del
cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad
essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad
ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole
comunicarci attraverso di loro», Francesco, Esort. Ap.
Evangelii
gaudium, 24 novembre 2013, 198.
[188] Cf.
Catechismo della Chiesa cattolica, 540: «Cristo ha vinto il
Tentatore per noi». Si veda anche 394, 677.
[189] «Ammaestrati dalla parola e dall’esempio di Cristo (Christi verbo et
exemplo edocti), gli Apostoli hanno seguito la stessa via. Fin dai primordi
della Chiesa i discepoli di Cristo hanno lavorato per convertire gli uomini a
confessare Cristo Signore, non con un’azione coercitiva né con artifizi indegni
del Vangelo, ma principalmente con la forza della Parola di Dio. Con vigore
annunciavano a tutti il proposito di Dio Salvatore, “il quale vuole che tutti
gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm
2,4); ma nello stesso tempo rispettavano i deboli, anche se erano nell’errore,
mostrando così come “ciascuno di noi renderà conto a Dio di se stesso ˮ (Rm
14,12), e sia tenuto ad obbedire soltanto alla propria coscienza. Come Cristo,
gli Apostoli si sono sempre dedicati a rendere testimonianza alla verità di Dio,
osando arditamente annunciare “la Parola di Dio con franchezzaˮ (At 4,31)
dinanzi al popolo e ai governanti», Concilio Ecumenico Vaticano II, Dich.
Dignitatis humanae, 7 dicembre 1965, 11.
[190] Francesco, Lett. Enc.
Dilexit nos, 24 ottobre 2024, 214.
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